La privacy è morta. Lunga vita alla privacy che verrà

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Come giornalista del sito di un quotidiano, ogni giorno mi occupo non solo di persone ma anche dei loro contenitori digitali, i social network; di conseguenza dei motori di ricerca che tutto intercettano.

Facebook, Twitter, LinkedIn sono notizia come business ma anche per come influenzano le relazioni personali e sociali. Al di là della sfera privata e dell’iperattivismo online – materia per sociologi, filosofi e psicologi che stanno studiando forme depressive legate all’abuso della Rete sociale – quello che sembra mancare oggi è un accordo su cosa si deve tutelare e quindi regolare. L’ultimo episodio riguarda la strage di Brindisi: i siti di informazione hanno preso le foto di Melissa Bassi, la vittima sedicenne per cui tutti abbiamo pianto, dal suo profilo Facebook. Su Twitter è partito il dibattito fra chi diceva che era legittimo usare quelle foto, chi si indignava per lo “scippo”, chi considerava un’ipocrisia l’indignazione argomentando che qualsiasi informazione, una volta online, non è più privata, nonostante le rassicurazioni di Mister Zuckerberg.

Mentre leggevo sulla timeline gli innumerevoli tweet pensavo che non vi era nulla di nuovo nella sostanza ma solo nel mezzo: da quando esiste la stampa c’è un giornalista che va a cercare la foto della vittima – i vecchi cronisti raccontano metodi molto meno edificanti che quello di entrare in un profilo – e qualche lettore che si indigna per la rappresentazione della notizia: la foga moralista è di solito indirizzata contro la categoria dei giornalisti, mestiere deprecabile certo, ma la cui comprensione ed esecuzione sfugge ai più.

Il problema è che si gira a vuoto perché si parla di riservatezza come valore che gli stessi tutelati ogni giorno prendono a schiaffi. Mi sembra insomma che adesso lo sforzo politico e giuridico debba essere quello di formulare un concetto di privacy che finora non è esistito prendendo atto, e presto, che le cose sono cambiate. Che senso ha continuare a invocare la riservatezza quando la maggioranza della popolazione mette alla portata di tutti foto sue e dei figli minorenni, idee, opinioni, perfino quei gusti che vengono gelosamente negati alle aziende nel noioso modulo “trattamento dei dati personali”?

La legge italiana del 2003 è obsoleta: se i giudici americani e britannici hanno meno difficoltà a mettersi al passo con i tempi perché hanno un sistema più fluido basato sul precedente e tuttavia arrancano, chi è costretto ad applicare una norma non può non vedere la contraddizione di fondo. Che senso ha parlare ancora di Carta di Treviso, vedere pixelare le foto dei minori in tv e poi trovare sui social network bambini la cui unica colpa è avere genitori troppo orgogliosi e social?

Mi sembra anche sbagliata l’impostazione “social network cattivo, povero internauta in pericolo”, e chi scrive non prova alcuna simpatia per una euforia digitale che spesso è più slogan che sostanza quando non diventa credo cieco nella Rete come mezzo e fine. Al di là dell’efficacia di certe promesse, Facebook è da tempo impegnata a migliorare le impostazioni per rendere le informazioni sempre più ristrette alla cerchia di amici. Pochi giorni fa, Twitter ha aderito al “do not track” (non tracciarmi) pulsante che chiede alle aziende di non assemblare i dati dei tweeter per fini commerciali. Un sistema basato sull’onestà dell’azienda, tipicamente americano perché presume la correttezza degli attori in gioco, nella pratica poco efficace. Gli stessi siti di hacker buoni spiegano come migliorare la privacy su tutte le piattaforme disponibili. Nonostante tutto ciò la vita degli altri continua a scorrere davanti ai nostri occhi (e a quelli di aziende e malintenzionati) mentre comunicatori più che esperti – ultimo esempio il giornalista sessantenne che su Twitter ha offeso la compagna del presidente Hollande – vengono licenziati.

Negli Stati Uniti i licenziamenti e le cause civili per eccesso di opinionismo online sono iniziati almeno quattro anni fa. Nel 2009 Jeffrey Rosen, professore alla George Washington University, già teorizzava “un mondo senza anonimato”: «La sola cosa che la privacy può proteggere oggi è non essere giudicati fuori dal contesto e sulla base di informazioni frammentarie». Nel mondo del web il 2009 è già preistoria, le teorie cambiano velocemente, la Rete è generatore inesauribile di idee da guru, zeppa di slogan che durano il tempo di un trending topic. Quando però si tratta di materie che riguardano tutti l’inadeguatezza di certe teorie non è accettabile. Sarebbe forse più realistico riconoscere la responsabilità di chi si fa tracciare la vita anche cronologicamente ma individuare lo spirito del tempo e tutelare ancora e nonostante tutto la persona, invece che inseguire utopie protezionistiche che gli stessi protetti disattendono come valore.

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1 Comment

  1. La legge italiana del 2003 è la legge di tutta l’Unione Europea. Non mi pare poi che la nozione di riservatezza sia mutata, essa da sempre distingue fra atti volontari di divulgazione di fatti e notizie da parte dell’interessato ed uso o ri-uso di informazioni attinenti alla vita privata per fini diversi da quelli oggetto di divulgazione da parte dell’interessato.
    Ha senso parlare di Carta di Treviso perché c’è una certa differenza fra il titolare del diritto che divulga una propria immagine ponendo in essere un atto di autonomia e la stessa immagine replicata dai media senza il consenso dell’interessato ed in contesti differenti. Differenza che il miglior giornalismo italiano ha imparato negli anni a comprendere e valorizzare.
    Non è una nuova o vecchia privacy, è l’essenza di un diritto che va riconosciuto e garantito e di cui, come accade per altri diritti, l’interessato può anche in parte spogliarsi, ma senza che questo ne muti l’essenza e la ragion d’essere.

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