Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con la decisione n. 3034 datata 08 febbraio 2011, affrontano il delicato tema del rapporto tra norme di diritto processuale e diritto alla riservatezza, già oggetto di alcuni precedenti di legittimità degli scorsi anni (il riferimento è a Cass. nn. 10690/08, 12258/08, 3358/09 e 15327/09).
La fattispecie concreta oggetto del giudizio è quantomai comune nella prassi processuale dei giudizi che investono la patologia delle relazioni matrimoniali: in un procedimento di divorzio, il giudice istruttore ritiene di ordinare ad una parte l’esibizione di documentazione relativa ai rapporti bancari attivi presso diversi istituti, alle docenze presso due Atenei italiani, nonché alcuni modelli U/750. La parte onerata decide di adempiere spontaneamente alla richiesta del giudice, inviando la relativa richiesta direttamente agli enti interessati. Tuttavia, nelle more, la controparte, non informata di tale iniziativa, in esecuzione del provvedimento del giudice, notifica anch’essa a ciascuno di tali enti copia conforme di diversi verbali d’udienza, contenenti tra l’altro dati sensibili sullo stato di salute dell’onerato. Quest’ultimo, ritenuto gravemente leso il proprio diritto alla riservatezza, ricorre (ex art. 152 d.lgs. n. 196/03) innanzi al Tribunale di Milano per ottenere il risarcimento dei danni patiti in seguito a tale asserito illecito trattamento dei dati. A tal fine, vengono convenuti in giudizio gli avvocati dell’ex coniuge, costituiti nel procedimento di divorzio e, perciò, identificati quali titolari del trattamento dei dati contenuti nei verbali d’udienza, tenuti ad utilizzarli esclusivamente con l’adozione di misure idonee a tutela dell’interessato. Il giudice di merito rigetta il ricorso proposto, ritenendo che non sia configurabile alcuna violazione della disciplina in materia di dati personali nel comportamento della parte che, in un giudizio civile, notifichi a terzi un provvedimento contenente ordine di esibizione di documenti emesso dal giudice in corso del processo. In particolare, il tribunale meneghino sottolinea come il dettato del d.lgs. n. 196/03 non possa ritenersi applicabile alla fattispecie de qua, in quanto il settore della giustizia sarebbe sottratto alle regole disposte in via generale in materia di privacy. Avverso tale decisione (Trib. Milano n. 2753/09 del 27/02/2009), parte soccombente propone ricorso per cassazione, adducendo una serie articolata di motivi che, per quel che qui interessa in ordine al rapporto tra privacy e giustizia civile, sono sintetizzabili in due argomenti essenziali:
1. Contestazione della correttezza dell’esecuzione della notificazione dell’ordine di esibizione nella sua integralità;
2. Errata individuazione del titolare del trattamento dei dati personali oggetto del giudizio nell’ufficio giudiziario presso il quale pende il processo nel quale si sarebbero verificate le irregolarità lamentate, anziché nel legale difensore della parte nel cui interesse vi sarebbe stato il trattamento dei dati.
Le Sezioni Unite, dunque, traggono spunto dal rigetto del ricorso proposto per proporre una riflessione più ampia sul tema del rapporto tra norme processuali e quelle del d.lgs. n. 196/03.
Secondo la Corte, infatti, il punto nodale della questione deve essere identificato nella “individuazione del rapporto intercorrente tra la disciplina dettata dal codice di rito e quella risultante dal codice in materia di protezione di dati personali e nelle modalità del loro coordinamento”, qualora non coincidenti.
Ebbene, nella composizione delle esigenze, eventualmente contrastanti, di tutela della riservatezza e di corretto svolgimento del processo, la soluzione al “dilemma” è identificata dalla Cassazione nel riconoscimento della natura speciale delle norme che regolano il processo rispetto a quelle contenute nel codice della privacy, con conseguente prevalenza delle prime sulle seconde in caso di divergenza.
Il percorso motivazionale seguito dalla Corte per giungere a tale conclusione si focalizza tanto sull’analisi delle disposizioni del codice della privacy, quanto sulla ratio delle norme del codice di rito che possono pregiudicare la riservatezza delle parti del processo.
In particolare, rispetto al d.lgs. n. 196/03, si pone in rilievo come tale testo contenga numerose previsioni che subordinano la tutela del diritto alla riservatezza ad esigenze di giustizia. Basti pensare, a titolo esemplificativo, all’art. 8, co. 2, lett. e), che esclude il diritto di opposizione al trattamento dei dati da parte dell’interessato, previsto dall’art. 7, quando il trattamento avvenga per l’esercizio di un diritto in sede giudiziaria; all’art. 24, che esula dal consenso dell’interessato, qualora il trattamento dei suoi dati avvenga per difendere un diritto in giudizio o, ancora, all’art. 47 che sancisce l’inapplicabilità, almeno nella sua espressione generale, della disciplina sul trattamento dei dati personali ove gli stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo. In definitiva, la Cassazione desume da tale complesso di previsioni che già il codice della privacy, vista la pregnanza costituzionale del diritto di agire e difendersi in giudizio, abbia circondato il diritto alla riservatezza di un complesso di deroghe funzionali ad assicurare l’effettiva realizzazione della prima prerogativa, ritenuta preminente.
D’altro canto, passando ad esaminare specificamente le disposizioni del codice di procedura, la Suprema Corte evidenzia pure come le stesse non ignorino affatto il profilo della tutela della privacy delle parti processuali; anzi numerose sono le norme di rito riscritte in anni recenti proprio per realizzare un migliore contemperamento tra esigenze connesse alla riservatezza e corretto funzionamento dei meccanismi processuali: è il caso, ad esempio, degli artt. 138 e 140 c.p.c. in materia di notificazioni o degli artt. 118 e 210 c.p.c. in tema di esibizione di materiale probatorio.
Quest’ultimo argomento serve alla Corte per concludere nel senso che le norme del codice di rito non sono suscettibili di integrazione da parte delle disposizioni del codice della privacy, proprio perché il contemperamento di interessi tra riservatezza delle parti e corretto “funzionamento” del meccanismo processuale è stato già realizzato, una volta per tutte, dal legislatore tramite gli interventi di riforma ritenuti necessari. In buona sostanza, le norme del codice di procedura rappresenterebbero già la “cristallizzazione” del “miglior punto di equilibrio possibile”, identificato dal legislatore italiano, tra privacy e processo. Ciò comporta che il rispetto delle norme di procedura implica, di per sé, anche il rispetto della privacy, senza possibilità di ulteriori valutazioni in merito.
La conclusione è, dunque, netta: la corrispondenza del contegno delle parti del processo alle prescrizioni delle norme di rito non è suscettibile di ulteriore valutazione in termini di rispetto o meno del diritto alla privacy, in quanto già conforme al modello normativo che il legislatore ha identificato come ottimale punto di equilibrio tra istanze di giustizia e riservatezza.
Nel caso di specie, dunque, essendo stato l’atto processuale (id est, notifica di copia conforme dei verbali d’udienza per ordine del giudice istruttore) compiuto in perfetta aderenza a quanto previsto dal codice di rito, non è configurabile alcuna lesione del diritto alla privacy delle parti coinvolte.
Le parti, infatti, così come i rispettivi legali sono prive di qualsivoglia margine di discrezionalità rispetto ai provvedimenti del giudice, cui devono adeguarsi perfettamente, pena l’incorrenza in preclusioni processuali o vizi procedimentali. Al contrario, le disposizioni del codice di rito lasciano ampia discrezionalità proprio al giudicante, che a fronte di atti che possono compromettere il diritto alla riservatezza di una delle parti potrebbe decidere di “modellare” opportunamente i propri provvedimenti per evitare tale pregiudizio: si pensi, in tal senso, all’ampia sfera di valutazione rimessa al giudice dagli artt. 118 e 210 c.p.c., rispettivamente in materia di ordini d’ispezione di persone o cose (“il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire sulla loro persona o sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti della causa, purché ciò possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo”) e di ordini di esibizione (“il giudice dà i provvedimenti opportuni circa il tempo, il luogo e il modo dell’esibizione”)
Ed allora, sulla scorta delle conclusioni della Suprema Corte, l’unico margine ove ancora parrebbe residuare un profilo valutativo rispetto al caso concreto attiene proprio all’onere di verifica dell’osservanza dei principi di correttezza, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali che grava sul giudice, identificato quale titolare del trattamento nell’ambito dell’attività istruttoria espletata, nell’adozione dei propri provvedimenti. Sicché “eventuali richieste finalizzate ad assicurare adeguata tutela” alla riservatezza delle parti del processo ben possono essere proposte al giudice istruttore, “che nella fase di emanazione del provvedimento potrà adottare le eventuali misure ritenute utili al riguardo”.
Secondo il disegno delle Sezioni Unite, in definitiva, pur nell’affermazione generale, in aderenza al principio di specialità, della “secca” prevalenza delle norme del codice di rito su quelle in materia di tutela della riservatezza, residua in capo al giudice un margine di discrezionalità in questo contemperamento di interessi, allorché sia chiamato – eventualmente per iniziativa di una delle parti del processo – a modellare i propri provvedimenti in conformità ai principi di correttezza, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali. In questa ricerca di bilanciamento, invece, ruolo assolutamente marginale – rectius, inerte – , viene assegnato alle parti del processo ed ai rispettivi avvocati, chiamati ad adeguarsi esclusivamente alle previsioni del codice di rito, sicuri così di non incorrere in alcuna violazione del diritto alla riservatezza. Resta fermo, chiaramente, che il “teorema” della Cassazione circa l’utilizzo dei dati personali che siano già confluiti in un processo civile presuppone, a monte, una imprescindibile valutazione circa la correttezza, la pertinenza e la non eccedenza nel trattamento degli stessi allorché sono stati immessi nella vicenda processuale. Tale valutazione, infatti, non può che rappresentare un prius, logico prima ancora che giuridico, rispetto alla ricostruzione del giudice di legittimità circa i rapporti tra processo e privacy. In ordine a questo momento, che per certi versi è addirittura pre-processuale, torna allora ad essere centrale il ruolo delle parti, tenute a rispettare la riservatezza delle controparti processuali nella corretta selezione dei dati personali necessari, pertinenti e non eccedenti ai fini del procedimento.