Ripubblichiamo dal sito www.riforma.it (qui il link alla fonte originale) l’intervista di Marco Magnano a Deborah Behar dello scorso 28 dicembre 2016
Quella del 19 dicembre 2016 è una data destinata a cambiare in modo profondo il modo in cui la Germania, e l’Europa al seguito, guarderà alla propria sicurezza nel prossimo futuro.
Infatti, le parole di Angela Merkel il giorno dopo l’uccisione in Italia del ventiquattrenne Anis Amri, principale sospettato dell’attentato di Berlino, segnano una deviazione del governo tedesco nel percorso verso un approccio diverso alla sicurezza e alla libertà. Fortemente criticata da destra per le dichiarazioni sull’accoglienza seguite alla strage del mercato di Natale a Berlino, lo scorso 23 dicembre la cancelliera, a sorpresa, si è detta «disposta ad adottare cambiamenti di leggi o politiche laddove se ne veda la necessità». Si tratta di parole che aprono di fatto la corsa elettorale del 2017 in numerosi Paesi europei, in una tornata che potrebbe premiare come mai prima d’ora i movimenti populisti ed euroscettici, da Marine Le Pen in Francia a Geert Wilders in Olanda, fino all’Afd di Frauke Petry in Germania, partiti che chiedono di chiudere le frontiere e cancellare con un colpo di spugna la libera circolazione nell’area Schengen.
Merkel ha assicurato che eventuali decisioni verranno prese dopo aver analizzato tutti gli aspetti del caso Amri, sia a proposito dell’attentato, sia in relazione alla sua permanenza in Germania prima dell’attacco, e ha detto che si aspetta che i ministeri di Interno e Giustizia, in coordinamento con le amministrazioni locali e ai servizi segreti, le presenteranno presto dei risultati. Ci saranno «leggi più efficaci per garantire la sicurezza», che verranno adottate «con rapidità», parole che nelle intenzioni di Merkel dovrebbero servire a tamponare al più presto le polemiche per il fallimento della sicurezza tedesca, di cui sondaggi elettorali e dibattito sui social sono un termometro.
Quella della continua tensione tra sicurezza e libertà, tuttavia, non è una questione così recente. Sono trascorsi quasi due anni da quando, in seguito alla strage di Charlie Hebdo, il governo socialista francese guidato da François Hollande promulgò le leggi d’emergenza, rinnovate poi dieci mesi dopo in seguito all’attentato del Bataclan. Secondo Deborah Behar, collaboratrice di MediaLaws, gruppo di lavoro e ricerca che si occupa di media e sicurezza, «su questo tema si gioca la partita elettorale del 2017 in tutta Europa. Tutti i candidati si occuperanno di quel tema, perché il bilanciamento tra sicurezza e diritti è centrale e bisogna capire come realizzarlo». La strada sembra segnata, anche perché eventuali risultati a lungo termine di politiche culturali di integrazioni in grado di prevenire in modo organico nuovi atti terroristici si potranno valutare soltanto nell’arco di una o due generazioni, un tempo incompatibile con le scadenze della politica.
Il percorso che porta un governo a decidere di ridurre le libertà dei cittadini in nome della sicurezza è una novità di questa epoca di guerra asimmetrica?
«Direi di no. Partendo dalla Francia, l’attuale restrizione della libertà in nome della sicurezza affonda le sue radici almeno a trent’anni fa. Dal 1986 a oggi i governi francesi hanno emanato almeno una quindicina di leggi e decreti antiterrorismo che hanno dato maggiore potere alle autorità per effettuare controlli e perquisizioni, e hanno anche permesso di derogare le regole processuali, riducendo per esempio le garanzie di difesa nell’acquisizione di prove o il rafforzamento di misure di prevenzione».
Negli ultimi anni si è andato a incidere in particolare su quali aspetti di questa libertà?
«Rimanendo alla Francia, che è un caso particolarmente significativo, la legge più interessanti tra quelle recenti è quella del 2014, emanata a seguito dell’attentato al museo ebraico di Bruxelles. Quell’evento aveva reso evidente la comparsa di un nuovo tipo di terrorismo, quello degli atti compiuti dai cosiddetti “lupi solitari” e questa legge ha incrementato i poteri in capo alle autorità per identificare questo tipo di soggetti. Sono due gli articoli, il nono e il decimo, che meglio di altri ci spiegano l’approccio di quella legge, con la quale la liberté si è sacrificata in nome della securité.
L’articolo 9, infatti, dà la possibilità alle autorità di chiudere, senza il vaglio dell’autorità giudiziaria, siti internet che presentano contenuti che istigano all’odio o incitano a commettere atti terroristici. L’articolo 10 invece permette alle autorità di accedere ai dati personali via cloud o di intercettare comunicazioni sulla rete. Questa norma era stata criticata persino dal presidente francese, Hollande, che aveva dubbi circa la costituzionalità di questa norma antiterrorismo. Tuttavia l’anno successivo la Corte costituzionale l’ha dichiarata legittima in quanto ritenuta necessaria per prevenire gli atti terroristici».
Eppure questa capacità di prevenzione non è tale, visto che nell’anno successivo all’emanazione di quella legge la Francia ha subito due attentati gravi e dall’alto valore simbolico.
«Infatti a queste norme si è poi aggiunto lo stato d’emergenza, indetto a gennaio 2015 e prorogato a novembre, in seguito alla strage del Bataclan. Questa condizione permette alle autorità di fare ciò che in realtà non potrebbero fare per legge, come per esempio perquisizioni a qualsiasi ora, anche durante la notte, o comunque aumentare la sorveglianza, anche qua senza il vaglio dell’autorità giudiziaria. La cosa forse interessante è che sì, la libertà è certamente la prima ad essere toccata, però non solo, perché vi è un aumento della sicurezza, ma anche perché è la sicurezza stessa a venire toccata dagli atti terroristici».
Per l’Europa la convivenza con gli attentati e di conseguenza l’emanazione di norme come queste sembrava appartenere al passato delle stagioni di lotta politica armata tra gli anni Settanta e Ottanta, ma evidentemente non è così. La risposta è sempre stata questa?
«Diciamo che si tratta di un fenomeno ad hoc, o comunque lo sono le risposte: quando un Paese viene toccato da atti terroristici prova sempre ad aumentare il suo livello di sicurezza riducendo la libertà dei cittadini, ma segue strade che variano di Paese in Paese. Tuttavia, ci sono alcune leggi che invece ritroviamo ovunque: pensiamo agli Stati Uniti, oppure al Regno Unito, dove il disegno di legge Cameron prevedeva proprio la chiusura, senza il vaglio dell’autorità giudiziaria, di siti internet che istigano all’odio. Abbiamo anche l’esempio della Germania, che si sta rimettendo in moto proprio in questi giorni e che nel 2017 potrebbe rafforzare le sue misure di sorveglianza. Il problema è che bisogna trovare un equilibrio tra libertà e sicurezza, perché i Paesi devono assolutamente evitare che in nome della sicurezza si taglino i diritti fondamentali. Pensiamo alla Turchia: anche qui vige lo stato d’emergenza, come in Francia, ma il risultato è ben diverso».
Oltre alla natura di principio, è necessario valutare l’efficacia di questi provvedimenti. È difficile valutarlo per la Germania e allo stesso modo lo è per la Francia. Ci sono però dei casi di studio che ci permettano di rispondere?
«Sì, ma dobbiamo tornare agli Stati Uniti del 2001: in risposta agli eventi dell’11 settembre, l’amministrazione Bush decise di emanare il Patriot Act, con il quale si è messa in atto una vera e propria restrizione della libertà e una tendenza del Paese a controllare tutti i dati personali dei cittadini americani e non solo, anche dei cittadini europei. Tuttavia, queste legge non hanno portato nessuna riduzione del rischio. Pensiamo infatti alla maratona di Boston del 2013: un soggetto, Tamerlan Tsarnaev, era stato identificato ed era sotto controllo, ma questo non gli impedì di organizzare e realizzare, insieme a suo fratello Dzhokhar, la strage all’arrivo della maratona. Questo episodio ci insegna che la restrizione delle libertà personali non sempre è efficiente, perché la sorveglianza di massa da sola non permette comunque di controllare tutte le azioni di tutti i soggetti».
Una volta che questi diritti individuali vengono tagliati, è possibile che a un certo punto vengano poi reintrodotti?
«Anche qui è l’esempio degli Stati Uniti ad aiutarci. A causa del Patriot Act, l’amministrazione Bush venne criticata moltissimo, soprattutto dall’Unione europea, che non accettava la pratica statunitense del controllo capillare sui dati dei cittadini, anche di quelli non americani. In seguito a questi problemi il presidente Obama decise di fare un passo indietro emanando il Freedom Act, che pone dei limiti proprio al Patriot Act: oggi negli Stati Uniti ci sono ancora importanti restrizioni della libertà in nome della sicurezza, ma ci sono se non altro alcune garanzie in più. È strano pensare che all’epoca i Paesi europei criticassero i provvedimenti messi in atto dagli Stati Uniti, visto che oggi si comporta allo stesso modo dell’amministrazione Bush, giustificando quelle azioni con le stesse motivazioni, cioè con la sicurezza».