Discussa 18 Giugno 2017 – Decisa il 19 Giugno 2017
Il divieto di registrare marchi a carattere denigratorio presso lo United States Patent and Trademark Office sancito dal Lanham Act viola il Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America
Il tema affrontato dalla Corte Suprema in questa sentenza merita attenzione in rapporto alla monolitica interpretazione (la causa è stata decisa con otto voti favorevoli e nessun contrario) del Primo Emendamento, ma soprattutto apre alcune interessanti questioni di non poco profilo rispetto alla legittimità del contenuto “espressivo” dei marchi e del ruolo del Governo nello scrutinio di tali contenuti.
Simon Tam, leader della rock band “The Slants”, ha deciso di presentare al Patent and Trademark Office (d’ora in poi PTO) statunitense la richiesta di registrazione, come marchio, del nome del proprio gruppo musicale. “Slants” è termine dispregiativo, utilizzato in maniera offensiva nello slang per indicare persone di origine asiatica (“occhi a mandorla” in una seppur impropria traduzione nella nostra lingua); i membri della band, tutti cittadini USA di origine asiatica, sono convinti che l’utilizzo di questo nome possa generare un effetto tale da eliminare la forza denigratoria del termine e in qualche modo “purificarlo” dalla sua portata negativa. Nonostante queste motivazioni, la richiesta è stata rifiutata dal PTO sulla base del portato di una disposizione del Lanham Act (1946), la 1052(a), cosiddetta disparagement clause, che proibisce la registrazione di marchi che possano «disparage… or bring into contempt or disrepute any persons, living or dead». Il PTO ha sostenuto, infatti, che il termine “slants” sia ritenuto offensivo da buona parte dei soggetti di origini asiatiche, considerando che non solo molti dizionari definiscono tale termine come denigratorio, ma anche che alcune performance della band fossero state cancellate proprio a causa del nome del gruppo, considerato offensivo da numerosi blogger e commentatori. Tam ha contestato tale decisione di fronte al PTO’s Trademark Trial Appeal Board (TTAB), con esito negativo. Il cantante ha deciso quindi di portare il caso innanzi alla Corte Federale. Tale Corte, il 22 dicembre 2015 (Fed Cir 2015, 808 F. 3d 1321), ha stabilito che la disparagement clause debba essere considerata incostituzionale in quanto contrastante con la Free Speech Clause contenuta nel Primo Emendamento.
La maggioranza dei giudici di quella Corte ha rilevato, infatti, come questa clausola (disparagement clause) comporti una viewpoint-based discrimination e che essa, regolando una componente espressiva del marchio, non possa essere qualificata come riferita ad un commercial speech. La maggioranza dei giudici, inoltre, ha respinto l’argomentazione del Governo che voleva far rientrare i marchi nella categoria dei government speech, così come è stata respinta la posizione del Governo secondo cui i marchi rientrano in una forma di government subsid. Il Governo soccombente ha deciso dunque di investire della questione la Corte Suprema al fine di valutare se la disparagement clause «is facially invalid under the Free Speech Clause of the First Amendment».
Il Giudice Alito ha redatto la sentenza con riferimento alle Parti I, II e III-A, condivisa dai Giudici Roberts, Kennedy, Ginsburg, Breyer, Sotomayor e Kagar (mentre il Giudice Thomas condivide ad eccezione della parte II) ed anche le parti III-B, III-C e IV, condivise dai Giudici Roberts, Thomas e Breyer. Il Giudice Kennedy ha redatto poi un’opinione concurring in part and concurring in the judgement. Il nono Giudice, Gorsuch, non ha preso parte alla decisione.
Di sicuro interesse il percorso argomentativo proposto dal Giudice Alito: egli innanzitutto afferma che la disparagement clause è contraria al fondamento stesso del Primo Emendamento: «speech may not be banned on the ground that it expresses ideas that offend». Il ragionamento del Giudice Alito, al punto I-A, si apre con una ricostruzione accurata del significato della tutela e della disciplina in materia di marchi: all’analisi del principio sotteso alla protezione del brand, individuato nella capacità di distinguere ed identificare un particolare produttore di merci rispetto ad altri, segue una rilettura storico-normativa della disciplina federale in materia di marchi a partire dal Lanham Act del 1946, anche se viene sottolineato il successivo ed imponente sviluppo dei marchi, incluso il “messaggio” insito nel nome stesso, rispetto alla prima metà del ‘900. Altra finalità alla base della protezione dei marchi è individuata nel «support the free flow of commerce […] Foster competition and the maintenance of quality by securing to the producer the benefits of good reputation».
Dopo aver affrontato i temi della disciplina e degli effetti che discendono dalla registrazione del marchio, il Giudice prosegue al punto I-B affermando che, anche senza registrazione federale, un marchio può validamente essere utilizzato per fini commerciali, individuando metodi alternativi di protezione dello stesso, pur non mancando di sottolineare quanto la registrazione federale conferisca importanti diritti e benefici al titolare del marchio. Al punto I-C il Giudice inizia l’analisi delle specifiche disposizioni contenute nel Lanham Act, che prevedono il divieto di registrazione di determinate tipologie di marchi: una di queste è proprio la disparagement clause (1052(a)), che proibisce appunto la registrazione di un marchio che possa offendere persone, viventi o morte, istituzioni, un credo (beliefs) o simboli nazionali. Viene poi proposto anche il procedimento richiesto per valutare se un marchio sia offensivo. L’esaminatore del PTO deve effettuare un two-parts test: prima considerando il significato del marchio in questione e, una volta appurato che il significato si riferisce a persone identificabili, istituzioni, ad un credo o a simboli nazionali, chiedersi se questo significato possa essere percepito come offensivo da una parte sostanziale del gruppo di soggetti cui si riferisce (non è comunque necessaria la maggioranza in senso strettamente numerico). Per quanto rileva nel caso in esame, il PTO ha specificato come il fatto che il richiedente la registrazione del marchio sia membro del gruppo, o il fatto che questi abbia “buone intenzioni” nell’utilizzo del termine offensivo, non significa che una parte del gruppo di riferimento non possa percepire il marchio come offensivo.
Nella Parte II il Giudice, prima di valutare la questione centrale della pronuncia, cioè se la clausola sia o meno contrastante con il Primo Emendamento, prende in esame preliminarmente l’argomentazione di Tam, secondo cui la clausola proibisce la registrazione di marchi che offendono “persons” e tale termine può riferirsi solo a persone fisiche o giuridiche e non ad entità non giuridiche quali i gruppi razziali ed etnici. Rilevando come il suddetto argomento non sia ammissibile in quanto mai sollevato dinnanzi al PTO e al Federal Circuit (Normally, that would be the end of the matter in this Court), la Corte Suprema decide di esaminare comunque tale aspetto che, se accolto, risolverebbe il caso rendendo superflua una pronuncia sulla compatibilità o meno della clausola con il Primo Emendamento.
La Corte sul punto giunge alla conclusione che l’argomentazione di Tam è infondata: la ricostruzione del termine “person” effettuata dal ricorrente è da rifiutarsi non solo sulla base di una valutazione letterale dei termini usati dalla clausola (offendere parte sostanziale dei membri di un gruppo etnico o razziale significa offendere le persone anche se parte di quel gruppo), ma anche analizzando la portata stessa della clausola, che parimenti colpisce i marchi offensivi nei confronti di istituzioni o di beliefs, dimostrando dunque di non voler impedire la registrazione di brand offensivi solo verso “persone” intese in senso fisico. È chiaro dunque che il testo stesso della clausola non lascia adito ad ambiguità o dubbi sul fatto che vada considerato come diretto a proibire la registrazione di marchi offensivi nei confronti di persone appartenenti ad una determinata razza o etnia.
Nella terza parte, una volta affermato che la disparagement clause si applica al caso concreto, il Giudice valuta se la clausola in questione violi o meno la Free Speech Clause del Primo Emendamento. Il Governo, che ritiene la clausola compatibile e legittima, sostiene la propria tesi con tre ordini di argomentazioni: 1) i marchi sono government speech; 2) i marchi sono una forma di government subsidy; 3) la costituzionalità della clausola può essere vagliata mediante una nuova government-program doctrine. Il Primo Emendamento proibisce al Congresso e ad altre realtà governative di limitare la libertà di espressione; esso tuttavia non regola i government speech, che quindi non sono obbligati ad essere neutrali bensì possono essere viewpoint-discriminatory; affermare dunque che i marchi sono government speech, legittima la disparagement clause: questa, pur essendo in contrasto con il Primo Emendamento, non sarebbe tenuta al rispetto di quest’ultimo in quanto rientrante appunto nella categoria dei government speech e pertanto legittimamente viewpoint-discriminatory. Il Giudice richiama ampia e consolidata giurisprudenza che afferma come «the government’s own speech… is exempt from First Amendment scrutiny», in quanto imporre una viewpoint-neutrality al Governo vorrebbe dire paralizzarlo: affinché gli organi governativi svolgano il proprio ruolo, infatti, è necessario ed intrinseco nella loro stessa funzione che essi accolgano una particolare posizione e ne respingano altre («The Free Speech Clause does not require government to maintain viewpoint neutrality when its officers and employees speak about that venture»). Il Giudice rileva però come questa giurisprudenza sia stata mal utilizzata dal Governo: sostenere che un private speech diventi un government speech per il semplice fatto che ad esso è apposta una approvazione governativa (nel caso dei marchi, la registrazione), comporterebbe il fatto che essi non siano soggetti al Primo Emendamento e quindi il Governo sarebbe dunque messo nella posizione di poter “silenziare” espressioni contrarie a quelle promosse dal Governo stesso («If private speech could be passed off as government speech by simply affixing a government seal of approval, government could silence or muffle the expression of disfavored viewpoints»). Il fatto che un esaminatore del PTO verifichi il rispetto del requisito della viewpoint-neutrality richiesto dal Lanham Act, non equivale ad affermare un controllo sulla compatibilità del significato trasmesso dal marchio rispetto alle politiche o alle posizioni del Governo. Inoltre, il semplice fatto che vi sia la registrazione, non fa del marchio un government speech: la registrazione non è un government imprimatur o un’approvazione da parte del Governo stesso. I casi (Johanns, Summum e Walker), portati a supporto della tesi del Governo, sono molto diversi dal caso in esame e sono pertanto fuorvianti e inutili. I marchi non sono usati per trasmettere un messaggio del Governo e sostenere che la registrazione tramuti il marchio in un government speech, costituirebbe «a huge and dangerous extension of the government-speech doctrine», che potrebbe pericolosamente applicarsi allora anche ad altri strumenti che pur necessitano di registrazione governativa, quale il copyright.
Al punto III-B, il Giudice rifiuta di accogliere l’ulteriore tesi del Governo che vuole ricondurre i marchi alla categoria dei subsidized speech: questi possono essere viewpoint-based, il che renderebbe legittima la clausola in esame («The Government may not deny a benefit to a person on a basis that infringes his constitutionally protected freedom of speech even if he has no entitlement to that benefit […] but at the same time, government is not required to subsidize activities that it does not wish to promote»). Questa tesi non viene accolta in quanto, anche con riferimento ai casi portati a supporto della propria tesi dal Governo, i marchi sono ben diversi dai cash subsidies: non è il PTO a pagare per la registrazione di un marchio (come nel caso invece dei sussidi in cui è lo Stato a pagare per determinate categorie di soggetti) bensì il contrario, cioè è colui che richiede la registrazione a dover pagare una tassa. Il Governo allora, per sostenere tale tesi, afferma che la registrazione comporta un esborso da parte dello Stato che rende i marchi un subsidy. La Corte replica che quasi tutti i servizi governativi richiedono una spesa da parte dello Stato stesso, basti pensare al servizio di polizia o dei vigili del fuoco, che non per questo sono considerati sussidi; se poi tale ragionamento del Governo fosse ritenuto fondato, allora anche i copyright, i brevetti, le patenti di guida, di caccia, di pesca… dovrebbero essere considerati sussidi.
Al Punto C, infine, viene considerata l’ultima argomentazione del Governo che sostiene come la disparagement clause sia legittima sulla base di una nuova dottrina applicabile ai government-program cases: questa argomentazione semplicemente fonde quanto affermato per la tesi del government speech e per i subsidy cases al fine di creare una nuova dottrina che possa essere applicata ai marchi. I casi citati a sostegno dal Governo vengono considerati irrilevanti dalla Corte e viene affermato che anche in quei precedenti una viewpoint discrimination sarebbe vietata: la valutazione circa l’offensività o meno di un marchio costituisce una viewpoint (opinione, parere, punto di vista), pertanto la disparagement clause non può che essere considerata, per sua natura, viewpoint discriminatory. Il Giudice conclude dunque, riprendendo un caposaldo della giurisprudenza in merito al Primo Emendamento: «If there is a bedrock principle underlying the First Amendment, it is that the government may not prohibit the expression of an idea simply because society finds the idea itself offensive or disagreeable».
Ne consegue che se la clausola non può essere fatta salva tramite le argomentazioni sopra esposte dal Governo, l’ultimo aspetto a dover essere vagliato dalla Corte, al punto IV, è se i marchi siano da considerarsi commercial speech e quindi sottoposti ad uno scrutinio di legittimità meno rigido, secondo i canoni già delineati in Central Hudson. Il Governo sostiene che questa tesi sia corretta mentre il ricorrente ritiene che i marchi abbiano una componente espressiva: in questo caso specifico, il nome della band esprime la visione di una questione sociale. La Corte afferma che non è necessario pronunciarsi in merito al fatto che i marchi siano o non siano commercial speech, in quanto in ogni caso la clausola non supererebbe nemmeno lo scrutinio sulla base dei criteri minimali previsti in Central Hudson. Secondo quest’ultimo scrutinio, infatti, una restrizione della libertà di espressione, per essere legittima, dovrebbe ricoprire un interesse sostanziale ed essere definita in modo preciso. Quanto al primo profilo, la clausola serve due interessi: innanzitutto incoraggia la tolleranza razziale, ma proprio su questo punto la Corte afferma chiaramente che «the Government has an interest in preventing speech expressing ideas that offend. And, as we explained, that idea strikes at the heart of the First Amendment. Speech that demeans on the basis of race, ethnicity, gender, religion, age, disability or any other similar ground is hateful; but the proudest boast of our free speech jurisprudence is that we protect the freedom to express ‘the thought that we hate’». Il secondo interesse è la protezione del commercio, visto che condotte discriminatorie hanno effetti negativi e distorsivi del commercio. La clausola tuttavia non è chiaramente definita: per usare le significative parole del Giudice Alito, la disposizione in esame non è una clausola non discriminatoria, ma una «happy-talk clause: it goes much further than is necessary to serve the interest asserted». Per concludere sulla questione della possibilità di ritenere i marchi come commercial speech, si afferma con enfasi che «If affixing the commercial label permits the suppression of any speech that may lead to political or social volatility, free speech would be endangered».
Avviandoci alla conclusione pare rilevante anche sottolineare l’opinione del Giudice Kennedy (concurring in part and concurring in the judgement), che afferma fin dalle prime righe quanto il «1052(a) constitutes viewpoint discrimination – a form of speech suppression so potent that it must be subject to rigorous constitutional scrutiny. The Government’s action and the statute on which it is based cannot survive this scrutiny». Il ragionamento argomentativo del Giudice Kennedy prosegue dettagliando i motivi per i quali la protezione del Primo Emendamento si applichi anche ai marchi: innanzitutto le tipologie di espressioni che il Governo può regolamentare o punire (frode, diffamazione ecc), sono chiaramente stabilite dalla Costituzione e al di fuori di questi casi vige sempre il principio secondo il quale il Governo non può punire o sopprimere forme di espressione per il solo fatto che ne disapprovi l’idea o il messaggio che esse trasmettono; così «the First Amendment guards against laws “tageted at specific subject matter”, a form of suppression known as content based discrimination», arrivando alla conclusione che una legge di quel tipo è «presumptively unconstitutional». Appare chiaro che la clausola in esame debba essere considerata rientrante in questa tipologia di legge, visto che il Governo approva e ammette marchi dal contenuto neutro o positivamente leggibili, ma non quelli discriminatori o offensivi: la clausola «reflects the Governement’s disapproval of a subset of messages it finds offensive. This is the essence of viewpoint discrimination». Il Governo sostiene che la clausola sia neutrale in quanto applicata in egual misura a tutti i marchi sottoposti a registrazione con contenuto offensivo, qualsiasi esso sia; il Giudice, al contrario, ritiene che una tale affermazione non afferri il punto della questione: «the First Amendment’s viewpoint neutrality principle protects more than the right to identify with a particular side. It protects the right to create and present arguments for particular positions in particular ways. By mandating positivity, the law here might silence dissent and distort the marketplace of idea». Il Governo sostiene inoltre che la clausola si applichi indipendentemente dalle ragioni per le quali si sceglie il marchio o dalla percezione del richiedente e che il rifiuto della registrazione non sia fondato sul giudizio del Governo bensì sulla reazione dell’audience. Il Giudice Kennedy sostiene invece che «a speech burden based on audience reactions is simply government hostility and intervention in a different guise. The speech is targeted, after all, based on the government’s disapproval of the speaker’s choice of message. And it is the government itself that is attempting in this case to decide whether the relevant audience would find speech offensive». Il Governo, infine, sostiene che il marchio sia inopportuno per lo stesso proponente (definendolo «a negative comment») mentre ciò viene smentito dalla ricostruzione della motivazione stessa avanzata dalla rock band al momento della registrazione del marchio.
Sul punto riguardante la definizione di marchio quale commercial speech, il Giudice ritiene che in ogni caso una viewpoint discrimination, inclusa quella che ha come oggetto marchi offensivi, rimane problematica e vietata anche nell’ambito del commercio, arrivando ad affermare che «to permit viewpoint discrimination in this context is to permit Government censorship», tornando a sottolineare come «the Court’s precedent have recognized just one narrow situation in which viewpoint discrimination is permissible: where the government itself is speaking or recruiting others to comunicate a message on its behalf», tuttavia il caso in esame non rientra in tale categoria. Per concludere, e in ottica riassuntiva rispetto al tema trattato in questa pronuncia, è significativo riportare la conclusione del giudice Kennedy: «a law that can be directed against speech found offensive to some portion of the public, can be turned against minority and dissenting views to the detriment of all. The First Amendment does not entrust that power to the government’s benevolence. Instead, our reliance must be on the substantial safeguards of free and open discussion in a democratic society. For these reasons, I join the Court’s opinion in part and concur in the judgement».