La Corte di Strasburgo spinge ancora per la protezione delle fonti giornalistiche e in Italia il vento comincia a cambiare per i whistle-blower

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Con sentenza (1) del 19 gennaio 2016, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è tornata a pronunciarsi in materia di protezione delle fonti giornalistiche, condannando le autorità turche per violazione dell’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). La decisione ritorna sulla liceità dei sequestri di materiali informatici ai giornalisti e alle loro testate, sulle copie di interi server o account email, con conseguente raccolta di dati in maniera indiscriminata.

Il caso Görmüş e altri v. Turchia ha coinvolto il direttore, gli editori responsabili e due giornalisti d’inchiesta del noto settimanale turco Nokta: nell’aprile del 2007 il settimanale ha pubblicato un articolo che denunciava l’adozione – da parte delle forze armate – di un sistema di “classificazione” dei media e dei giornalisti, in modo tale da dividerli in favorevoli e ostili, e non invitarli più a coprire eventi e/o particolari attività.

La corte militare aveva ordinato la perquisizione di tutti i materiali cartacei e informatici del giornale, e in particolare di tutti i computer presenti in redazione, compresi anche quelli personali: le autorità hanno estratto copia dei dati di tutti i 46 computer trovati.

Il direttore del settimanale Görmüş, ha immediatamente appellato l’ordinanza di perquisizione, lamentando la violazione del diritto dei giornalisti a proteggere le proprie fonti: la Corte Militare ha respinto l’appello sulla base del fatto che, a loro giudizio, la perquisizione e la copia dei dati erano stati condotti solo per “indagare le circostanze riguardo alla circolazione di documenti secretati” e non per identificare i responsabili di tale circolazione.

Il caso è giunto davanti alla Corte Edu, che in primo luogo è tenuta a compiere un giudizio su quanto riportato dai giornalisti, e in particolare se quanto pubblicato abbia o meno contribuito al pubblico dibattito e se, per la sua rilevanza, possa accedere alla tutela della libertà di espressione, garantita dall’art. 10 della CEDU (da cui “a cascata” derivano libertà di stampa e tutela delle fonti giornalistiche). Nel caso in esame la Corte ha evidenziato come le rivelazioni di Nokta abbiano innescato un intenso dibattito sulla scena politica turca, in particolare sul ruolo delle forze armate e della loro commistione con la vita pubblica del paese, e sul grave pregiudizio alla libertà di stampa provocato dalla “catalogazione” dei media.

La Corte ha condannato duramente la copia integrale dei computer della redazione, giudicando quest’azione molto più grave dell’aver compiuto perquisizioni indiscriminate, anche alla luce del fatto che il Sig. Görmüş aveva già consegnato i materiali richiesti, cioè le copie originali dei documenti, così come erano stati passati ai reporter dai whistle-blower (2). 

La decisione richiama il principio per cui in tema di possibile violazione dell’art. 10, è necessario effettuare un bilanciamento con gli altri interessi in gioco, come la sicurezza nazionale e il mantenimento dell’ordine pubblico. Nel caso in esame, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che il Tribunale militare turco non abbia fornito sufficienti prove a sostegno della necessità di mantenere le informazioni confidenziali, e pertanto il pubblico interesse a sapere della creazione di questo sistema di “catalogazione” dei media debba prevalere sul mantenere la confidenzialità dei documenti.

Un passaggio fondamentale della decisione in commento, riguarda le procedure amministrative interne di denuncia che possono essere esperite dai whistle-blower che siano funzionari statali. La Corte segnala come le indagini contestate, avessero come principale scopo l’identificazione dei responsabili della divulgazione. Tra i doveri del giornalista potrebbe includersi il non pubblicare alcuna informazione riservata, fintanto che il whistle-blower non sia passato attraverso le procedure burocratiche “interne” di denuncia ai propri superiori. Peccato che, come rileva criticamente la Corte, la legislazione turca non preveda nulla del genere, a differenza di altri stati che istituiscono appositi meccanismi interni e protezioni per i whistle-blower.

Nell’esaminare la proporzionalità dell’intervento delle autorità turche – perquisizioni e il sequestro dei materiali informatici – la Corte ha giudicato le azioni sproporzionate alle necessità di tutela dell’ordine pubblico, e ha richiamato la sua giurisprudenza prevalente in tema di protezione delle fonti giornalistiche: sequestrare grandi quantità di dati che mettano a rischio l’identificazione delle fonti, provoca un incrinamento della fiducia delle fonti nei giornalisti e, mette a rischio futuri whistle-blower che, spaventati da interventi illegittimi come questo, saranno dissuasi dal riportare ciò di cui verranno a conoscenza. 

In Italia la protezione dei whistle-blower, poca e frammentata, rientra nelle norme in materia di trasparenza della PA e anti-corruzione (3), e non ha mai ricevuto particolare attenzione da parte del nostro legislatore. Negli ultimi anni, l’ANAC (Autorità nazionale anticorruzione) si è fatta portavoce della necessità di un intervento legislativo in materia, anche con l’emanazione nel maggio scorso delle “Linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti (c.d. whistleblower)” (4). 

Un primo passo è stato compiuto lo scorso 21 gennaio, con l’approvazione da parte della Camera della proposta di legge “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”. I punti chiave della legge riprendono ciò che da anni è sostenuto sia dall’ANAC che da Transparency International Italia (5), vale a dire che l’ordinamento, al fine di incentivare le segnalazioni di illeciti e violazioni, deve garantire modalità sicure di denuncia e tutele efficaci per i segnalanti. Il punto focale è il divieto di rivelare l’identità del whistle-blower: proprio si deve garantire che i destinatari della segnalazione tutelino la riservatezza di tale informazione. Non è possibile effettuare denunce in forma anonima, anche perché, com’è facile immaginare, a quel punto si creerebbe un sistema che non tutela gli “accusati”, che sarebbero così privati della possibilità di rivalersi contro eventuali false segnalazioni.

Il testo della norma – che comprende finalmente anche il settore privato – si concentra sul divieto di discriminazione nei confronti del segnalante, per motivi collegati direttamente o indirettamente alla segnalazione. In caso vi sia licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto segnalante, tale licenziamento sarà nullo. 

La legge dovrà passare ancora al vaglio del Senato, e la speranza è che, se e quando entrerà in vigore, si crei una vera e propria rete di supporto anche a livello “tecnico”, in particolare in termini di investimenti: si pensi in primis ai sistemi informatici della PA o alla formazione del personale che sia in grado di gestire una sistema di segnalazione nel modo corretto. 

Il ruolo del whistle-blower è fondamentale in un’ottica di seria lotta alla corruzione, ma se si sente minacciato e se ritiene di rischiare ritorsioni di vario tipo, probabilmente chiuderà un occhio su ciò di cui è venuto a conoscenza. Senza pensare ai casi più eclatanti degli ultimi anni (Edward Snowden primo tra tutti), molti whistle-blowerscelgono di non rivolgersi alle autorità, ma ai giornalisti. In un certo senso, possiamo ritenerla una scelta dettata sia da senso civico che da egoismo? Rendere pubbliche violazioni e allo stesso salvaguardarsi? Perché no. Starà poi all’autorità giudiziaria valutare se il rivelare l’identità della fonte è indispensabile ai fini della prova del reato (segnalato) e se la veridicità delle informazioni divulgate può essere accertata solo attraverso l  identificazione della fonte della notizia.

Le fonti dei giornalisti necessitano di protezione perché la libertà di informazione è come una catena: la notizia nasce proprio dalla rivelazione della fonte, passa al giornalista che la comunica, il pubblico la coglie, la fa propria e la usa per formare il suo convincimento critico. Se cessa il rapporto di fiducia tra la fonte e il giornalista, la catena si spezza. E a quel punto, forse, non varrà neanche più la pena di essere informati. 

 

Note:

(1)   Testo integrale della decisione disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng#{“itemid”:[“001-160244 “]}  

(2)   Il termine whistle-blower – “soffiatore di fischietto” – si riferisce a quei soggetti che, per il bene dell’interesse pubblico, segnalano una violazione o un illecito di cui sono venuti a conoscenza sul proprio luogo di lavoro, che sia esso in ambito pubblico o privato. 

(3)   Si veda ad esempio il Decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58: Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 520F, oppure il Decreto Legislativo 21 novembre 2007, n. 231: Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione e successive modificazioni e integrazioni e ancora la Legge 6 novembre 2012 , n. 190: Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione (cd. Legge Anticorruzione).

(4)   Testo delle Linee Guida disponibile qui: http://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/AttivitaAutorita/AttiDellAutorita/_Atto?ca=6123  

(5)   Transparency International è la più grande organizzazione a livello globale che si occupa di prevenire e contrastare la corruzione. Fondata nel 1993, con sede a Berlino, è diffusa in oltre 100 Paesi del mondo. La sua missione è dare voce alle vittime e ai testimoni di corruzione e collabora con Governi, aziende e con i cittadini per mettere un freno alla piaga della corruzione. https://www.transparency.it/ 

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