Introduzione
Con la sentenza n. 260 depositata il 28 dicembre 2021 la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, l’art. 18, comma 5, del d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, recante la disciplina transitoria per i procedimenti sanzionatori avviati nella vigenza della disciplina previgente all’adeguamento al Regolamento generale sulla protezione dei dati personali (Regolamento (UE) 2016/679, GDPR). In particolare, il giudice delle leggi ha ritenuto contraria al principio di ragionevolezza e al canone di proporzionalità la previsione dell’interruzione del termine di prescrizione quinquennale per i procedimenti avviati dal Garante prima dell’entrata in vigore della disciplina transitoria.
Il contesto fattuale e il rinvio alla Corte costituzionale
La questione di legittimità costituzionale che ha provocato il giudizio della Corte è stata sollevata dal Tribunale civile di Verona, innanzi al quale era pendente un procedimento di opposizione a cartella di pagamento per una sanzione amministrativa irrogata dal Garante per la protezione dei dati personali per la violazione dei previgenti artt. 13 e 161 del Codice sulla protezione dei dati personali (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196).
Nel caso di specie, a un professionista legale era stato contestato di aver omesso di rendere l’informativa sul trattamento di dati personali a un cliente che aveva richiesto un suo parere. L’Autorità instaurava un procedimento sanzionatorio nel 2014, dando avvio alla fase preistruttoria con una rituale notifica della contestazione al professionista, che aveva modo di produrre memorie difensive. Tuttavia, a procedimento pendente e non ancora definito, con il d.lgs. 101/2018, contenente le disposizioni di adeguamento dell’ordinamento italiano al GDPR, il legislatore introduceva a mezzo dell’art. 18 un regime transitorio destinato a trovare applicazione a quei procedimenti – come quello di specie – che alla data di applicazione del regolamento non fossero ancora stati definiti con ordinanza-ingiunzione.
Detto regime transitorio consente in primo luogo ai destinatari di una contestazione di definire il procedimento mediante il pagamento in misura ridotta della sanzione (in importo pari a due quinti del minimo) entro novanta giorni dall’entrata in vigore del d.lgs. 101/2018. Lo stesso procedimento semplificato stabilisce che, in assenza di pagamento in misura ridotta, l’atto di contestazione con il quale sono stati notificati gli estremi della violazione si cristallizzi automaticamente in provvedimento di ordinanza-ingiunzione senza necessità di ulteriore notificazione, determinando l’obbligo di pagamento della sanzione entro sessanta giorni dal termine per adempiere in misura ridotta. Nello stesso termine, però, il presunto contravventore ha facoltà di presentare memorie difensive, a fronte delle quali l’Autorità è tenuta ad adottare un provvedimento espresso di ingiunzione o di archiviazione.
Questo procedimento semplificato, descritto ai commi 1-4 dell’art. 18, è associato a un’altra previsione, racchiusa nel comma 5, che individua nell’entrata in vigore del d.lgs. 101/2018 una causa interruttiva del termine di prescrizione quinquennale del diritto a riscuotere le somme dovute a titolo di sanzioni amministrative, previsto dall’art. 28 della legge 24 novembre 1981, n. 689, per i procedimenti relativi a violazioni del d.lgs. 196/2003.
Per effetto della combinazione di queste previsioni, il giudice a quo avanzava un dubbio sulla legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 5, in quanto tale norma finiva per paralizzare l’eccezione di prescrizione quinquennale che il ricorrente avrebbe potuto formulare in sede di opposizione all’esecuzione, dal momento che la cartella di pagamento formata medio tempore in carenza di pagamento in misura ridotta era stata notificata soltanto il 18 dicembre 2019, successivamente alla data (8 luglio 2019, cinque anni dopo la notifica della contestazione) in cui sarebbe maturata – in assenza del comma 5 – la prescrizione.
Ritenuto che l’art. 18, comma 5, potesse configurare una violazione dell’art. 76 e dell’art. 3 della Costituzione, il Tribunale di Verona investiva di due separate questioni la Corte costituzionale.
La soluzione della Corte costituzionale
La Corte costituzionale ha giudicato non fondata la questione sollevata in merito alla presunta violazione dell’art. 76 della Costituzione, mentre ha ritenuto fondata la questione prospettata in riferimento all’art. 3.
Con riguardo al primo profilo, la Corte non ha ravvisato la sussistenza di un eccesso di delega, denunciato dal giudice a quo in relazione a un preteso sconfinamento da parte del legislatore delegato rispetto ai limiti definiti dalla legge di delega (legge 25 ottobre 2017, n. 163). Il giudice delle leggi ha confermato il proprio orientamento restrittivo rispetto a questo vizio, argomentando come nulla osti all’adozione da parte del legislatore delegato di «norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte del legislatore delegante». Esiste, infatti, uno spazio di discrezionalità che è riconosciuto in termini anche più ampi quando si tratti di adeguamento della normativa nazionale alle fonti sovranazionale nell’ambito di un riordino della materia.
Ben diverse sono invece le conclusioni raggiunte dalla Corte in merito alla violazione dell’art. 3: ad avviso dei giudici, la questione è fondata in quanto l’art. 18, comma 5, viola il principio di ragionevolezza e il canone di proporzionalità.
La Corte costituzionale si è riallacciata alle osservazioni critiche già svolte nella sua giurisprudenza in merito all’ampiezza e alla suscettibilità a interruzione del termine di prescrizione quinquennale previsto dalla l. 689/1981. Queste connotazioni sarebbero inidonee a garantire in pienezza la certezza giuridica della posizione dell’incolpato e l’effettività del suo diritto di difesa; tali vizi si accentuano vieppiù in presenza di una norma come l’art. 18, comma 5, che stabilisce una interruzione ex lege del termine in pendenza dell’inerzia dell’amministrazione. Questo automatismo, infatti, determina un’intollerabile compressione delle ragioni di tutela del privato, nel contesto di un rapporto già eccessivamente squilibrato al cospetto della pubblica amministrazione. Secondo i giudici, una tale compressione della posizione del privato non può trovare fondamento nell’esigenza di fare fronte ai maggiori oneri derivanti dall’entrata in vigore del GDPR per il Garante, già soddisfatta mediante la previsione del procedimento semplificato. Né tantomeno la previsione dell’interruzione della prescrizione può ricevere giustificazione per via della necessità di garantire la nuova fase procedurale così come descritta dall’art. 18. La Corte ha osservato come, anche volendo, il legislatore avrebbe senz’altro potuto agevolare l’amministrazione, in questo frangente, con altri strumenti di semplificazione; non è invece proporzionata all’obiettivo perseguito la scelta di ricorrere all’istituto dell’interruzione della prescrizione, che presuppone una ratio «totalmente estranea, se non antitetica, rispetto alla logica sottesa all’art. 18, comma 5», così da evidenziarne l’irragionevolezza. E infatti l’istituto civilistico in questione opera talvolta in presenza di atti di esercizio del diritto da parte del titolare, con cessazione dell’inerzia, talaltra in presenza di atti e comportamenti univoci di riconoscimento del diritto provenienti dalla parte contro cui il diritto può essere fatto valere. Nel caso della norma in commento, invece, per un verso, l’inerzia che rileva è quella del Garante che non si sia attivato per perfezionare un procedimento sanzionatorio, per altro verso, nessun elemento che indichi un riconoscimento del diritto dell’amministrazione da parte del privato viene in rilievo. Di qui, una discrasia insanabile che ha portato la Corte a dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma.