Il servizio “AdWords” gestito da Google è stato protagonista ancora una volta in un procedimento sottoposto alla Corte di Giustizia Europea.
Come nel caso (rectius, nei tre casi decisi unitariamente riunendo le cause C-236/08, 237/08, 238/08) deciso dalla CGE in data 23 marzo 2010 (conosciuto come Google France-Louis Vuitton) il servizio di pubblicità online del colosso statunitense è stato fatto oggetto di studio da parte dei giudici europei incaricati nel procedimento C-558/08 della pronuncia pregiudiziale sottoposta loro dalla Corte Suprema dei Paesi Bassi (Hoge Raad der Nederlanden). A differenza del noto procedente, convenuto in giudizio da parte del titolare del marchio oggetto della presunta contraffazione non è il motore di ricerca, ma la società inserzionista fruitore del servizio di pubblicità online.
Il caso olandese vede coinvolta una società – Primakabin – che, oltre alla produzione e alla commercializzazione dei propri fabbricati, vende e affitta edifici mobili di “seconda mano” tra cui quelli di Portakabin. Nell’ambito del servizio “AdWords” di Google, Primakabin inserisce tra le parole chiave «portakabin», «portacabin», «portokabin», «portocabin», così da intercettare gli utenti interessati alle unità modulari fabbricate dalla Portakabin e, con le ulteriori tre varianti, assicurarsi il posizionamento anche nel caso di errori di digitazione (basandosi sullo stesso principio dell’attività di typosquatting); nel risultato del motore di ricerca compariva poi il testo «portakabin d’occasione». Portakabin agisce quindi nei confronti dell’inserzionista richiedendo l’inibizione dall’uso del marchio portakabin e delle varianti. Il giudice di primo grado olandese rigettava la domanda con sentenza che veniva poi impugnata in appello innanzi al giudice Gerechtshof te Amsterdam e quindi riformata.
Il giudice dell’appello si limitava a vietare l’uso della frase “portakabin d’occasione”. Nonché, in caso d’uso delle parole chiave, vietava solamente la possibilità di creare link diretti alle pagine del sito dell’inserzionista diverse da quelle in cui venivano offerte in vendita unità modulari fabbricate dalla Portakabin.
Pertanto, ritenuto dalla Corte di Appello che l’uso posto in essere da Primakabin non fosse in contrasto con il disposto dell’art. 5 della Direttiva 89/104/CEE (sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi di impresa, sostituita dalla Direttiva 2008/95/CE), che vieta, tra gli altri, l’uso del marchio altrui di un segno identico per prodotti identici a quelli per cui è stato registrato, proponeva ricorso alla Hoge Raad der Nederlanden che decideva quindi di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia le questioni pregiudiziali sull’interpretazione degli articoli 5, 6, 7 della Direttiva 89/104/CEE.
Il fenomeno di (ab)uso di nomi e marchi altrui su Internet è anteriore a quello del c.d. Keyword advertising e risale all’impiego nei meta-tags, ossia all’inserimento del segno distintivo di terzi nel codice HTML del proprio sito così da sfruttare i contatti generati dagli utenti che ricercavano la diversa impresa. Tuttavia, con l’aggiornamento degli algoritmi dei motori di ricerca, che non tengono più in considerazione i keyword meta-tags, da alcuni anni tale prassi è sostanzialmente scomparsa in quanto inefficace per il ranking.
Le questioni pregiudiziali sottoposte dai giudici olandesi alla CGE riguardavano in particolare se:
1) ai sensi dell’art. 5, n. 1, parte iniziale e lett. a), della Direttiva, il titolare di un marchio possa vietare l’uso del proprio segno distintivo da parte di terzi quale parola chiave qualora ciò porti il motore di ricerca ad un link diretto al sito Internet dell’inserzionista;
2) ai sensi dell’art. 6, n. 1, lett. b) e c) della Direttiva, e nel caso di risposta affermativa al punto n. 1, il titolare del marchio non possa impedirne a terzi l’uso se esso è necessario per contraddistinguere la destinazione di un prodotto o servizio, in particolare come accessori o pezzi di ricambio;
3) ai sensi dell’art. 7 della Direttiva, se l’inserzionista possa avvalersi della deroga prevista da detto articolo che stabilisce come il diritto di vietare ai terzi l’uso del proprio marchio si esaurisca per il titolare della privativa in riferimento ai prodotti che siano stati immessi in commercio nel SEE, da lui stesso o con il suo consenso, salvo che sussistano motivi legittimi tali da giustificare la sua opposizione all’ulteriore commercializzazione dei detti prodotti.
L’esame delle questioni pregiudiziali porta i giudici comunitari a richiamare il caso precedentemente trattato di Google France-Vuitton ove vengono prese in considerazione le funzioni del marchio, ossia (i) di indicazione di origine e qualità del prodotto e quelle di (ii) comunicazione, investimento o pubblicità. Le funzioni di pubblicità, secondo la Corte, non sono pregiudicate dal solo fatto che il marchio sia identico al segno utilizzato come parola chiave e le eventuali ripercussioni negative verrebbero “bilanciate” dalla pubblicità gratuita di cui usufruirebbe il titolare del marchio. Per quanto riguarda la funzione di origine e qualità la Corte ritiene che vi possa essere sì un pregiudizio, ma andrà valutato il modo in cui l’annuncio si presenta agli utenti di Internet: ossia, qualora l’annuncio lasci intendere un collegamento fra i prodotti o i servizi del terzo e quelli del titolare del marchio possiamo trovarci innanzi ad un’ipotesi di contraffazione; analogamente, quando l’annuncio è talmente vago circa l’origine dei prodotti o servizi che l’utente di Internet normalmente informato e ragionevolmente attento non sia in grado di sapere se l’inserzionista sia terzo rispetto al titolare del marchio. La Corte chiarisce che a fronte di dette considerazioni è irrilevante che l’annuncio oggetto del servizio di posizionamento appaia nella sezione “link sponsorizzati” o nell’elenco dei cosiddetti risultati “naturali”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte dichiara che l’art. 5, n. 1, della Direttiva deve essere interpretato nel senso che “il titolare di un marchio ha i l diritto di vietare che un inserzionista faccia – a partire dalla parola chiave identica o simile a tale marchio, da lui scelta, senza il consenso del detto titolare, nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet – pubblicità per prodotti o servizi identici a quelli per i quali il marchio in questione è registrato, qualora tale pubblicità non consenta o consenta soltanto difficilmente all’utente medio di Internet di sapere se i prodotti o i servizi cui si riferisce l’annuncio provengano dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente collegata a quest’ultimo ovvero, al contrario, da un terzo”.
L’interpretazione dell’art. 5 della Direttiva (il cui contenuto è sostanzialmente riportato nell’art. 20 del nostro Codice di Proprietà Industriale e nell’art. 2.20 della Convention Benelux en matière de propriété intellectuelle) pare coerente con l’uso nel caso specifico del marchio altrui e l’eventuale profilo di illiceità andrebbe – al più – ricercato nell’ambito della concorrenza sleale art. 2598 n. 1, 3, C.c.
D’altra parte, il rischio di un restringimento della libertà di commercio e di espressione in contrapposizione ai diritti del titolare del marchio sono stati messi in evidenza dall’Avvocato Generale Poiares Maduro nel settembre 2009 nel caso Google France-Vuitton che osserva come “rivendicando il diritto di esercitare un controllo su parole chiave che coincidono con marchi di impresa nei sistemi pubblicitari quale l’AdWords, i titolari dei marchi, di fatto, potrebbero vietare agli utenti di Internet di vedere gli annunci di terzi relativi ad attività correlati ai marchi perfettamente lecite”.
In tale connessione, non si deve dimenticare poi come vi siano alcune modalità di uso del marchio considerate legittime, come nei casi di utilizzo del marchi in funzione descrittiva (art. 21, comma 1, Cod. Proprietà Industriale – Limitazioni del diritto di marchio; e nel corrispondente art. 2.23 ella Convention Benelux en matière de propriété intellectuelle – Restriction au droit exclusif).
Ciò ci porta immediatamente alla seconda questione pregiudiziale sulla possibilità per l’inserzionista di avvalersi della deroga prevista dall’art. 6 della Direttiva che stabilisce come l’impossibilità del titolare del marchio di vietare ai terzi l’uso nel commercio, tra gli altri, del marchio stesso se esso è necessario per contraddistinguere la destinazione di un prodotto o servizio, in particolare come accessori o pezzi di ricambio. La Corte, pur chiarendo come l’indicazione “accessori o pezzi di ricambio” sia stata nell’intento del legislatore una elencazione esemplificativa, precisa che le situazioni ricadenti nell’applicazione del citato art. 6 – e nello specifico n.1, lett. c – devono restare limitate a quelle corrispondenti alla finalità di tale disposizione. Ad ogni buon conto, lascia al giudice del rinvio verificare se l’uso fatto sia da ritenersi descrittivo ai sensi della citata disposizione della Direttiva 89/104/CE.
La deroga dell’art. 7 della Direttiva rappresenta oggetto di valutazione da parte dei giudici europei quale terza questione pregiudiziale in quanto limiterebbe il diritto esclusivo del titolare del marchio nel vietare ai terzi l’uso del suo marchio in relazione ai prodotti immessi in commercio nel SEE con tale marchio da lui stesso o con il suo consenso e ciò salvo il caso in cui sussistano motivi legittimi tali da giustificare un’opposizione all’ulteriore commercializzazione di detti prodotti. La circostanza, già presa in considerazione dalla CGE con il caso BMW, 23 febbraio 1999, C-63/97, permette al rivenditore di vendere i prodotti del terzo produttore, ma anche di usare il marchio per annunciare al pubblico la loro ulteriore commercializzazione. I motivi legittimi che possano consentire un divieto da parte del titolare del marchio devono consistere, ad esempio, in un uso che rechi un serio pregiudizio alla notorietà del marchio stesso oppure che esista un collegamento economico tra il rivenditore e il titolare (come può accadere nei casi in cui l’impresa appartenga alla rete di distribuzione di tale titolare o vi sia un rapporto speciale fra le due imprese).
Viene in definitiva lasciato al giudice nazionale valutare se l’uso del marchio altrui, unitamente alle varianti, possa evitare l’ingenerarsi di confusione nell’utente normalmente informato e ragionevolmente attento e rendere, su tale presupposto, inequivocabile la terzietà del soggetto inserzionista rispetto al titolare del marchio.
Da ultimo, la Corte chiarisce che il giudice nazionale (i) non può ritenere sussistente un collegamento economico tra il rivenditore e il titolare del marchio o vi sia un serio pregiudizio alla notorietà di tale marchio per il semplice fatto che un inserzionista usi un marchio altrui con l’aggiunta di termini come “usato” o “d’occasione”; (ii) può ritenere un motivo legittimo tale da impedire l’uso del marchio al terzo l’occultamento del marchio altrui e la sostituzione con il proprio sul prodotto rivenduto; (iii) deve ritenere legittimo il comportamento del rivenditore che annuncia al pubblico la vendita di prodotti del marchio altrui, salvo venga perpetuato mediante modalità tali da menomare gravemente l’immagine del titolare della privativa industriale.
2 Comments
Dott. Mazzaro, mi complimento per l’esaustività dell’articolo e le pongo dei quesiti a margine, presentando un caso che mi riguarda.
Sono un consulente in comunicazione. Le mie attività sono principalmente nel campo della direzione creativa e del copywriting per agenzie di comunicazione .
Mi sono posto un doppio problema. Il primo, è relativo al fatto se io possa pubblicare nel portfolio del mio sito internet i lavori che ho fatto come freelance per altre agenzie (sono però giunto alla conclusione che, essendo la mia proprietà intellettuale su quei lavori inalienabile, possa farlo, citando naturalmente come committente l’agenzia destinataria delle mie prestazioni).
Il secondo dubbio a cui non so dare risposta, invece, è relativo ai diritti dei terzi in causa ovvero i clienti finali. Se a giusta ragione posso pubblicare nel mio portfolio i lavori fatti per un’agenzia, come potrei comunque controbattere ai clienti di quella stessa agenzia che hanno commissionato quei lavori? Sono loro, infatti, i proprietari dei diritti di utilizzazione di nomi, testi, adverstising, concept ecc. che io ho creato per conto dell’agenzia loro fornitrice. Come potrebbero reagire vedendo dei loro prodotti di comunicazione comparire nel mio portfolio oltre che nel portfolio dell’agenzia a cui li hanno commissionati? Inoltre, potrei utilizzare i marchi dei clienti finali sotto la voce descrittiva: “Brand trattati”?
Grazie per l’eventuale risposta.
Buongiorno, ha avuto modo di confrontare il caso con la recente sentenza 2636/13 del tribunale di Palermo?
cordiali saluti,