Intervento del Direttore Generale dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, prefetto Bruno Frattasi, presso la Scuola di Politiche economiche e sociali Carlo Azeglio Ciampi
Roma, 12 giugno 2023
La rivoluzione digitale ha determinato conseguenze rilevanti anche nel campo dei diritti individuali fondamentali per una serie di ragioni che andremo qui a delineare brevemente. Una prima osservazione sta nel rilevare come l’avvento impetuoso delle nuove tecnologie digitali, e soprattutto l’affermarsi su scala planetaria della Rete e delle utilità pressoché infinite che essa offre, è una delle più straordinarie forme in cui si mostra a noi il processo di globalizzazione; e probabilmente di tale processo l’espansione digitale non è soltanto ciò che appare con maggiore evidenza, ma ne è addirittura il motore, ossia ciò che ha determinato di quel processo, se non l’avvio, una fortissima accelerazione del suo moto, caratterizzata dalla pervasiva impetuosità con cui lo vediamo avanzare. Questa semplice riflessione porta con sé due evidenti corollari, il primo dei quali sta nel mettere in questione il tema della cittadinanza, che normalmente nel mondo analogico è stato per lunghissimo tempo messo in rapporto alla statualità, per la semplice ragione che il termine stesso, cittadino, ha avuto, e tuttora mantiene, una implicazione relazionale immanente: si è cittadini di un paese, di uno Stato, e questa appartenenza implica un rapporto con la sovranità statale, come manifestazione, a sua volta, del rapporto popolo/sovranità. L’evoluzione digitale ha portato a scoprire la dimensione della cittadinanza digitale, affermata ora nel nostro codice dell’amministrazione digitale, la quale, tuttavia, è pur sempre inclusa in una relazione con la statualità, mentre il fenomeno digitale, laddove si sostanzia ne “l’essere in Rete”, non ha, per sua natura, una definita territorialità, cioè non incontra i limiti fisici e spaziali propri del mondo analogico; ne consegue che nello spazio digitale sembra porsi una questione imprescindibile di garanzie dei diritti individuali, vale a dire di effettiva tutela dei diritti della persona in funzione della quale il confronto tra il singolo e il potere pubblico avviene secondo precisi meccanismi democratici di accertamento e verifica, dinanzi a un’autorità indipendente, della lesione patita, di attribuzione della responsabilità e di rimozione degli effetti lesivi. Il secondo immediato corollario è che i diritti individuali di libertà, i quali, nell’ambiente analogico, vivono nella nutritiva placenta degli ordinamenti costituzionali, incontrano, invece, nell’ambiente digitale costituito dalla Rete, nuove metriche non codificate, imposte dalle stesse tecnologie, le quali rispondono a una serie di regole sovracostituzionali, che sono cioè globali e non più locali.
Qui torna il discorso della globalizzazione in un’impostazione concettuale, piuttosto diffusa e a cui si è dato ampio spazio nel dibattito pubblico, che ne scorge, appunto, l’antagonismo rispetto alla sovranità statuale, ossia il suo essere un fenomeno erosivo della predominanza statuale all’interno dello sviluppo novecentesco della dialettica autorità/libertà, e perciò della complessa trama dei rapporti tra individuo e potere pubblico. Del resto, secondo la definizione della globalizzazione data dal filosofo tedesco Jurgen Habermas, tra gli aspetti che ne concorrono a formare l’articolata fisionomia si pone anche quello della diffusione di Internet (si calcola che il 64 % della popolazione mondiale è collegato a Internet e si afferma che presto due terzi della medesima vi sarà collegato). Tuttavia, non si può non convenire con il pensiero che respinge l’idea secondo cui il processo di globalizzazione abbia conosciuto in questi ultimi tempi una battuta, quasi fatale, di arresto, cui avrebbero contribuito in grande misura le due gravi questioni mondiali della pandemia e del conflitto russo-ucraino e alle quali si andrebbe ad aggiungere la crisi energetica. È vero – si replica (le ha dato voce da ultimo Sabino Cassese, con il suo intervento al Festival dell’economia di Torino) – che la pandemia e il conflitto hanno spinto gli Stati nazionali a riprendersi la scena, con un protagonismo che ha riguardato soprattutto certi campi d’azione, in primo luogo la salute pubblica, la libertà di circolazione e quella di impresa; soprattutto per quest’ultima è stata evidenziata la tendenza delle decisioni industriali a dirigersi verso una riduzione della catena globale del valore. Ma è altresì vero che le reazioni alla pandemia e alla guerra hanno visto l’Unione Europea riprendersi la scena come difficilmente si ricordava. E la dimensione europea non è che una delle dimensioni sovranazionali verso cui si dirige il moto della globalizzazione. Credo non sia improprio osservare, allora, come anche il processo di digitalizzazione, come vedremo, sia segnato da un vivace attivismo delle istituzioni europee, che si va distinguendo soprattutto nella ricerca di un adeguato sistema di protezione dei singoli individui nell’ecosistema digitale.
Un ulteriore corollario attiene infatti alla presa d’atto che il confronto tra diritti fondamentali nell’era digitale avviene all’ombra di un processo di disintermediazione che ha portato il singolo individuo immediatamente al cospetto di giganteschi operatori privati, i cosiddetti OTT, ossia gli Over the top, che, a causa di quell’anomia del sistema che si è descritta, agiscono senza alcuna formale costrizione, atteggiandosi, come si è osservato, non più a semplici attori di mercato, bensì a detentori, de facto, di un vero e proprio potere digitale, di natura tuttavia privata, di fronte al quale il singolo appare sempre più immerso in una posizione di “solitudine” e, quindi, di “ulteriore debolezza” (O. Pollicino, in Potere digitale, in Potere e Costituzione, 2023, Milano); il che, come è immediatamente evidente, solleva una serie di problemi inerenti in particolar modo ai diritti fondamentali dell’individuo e ai pericoli di indebolimento cui essi sono esposti quanto alla loro effettività nel rapporto, diseguale e asimmetrico, che si instaura con siffatte entità multinazionali. Ne consegue la necessità di una riflessione sull’uso che si è fatto in questi anni degli strumenti del diritto costituzionale vigente per arginare l’evidente rischio di regressione che minaccia i diritti e le libertà individuali nello spazio digitale. A questo proposito, è opportuno ricordare che a un certo punto della vicenda, considerata di fondamentale importanza anche per gli aspetti inerenti alla libera partecipazione alla vita democratica, si è venuta a porre la questione se si potesse realmente configurare un diritto di accesso alla Rete, il cui venir meno poteva considerarsi, al punto in cui si era giunti, una forma di forzata estraniazione dell’individuo al “dibattito delle idee” e a ciò che, nell’agorà virtuale, può alimentare la “prassi istituente” (R. Esposito, Istituzioni, Bologna, 2021). Ed è interessante notare come tale questione sia stata immediatamente dibattuta con gli strumenti del costituzionalismo classico, fino a immaginare la costruzione di una nuova forma di costituzionalismo digitale, fondata, in ogni caso, su quella base valoriale che rappresenta il sostrato delle Carte fondamentali nate in Europa nel secondo dopoguerra. Anche in Italia si sono registrati echi rilevanti di tale dibattito, prima con il celebre saggio di Stefano Rodotà apparso nel 2010 e intitolato Una costituzione per Internet? poi, cinque anni dopo, con la Dichiarazione dei diritti in Internet promossa dallo stesso Rodotà. In tale documento, è possibile leggere un articolo, l’articolo 2, in cui, a riprova di quella ideale filiazione dal fertile terreno della Costituzione repubblicana, il diritto di acceso alla Rete, definito fondamentale, è configurato in termini non di mero riconoscimento bensì di effettività sostanziale; sino a rendere concepibile l’intervento dei poteri pubblici volto a superare, in un rinnovato sforzo egualitario, ogni forma di divario digitale, qualunque ne possa essere la causa, sia essa determinata dal genere, dalle condizioni economiche o da situazioni di vulnerabilità personale o disabilità.
Va subito rilevato che lo sviluppo della vicenda incentrata sulla protezione dei diritti fondamentali si è concentrato in Europa sul conflitto tra il diritto alla privacy e il diritto alla libertà di espressione e di informazione. Questo è verosimilmente il portato di una certa percezione sociale della Rete, la cui nascita, come si ricorderà, è stata accompagnata da ingenui quanto irrealistici entusiasmi che predicavano, attraverso l’indipendenza del cyberspace, l’avvento di una dimensione totalmente libertaria, finalmente affrancata dalle “vecchie” logiche sovraniste nazionali verso le quali veniva dichiarata in maniera esplicita la più intransigente ripulsa (si pensi alla dichiarazione di indipendenza del cyberspace di John Perry Barlow del 1996). Tra gli aspetti più interessanti che si possono cogliere in questa vicenda intessuta dall’urto tra diritti fondamentali o tra questi e altri interessi “rafforzati”, vi è il fatto che per un lungo periodo il legislatore europeo non è sembrato interessato a dirimere i punti di contrasto con un suo diretto intervento, che appunto eliminasse le antinomie, preferendo che i nodi problematici fossero sciolti attraverso l’elaborazione interpretativa giurisprudenziale, in particolare affidata all’attività della Corte di Giustizia; la quale, dal suo canto, ha eseguito il difficile compito usando appieno il consueto strumento del bilanciamento. Si è dato fondo, dunque, a una tecnica risolutiva dei conflitti tra norme “funzionalmente orientata a istituire relazione di precedenza condizionata fra i principi, i diritti o gli interessi coinvolti” (F. Ferri, Il bilanciamento dei diritti fondamentali nel mercato unico digitale, Torino, 2022), fondata espressamente sull’articolo 52, par.1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. È ben noto come si tratti di una tecnica, spesso adoperata anche dalla nostra Corte costituzionale, con cui si intende sfruttare una valutazione ponderata degli interessi in gioco, nel presupposto che nessuna delle norme che vengono in rilievo sia assolutamente inderogabile (non riguardando, cioè, essa un diritto assoluto), né che risulti inciso, a conclusione dell’iter valutativo, il contenuto essenziale, perciò non sacrificabile, di uno dei diritti fondamentali oggetto del bilanciamento praticato.
La vicenda di cui ci stiamo occupando ha molti aspetti di indiscutibile interesse, anche perché essa si proietta, con tutta evidenza, nel prossimo futuro. Uno degli aspetti che mi pare vada colto è che, nell’esperienza giurisprudenziale europea, l’operazione di bilanciamento, quando ha riguardato il diritto alla privacy, e quindi il grado di protezione dei dati personali, è sembrata orientarsi a un criterio di decisa preferenza di tale diritto rispetto agli altri con cui è venuto a misurarsi, in special modo con il diritto all’informazione, predicante la piena ostensione dei dati sulle piattaforme digitali per un principio di trasparenza e di pubblicità considerato altrettanto meritevole di tutela. Ne è stato un peculiare esempio la famosissima sentenza relativa al caso “Google Spain”, che risale al 2014, in cui la Corte di giustizia affermò il cosiddetto diritto all’oblio. Alla base del caso vi era la richiesta che l’Autorità garante spagnola per la protezione dei dati aveva rivolto a Google di rimuovere alcuni link che comparivano allorché il nome del ricorrente fosse stato utilizzato come parola-chiave di ricerca. Google si era rifiutato di adempiere, rilevando di non essere soggetta al diritto dell’UE, in quanto avente sede negli Stati Uniti, e che la richiesta comportasse una restrizione alla libertà di informazione degli utenti. È stato rilevato come, in occasione di questa pronuncia, la Corte si sia spinta fino al punto estremo della propria linea di bilanciamento, dando inizio ad un filone giurisprudenziale che ha visto il test di proporzionalità tra diritto alla privacy e altri diritti di rango primario, quali la libertà di espressione e di informazione, e la stessa libertà di impresa, risolversi decisamente in favore del primo. La citata sentenza, fondata sulla prevalenza degli articoli 7 e 8 della Carta di Nizza, è rilevante poi sotto un altro profilo, avendo la Corte lussemburghese affermato l’applicazione a un motore di ricerca della disciplina sulla protezione dei dati, in qualità di titolare del trattamento, nonché, cosa altrettanto notevole, l’estensione a soggetti che hanno il loro stabilimento in paesi fuori dall’Unione europea, responsabili del trattamento di dati personali inerenti a individui residenti nell’Unione, della direttiva n.95/46 CE, all’epoca vigente in materia prima dell’introduzione del General Data Protection Regulation, GDPR, adottato nel 2016. L’indirizzo giurisprudenziale della Corte di giustizia ha trovato sbocco anche in altre notevoli pronunce, in particolare nella sentenza, coeva a quella del caso spagnolo, conosciuta come Digital Rights Ireland, con la quale, utilizzando la Carta di Nizza quale parametro costituzionale, è stata annullata l’intera disciplina sul data retention perché in contrasto con i principi giuridici della costruzione europea. Ma l’opera giurisdizionale di bilanciamento fondata sull’utilizzazione dell’articolo 8 della Carta dei diritti fondamentali sulla protezione dei dati è proseguita con una serie di sentenze denominate Schrems dal nome di un utente austriaco di Facebook. L’importanza di tali pronunce è data dal fatto che la Corte, rivedendo un suo precedente orientamento, e in contrario avviso alla Commissione europea, ha ritenuto non idoneo il livello di tutela previsto negli Stati Uniti con il meccanismo cosiddetto di safe harbour, scrutinato, ancora una volta, alla luce degli articoli 7 e 8 della Carta. La valutazione negativa muoveva anche dalla considerazione dei sempre maggiori rischi connessi all’uso e all’abuso dei dati da parte delle piattaforme, risolvendosi, dunque, in un giudizio che, nell’impianto argomentativo della giurisprudenza europea, ha continuato a guardare con più sospetto al potere privato, diversamente dall’indirizzo registrato oltreoceano. A questo riguardo, l’approfondimento dottrinario pare ravvisare nell’attività della Corte i fondamenti per la costruzione, in ambito cyber, di una “nuova dimensione della sovranità europea”, consistente, appunto, nella sovranità digitale, capace di affermare la cogenza delle proprie regole anche al difuori dello spazio fisico del vecchio Continente.
Recentissime riflessioni dottrinarie sul contesto in cui si è svolta l’attività della Corte di giustizia (si rinvia, oltra alla già citata voce Potere digitale, al volume Lo Stato digitale. Una introduzione, di L. Torchia, Bologna, 2023, in particolare ai capitoli 2 e 3) tendono a inquadrare il favor per il diritto alla privacy nella cornice valoriale propria delle costituzioni europee e del quadro normativo unionale, in particolare rappresentato dalla Carta dei diritti fondamentali e anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. All’interno di tale cornice, si porrebbe, in effetti, la preoccupazione per il rischio che il diritto dell’individuo di proteggere la propria sfera di riservatezza finisca coll’essere sopraffatto dalle capacità espansive della tecnologia, vista come temuto strumento di dominio. In questo senso, si cita, tra i vari esempi di dinamiche con effetti potenzialmente distorsivi, la gestione di grandi masse di dati e il loro trattamento algoritmico rivolto a individuare profili psicometrici applicabili a intere categorie di individui per perseguire scopi commerciali ovvero per influenzare, tramite un’attività di microtargeting, gli orientamenti politici. Viene anche osservato, tuttavia, come al ruolo di sostanziale supplenza svolto dalle Corti stia venendo a sovrapporsi un ritrovato spirito di iniziativa del legislatore europeo, come dimostra l’adozione del già citato GDPR e l’avviato processo di adozione di un testo normativo sulla disciplina dell’intelligenza artificiale, giunto, al momento in cui si scrive, alla fase del “trilogo”. Si aggiunge a ciò la considerazione secondo cui la dottrina europea sulla protezione dei dati personali sta sortendo un “effetto trainante” (così L. Torchia, op.cit.) anche rispetto ad altri ordinamenti; ne sono in qualche modo una conferma l’adozione di una legge cinese in materia e anche il dibattito in sede legislativa in corso negli Stati Uniti. La disciplina della protezione dei dati personali resta dunque un tema di cruciale rilevanza in una prospettiva di efficace e piena tutela dei diritti fondamentali, non solo per i profili che riguardano la cosiddetta libertà negativa, nell’accezione che ne dava il filosofo inglese Berlin, cioè in funzione della pretesa di non vedere abusivamente invasa la propria sfera personale, ma anche per quelli relativi alla libertà positiva, ossia afferenti alla dimensione partecipativa al gioco democratico e nella quale è necessario che trovi spazio la difesa dei diritti fondamentali.