“Se qualcuno è un essere pensante, radicato nei propri pensieri e ricordi, per cui sa che deve vivere con se stesso, ci saranno limiti a ciò che permetterà a se stesso di fare.”
Le meditazioni di Hannah Arendt a proposito della relazione che esiste tra capacità individuale di pensare e banalità del male, sono tutt’altro che fuori luogo quando si cerca di esprimere un giudizio su come talvolta i mass – media gestiscono l’informazione.
Il progresso della società in cui viviamo è infatti legato (anche) al moltiplicarsi delle tecniche di comunicazione, che giova significativamente al processo di democratizzazione globale ma, inevitabilmente, aumenta anche il rischio che un fatto di cronaca si trasformi in un male multiforme ed irrimediabile per il protagonista della notizia/vittima del reato.
E’ il caso della tragica vicenda che ha travolto la famiglia Gambirasio, che dopo avere perso una figlia adolescente, senza potere oggi ancora capire chi, e perché, l’ha strappata con violenza a una vita ancora da scoprire, subisce da tempo impotente la continua diffusione sui mezzi di informazione di fotografie o video della propria figlia.
Maura e Fulvio Gambirasio, infatti, nonostante sin dallo scorso mese di gennaio abbiano chiesto di rispettare il silenzio stampa sul loro dolore, sono stati costretti più volte a chiedere che venga fermata la diffusione di immagini che, senza alcuna ragione informativa, ritraggono la propria figlia (poco più che una bambina) in momenti spensierati della sua vita.
Perciò, lo scorso 2 aprile, i Gambirasio sono stati costretti a diffondere un duro comunicato :“Non capiamo e non giustifichiamo questo continuo accanimento giornalistico nella ricerca di fotografie o di video raffiguranti Yara…stiamo cercando di ricostruire un nuovo equilibrio familiare e il clima che state creando non ci sta aiutando…rimarchiamo la nostra volontà di non autorizzare l’emissione di queste immagini, che ai fini investigativi non sono di alcuna utilità”.
I genitori di Yara hanno concluso il loro appello al Grande Fratello (nel senso orwelliano dell’espressione) in modo accorato ma molto efficace: “Vi preghiamo di non nascondervi dietro il paravento del diritto di cronaca, abbiate semplicemente rispetto ed umiltà per la nostra situazione”.
Deve però essere un paravento (giustamente) fragile quello del diritto di cronaca, quando i protagonisti della notizia sono minori.
Il codice di procedura penale, infatti, al comma 6 dell’articolo 114 espressamente vieta “la pubblicazione delle generalità e dell’immagine dei minorenni testimoni, persone offese o danneggiati dal reato” nonché “la pubblicazioni di elementi che anche indirettamente possano portare all’identificazione dei minorenni” .
Anche le norme deontologiche della professione giornalistica impongono particolare rigore nell’impedire la diffusione di immagini che riguardano minorenni coinvolti, a qualsiasi titolo, in fatti di cronaca.
Bene ha fatto, perciò, il Garante della Privacy, a proposito del comunicato della famiglia Gambirasio, ad intervenire per invitare i media a rispettare l’articolo 7 comma 3 del codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica e la Carta di Treviso, che indicano “come requisito essenziale di legittimità per la diffusione dei dati relativi ai minori” un giudizio sull’ “interesse oggettivo del minore”.
Il Garante, ha spiegato che i mezzi di informazione devono rispettare il “dolore di una famiglia” che, a causa del reiterarsi della diffusione di filmati e immagini della propria figlia vittima di un crimine orrendo, subisce “il sicuro effetto” di essere rinnovato senza alcuna utilità per l’opinione pubblica.
Un dolore “inutile”, quello dei genitori, che è drammaticamente cagionato dall’ incapacità di pensare di alcuni giornalisti che, senza riflettere sul senso e le conseguenze delle proprie azioni, calpestano i diritti dell’individuo e mortificano la dignità dell’informazione.
Il Garante, nel recente passato, ha spiegato che, relativamente ai dati dei minori, “il Codice di deontologia introduce una disciplina specifica, riconoscendo come prevalente l’esigenza di salvaguardare la personalità dei minori da indebite interferenze nella loro vita privata da parte degli organi di informazione e di comunicazione di massa” ( 16 settembre 2010 relatore Paissan).
Il giornalista ha quindi “l’onere di attenersi alla disciplina sopra richiamata, impedendo che vengano diffuse, anche nel corso di interviste rilasciate da altri soggetti, informazioni idonee a identificare i minori” (ibidem).
Secondo le regole della deontologia della professione giornalistica, richiamate nel provvedimento del Garante prima citato, la diffusione di dati relativi a minori può avvenire solo ove “il giornalista reputi, sotto la propria responsabilità, che tale scelta sia giustificata per motivi di rilevante interesse pubblico e sia fatta nell’interesse oggettivo del minore” (conformi le decisioni del 2 ottobre 2008 e del 5 giugno 2008: quest’ultima, in particolare, sottolinea l’importanza del rispetto del criterio deontologico dell’essenzialità dell’informazione che riguarda minorenni).
L’articolo 8 della Carta di Treviso, è lapidario quando afferma che nei casi di esclusivo “interesse del minore, ad esempio i casi di rapimento o bambini scomparsi”, quando “si ritiene indispensabile la pubblicazione di dati personali e la divulgazione di immagini, andranno tenuti comunque in considerazione il parere dei genitori e delle autorità competenti”.
La Carta dei doveri del giornalista, peraltro, spiega che vanno “evitate possibili strumentalizzazioni da parte degli adulti portati a rappresentare e a far prevalere esclusivamente il proprio interesse”.
Una recente decisione del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia (14 gennaio 2009), giudicando un caso analogo, ha spiegato che “se i protagonisti sono minori vanno comunque rispettate le regole deontologiche che garantiscono una loro specifica tutela che non viene meno per il solo fatto che essi non siano più in vita…anche in caso di particolare rilevanza di una notizia per un determinato contesto territoriale e sociale”.
Non è quindi mai “legittima la pubblicazione di particolari non indispensabili alla narrazione della notizia di interesse pubblico, che non deve essere arricchita da dati personali che possano condurre all’identificazione del minore deceduto, cui va garantita particolare tutela anche dopo la morte” (ibidem).
L’inutile cinismo dei mezzi d’informazione, in casi analoghi a quello che ha visto intervenire il Garante a tutela dei diritti fondamentali della famiglia Gambirasio, cagiona un male soggettivo estremo (l’impossibilità, per chi ha subito l’assassinio di una giovane figlia, di ricostruire il proprio equilibrio familiare lontano dai riflettori) e nel contempo ne arreca uno di natura oggettiva e diffusa alla società in cui viviamo.
Il messaggio che passano i media, infatti, è ben più potente ed immediato di quello contenuto nella legge; se l’opinione pubblica si convince che tutto è lecito nella rincorsa al primato dello share, si deteriorano le fondamenta culturali e civili della società in cui viviamo e si annebbia la capacità di pensare dell’individuo.
E dove la “capacità di pensare dell’individuo è assente là si trova potenzialmente la banalità del male” (Federico Stella).
Informazione e rispetto dei diritti del minore; se anche il cronista diventa carnefice.
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