1. In una recente sentenza, Il Tribunale di Firenze[1], si è occupato di un interessante caso: l’imputata aveva ripreso, in pubblico, immagini della vittima, con segni di lesioni al volto, e le aveva pubblicate su Facebook senza il consenso dell’interessata.
Ne conseguiva l’imputazione di violazione della privacy, ai sensi dell’art. 167 del D.Lgs. n. 196 del 2003.
Nella fase preliminare, la difesa aveva eccepito l’incompetenza del Tribunale fiorentino. Di qui la discettazione della sentenza sul tema, che in gran parte applica la, pur ondivaga, giurisprudenza della Suprema Corte.
2. Innanzitutto, va premesso che il processo si era radicato a Firenze per un duplice motivo: quale luogo della captazione delle immagini e contemporaneamente di dimora della vittima e, perciò, di verificazione del danno.
Il Tribunale implicitamente affronta la prima premessa, rilevando che il delitto nella forma della comunicazione è sanzionato più severamente del solo trattamento. Infatti, il reato – che si struttura in una fattispecie a condotte plurime – può manifestarsi in due modalità: il trattamento e la comunicazione. Sarebbe stato interessante conoscere immediatamente l’esplicita opinione del giudicante in tema di coincidenza fra ripresa di immagini e trattamento. L’art. 4, lett. a) del Codice della privacy definisce tale condotta: “qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca dati”. A me pare che la ripresa dell’immagine, oggetto della violazione, ben possa essere ricondotta alla nozione di trattamento sia quale “raccolta” del dato sia quale “registrazione” dello stesso. Invece, dopo aver esaminato la qualificazione giuridica del termine nocumento, il Tribunale osserva: “nella fattispecie in esame, il trattamento illecito di dati personali .. è avvenuto attraverso la pubblicazione delle immagini .. sul noto social network Facebook”. Qui s’innesta una certa confusione, perché tale condotta appare piuttosto aderente alla divulgazione, prevista dal secondo comma dell’art. 167 del Codice della privacy che al primo.
Comunque si sia orientato il Tribunale, tuttavia, essendo il previo trattamento meno grave della conseguente comunicazione, ai sensi dell’art. 16, co. 1 c.p.p., deve aversi riguardo alla seconda condotta per determinare la competenza.
3. Per risolvere questo delicato tema, il Tribunale prende le mosse dalla qualificazione strutturale di un elemento di fattispecie: il nocumento[2]. Rileva che vi sono state attente disquisizioni sulla funzione del “nocumento” all’interno della norma incriminatrice: due, come prevedibile, le ipotesi contrastanti; che sia evento o condizione obiettiva di punibilità. Nel dilemma, il Tribunale predilige la seconda qualificazione.
Va notato che si tratta di una disputa generata dall’anomala formulazione della norma in questione. Sull’onda dell’ultimo modelling legislativo, le categorie distintive vengono pretermesse o non ben chiarite. Non fosse soltanto per la rivelazione che il danno nell’art. 167, co. 2 è menzionato addirittura due volte: la prima come finalità del previsto dolo specifico e la seconda con l’espressione: “se dal fatto deriva nocumento”. Tale formula è usualmente utilizzata all’interno di fattispecie aggravate dall’evento, per definire il fatto genetico dell’aumento di pena.
A mia modesta opinione, è confliggente che lo stesso elemento (danno o nocumento) si atteggi contemporaneamente come finalità del dolo specifico (quindi dato che non deve realizzarsi necessariamente per la consumazione del reato) e, comunque, quale elemento di fattispecie (indispensabile alla consumazione, comunque lo si voglia catalogare).
In effetti, la singolarità evidenziata potrebbe confermare, anche se in modo alquanto contorto, la tesi accettata dal Tribunale.
4. Tuttavia, la nomenclatura appare alla fine della motivazione neutra rispetto alla determinazione della competenza.
Il Tribunale, infatti, decide al riguardo sulla base di logiche pragmatiche, citando una nota sentenza del S. C. in tema di diffamazione a mezzo Internet [3]. Conseguentemente ,afferma: “il provider mette a disposizione dell’utilizzatore uno spazio web allocato presso un server (che può trovarsi ovunque); peraltro, l’inserimento dei dati in questo spazio non comporta alcuna ulteriore attività da parte del fornitore dei servizi internet, né di altro soggetto. Una volta inserite o immesse le informazioni o le immagini – offerte ad incertam personam, stante, come ricordato, la fruibilità da parte di un numero solitamente elevato (ma difficilmente accertabile[4]) di utenti – non si verifica alcuna “diffusione” delle stesse; i dati inseriti non partono dal server verso alcuna destinazione ma rimangono immagazzinati a disposizione dei singoli utenti che vi possono accedere, attingendo dal server e leggendoli al proprio terminale.”. Ne deriva che: “ai fini dell’individuazione della competenza, sono inutilizzabili, in quanto di difficilissima, se non impossibile individuazione, criteri oggettivi unici, quali ad esempio quello di prima pubblicazione, di immissione della notizia nella rete, di accesso del primo visitatore o quello del luogo in cui è situato il server.., in cui il provider alloca la notizia”.
La sentenza, pertanto, conclude, con la necessità di ricorrere ai criteri residuali indicati dall’art, 9 del codice di rito ed in particolare a quello previsto nel secondo comma della residenza dell’imputato e conseguentemente trasmette gli atti a Santa Maria Capua Vetere.
Se sono assolutamente condivisibili le osservazioni della S, C., qualche dubbio mi resta sulla loro applicazione ad un reato diverso dalla diffamazione. Infatti, La Cassazione aveva individuato il principio per questo delitto, come noto di mera condotta e privo di evento. Appare alquanto difficoltoso utilizzarlo e traslarlo per un reato che prevede quantomeno una condizione di non punibilità, se non addirittura un evento. In questo caso, infatti, il nocumento che avrebbe attinto la vittima si sarebbe prodotto nel luogo di sua residenza, circondario di Firenze.
[1] Tri. Firenze, Sez. II pen., dott. Pagliai, 9 dicembre 2014, deposito 8 gennaio 2015 c. A.N.C.M.
[2] L’art. 167, co. 2 del Codice della privacy prevede: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 17, 20, 21,22, comma 8, 11, 25, 27 e 45, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni”.
[3] Cass., Sez. I pen:, 15 marzo 2011, n. 16307.
[4] La sentenza evidentemente risale ad un periodo in cui Facebook non indicava come fa ora il numero delle visualizzazioni del singolo post.