- Introduzione
Con decisione n. 2207/2019, depositata in data 18 febbraio 2019, il Tar romano si è pronunciato sul ricorso proposto da Airbnb avverso il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate prot. n. 132395/2017 del 12 luglio 2017 (il Provvedimento), attuativo di alcune delle disposizioni contenute nel d.l. 50/2017. Il Tar ha ritenuto infondate le censure proposte dalla ricorrente e pertanto il ricorso è stato rigettato.
La pronuncia in esame, sebbene scaturita da un contenzioso riguardante essenzialmente tematiche fiscali, riveste un certo interesse anche dalla più ampia prospettiva della regolamentazione della c.d. platform economy, giacché si sofferma incidentalmente sul tema della configurabilità dei servizi offerti da Airbnb alla stregua di servizi della società dell’informazione. Sul predetto tema, ad oggi, il quadro normativo nazionale e comunitario si presenta confuso e, a tratti, lacunoso, con la conseguenza che le pronunce delle autorità giudiziarie in materia acquisiscono, in una prospettiva de jure condendo, una rilevanza che non può essere ignorata.
- Fatto
Con l’art. 4, c. 4, 5 e 5-bis del d.l. 50/2017, convertito, con modificazioni dalla l. 96/2017 è stato stabilito che:
- gli intermediari immobiliari, nonché i gestori di portali telematici sui quali la domanda e l’offerta di alloggi si incrocino, sono tenuti a trasmettere all’Agenzia delle Entrate i dati relativi ai contratti conclusi per il loro tramite,
- i soggetti di cui al punto (i) che precede, qualora incassino i canoni o i corrispettivi relativi ai predetti contratti, ovvero qualora intervengano nel pagamento di questi ultimi, assumono il ruolo di sostituti d’imposta e sono pertanto tenuti ad operare una ritenuta del 21% sull’ammontare delle predette cifre all’atto del pagamento al beneficiario, dovendo altresì provvedere al relativo versamento,
- i soggetti di cui al punto (i) non residenti in Italia ma in possesso di una stabile organizzazione nel Paese adempiono ai loro obblighi attraverso la stabile organizzazione, mentre i soggetti – sempre residenti all’estero – che di tale organizzazione non dispongano sono tenuti a nominare un rappresentante fiscale.
Come noto, Airbnb è un portale telematico che consente a persone che ricerchino un alloggio – normalmente per brevi periodi – di intercettare l’offerta di proprietari che di tali alloggi offrano la disponibilità. In ragione di ciò, la società è apparsa da subito rientrare nell’ambito soggettivo di applicazione delle predette norme, come successivamente confermato dal Provvedimento. Airbnb ha pertanto depositato un ricorso presso il Tar di Roma, deducendo l’illegittimità del Provvedimento medesimo, domandando la disapplicazione della normativa primaria di riferimento e chiedendo altresì di sollevare dinanzi alla CGUE una questione pregiudiziale, finalizzata a stabilire se l’art. 56 del TFUE osti all’introduzione di una normativa quale quella in esame.
Nel proprio ricorso, Airbnb ha argomentato, tra gli altri motivi di diritto, la contrarietà del quadro normativo sopra delineato alla direttiva 1535/2015/UE. Ad avviso della ricorrente, in particolare, il Provvedimento darebbe attuazione a fonti di rango primario approvate dall’Italia in violazione dell’obbligo, discendente dalla predetta direttiva, della loro previa comunicazione alla Commissione Europea. Dal momento che l’obbligo della previa comunicazione alla Commissione si applica all’emanazione di regole tecniche concernenti i servizi della società dell’informazione, la decisione sul motivo di diritto proposto dalla ricorrente ha richiesto da parte del Tar, incidentalmente, una presa di posizione circa il tema della configurabilità del servizio reso da Airbnb alla stregua di un servizio della società dell’informazione. L’esito di tale presa di posizione, tuttavia, non sembra del tutto chiaro.
- Diritto
La definizione di servizio della società dell’informazione è offerta dall’art. 1, punto 2, della direttiva 98/34/CE. Ai sensi della normativa in questione, sono servizi della società dell’informazione quei servizi prestati – normalmente – dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale del soggetto che ne sia destinatario. È importante comprendere se un dato servizio ricada o meno nell’ambito oggettivo di applicazione di tale normativa perché da ciò discendono una serie di conseguenze di non poco conto: si pensi, ad esempio, all’obbligo di far precedere gli interventi regolatori in materia dalla comunicazione alla Commissione Europea (obbligo della cui violazione Airbnb si doleva nel proprio ricorso) ed all’applicabilità a tali servizi del principio di cui all’art. 4, c. 1 della direttiva 2000/31/CE, in base al quale gli Stati Membri non possono subordinare l’accesso al mercato dei prestatori di questo genere di servizi ad autorizzazioni preventive (se non in casi particolari).
La definizione di servizi della società dell’informazione offerta dalla direttiva 98/34/CE – ripresa dalla direttiva 1535/2015/UE – si sta dimostrando sempre più inadeguata a cogliere le sfumature che l’odierno panorama della platform economy presenta. Sempre più frequenti, infatti, sono i casi in cui viene messa in discussione la natura delle prestazioni rese dalle piattaforme digitali e sempre più spesso, nell’assenza di certezze normative, è necessario l’intervento della giurisprudenza.
Nel caso che qui viene in rilievo, il Tar capitolino ha sostanzialmente fornito una risposta positiva al quesito circa la configurabilità del servizio offerto da Airbnb alla stregua di un servizio della società dell’informazione, ritenendo tuttavia che il Provvedimento non mirasse a colpire – dal punto di vista fiscale – tale prestazione, bensì la locazione, unica attività ricadente nell’ambito oggettivo di applicazione del Provvedimento. Da tale risposta è scaturito il rigetto della tesi secondo la quale l’art. 4 del d.l. 50/2017 sarebbe stato adottato in violazione della direttiva 1535/2015/UE (in quanto non previamente comunicato alla Commissione).
Se le conclusioni raggiunte dalla Corte per certi versi non sono sorprendenti, piuttosto oscure risultano le motivazioni che hanno condotto a questo risultato. Il Tar, infatti, ha operato un rimando alla decisione resa dalla CGUE sul caso Uber France[1], ricordando come in quel caso la Corte UE abbia riconosciuto l’intermediazione come meramente accessoria rispetto al servizio di trasporto, essendo la prima indissolubilmente legata all’offerta di trasposto che la stessa piattaforma avrebbe in qualche modo creato. Nel caso di Airbnb, invece, ad avviso della Corte romana varrebbe “l’esatto contrario”, perché l’attività di intermediazione posta in essere dalla ricorrente sarebbe ben distinta da quella locativa, posta in essere dai proprietari immobiliari. Perché nel caso di specie, a differenza di quanto ritenuto nel caso di Uber, l’intermediazione debba essere considerata come un qualcosa di totalmente distinto dall’attività di locazione, è qualcosa di non immediata comprensione.
Per capire le perplessità che desta la pronuncia italiana è utile ripercorrere alcuni passaggi della decisione dei Giudici del Lussemburgo. In quel caso, la controversia riguardava un soggetto – Uber – che gestisce un’applicazione in grado di far incontrare domanda ed offerta di servizi di trasporto su strada (non di linea) di persone. Nel caso Uber France, la CGUE ha ritenuto il servizio prestato dalla piattaforma indissolubilmente legato a quello di trasporto – e dunque non qualificabile come servizio della società dell’informazione – perché Uber «forniva un’applicazione senza la quale detti conducenti non avrebbero avuto la possibilità di fornire servizi di trasporto e le persone intenzionate ad effettuare uno spostamento in area urbana non avrebbero avuto accesso ai servizi di questi conducenti, e, in secondo luogo» perché «la società di cui sopra esercitava un’influenza determinante sulle condizioni della prestazione fornita dai conducenti, in particolare fissando il prezzo massimo della corsa, ricevendo tale prezzo dal cliente per poi rimetterne una parte al conducente non professionista del veicolo, ed esercitando un certo controllo sulla qualità dei veicoli e dei loro conducenti nonché sul comportamento di quest’ultimi, suscettibile di portare, eventualmente, alla loro esclusione». Per queste ragioni, si è ritenuto il servizio di intermediazione di Uber parte integrante (non preponderante) di un servizio complessivo misto, la cui componente principale sarebbe, appunto, quella del trasporto e non già quella dell’informazione.
Alla luce delle motivazioni sopra esposte, non è chiaro perché invece, ad avviso del Tar capitolino, nel caso di Airbnb accadrebbe «l’esatto contrario» e dunque il servizio fornito dalla piattaforma dovrebbe essere nettamente distinto da quello prestato dai proprietari degli alloggi. Perché l’attività di intermediazione di Airbnb dovrebbe essere distinta da quella dei proprietari degli immobili più di quanto l’attività di intermediazione di Uber lo sia da quella degli autisti che su quella piattaforma offrono i loro servigi? Forse perché Airbnb, a differenza di Uber, non sarebbe in grado di esercitare un’influenza determinante sulle condizioni degli affitti brevi offerti dai proprietari? O perché Airbnb non esercita un controllo abbastanza pregnante sulla qualità degli immobili e sul comportamento degli “host”? Non è dato conoscere la posizione del Tar al riguardo, dal momento che la sentenza in esame non la esplicita: eppure, sulla capacità di Airbnb – ad esempio – di influenzare il mercato delle locazioni brevi ci sarebbero studi approfonditi da condurre, il cui esito potrebbe non essere scontato.
Il tema meriterebbe un approfondimento maggiore. Invero, non è ben chiaro quale motivo abbia indotto il Tar ad operare un rimando alla decisione dei Giudici del Lussemburgo: mentre nel caso di Uber, infatti, il ragionamento della Corte aveva un senso in quanto finalizzato a stabilire se i servizi offerti dalla piattaforma UberPop rientrassero o meno nei servizi della società dell’informazione, il ragionamento della Corte italiana sembra più che altro finalizzato a dimostrare che le misure fiscali imposte dal Legislatore nostrano riguardano non tanto l’attività di comunicazione svolta in ambito digitale a monte, quanto piuttosto l’attività ricettiva svolta a valle, la quale sarebbe agevolmente distinguibile dalla prima e sarebbe la vera destinataria delle misure poi concretamente implementate dall’Agenzia delle Entrate. Forse, ci si sarebbe potuti limitare a questo, piuttosto che instaurare parallelismi che potrebbero anche condurre a conclusioni opposte: applicando i principi sanciti dalla sentenza Uber France al caso di Airbnb, infatti, si potrebbe sostenere che tra i servizi di intermediazione e quelli di locazione vi sia una forte commistione piuttosto che una netta separazione, tale da ritenere il servizio svolto dalla piattaforma come una parte integrante del servizio prestato dal proprietario dell’immobile locato (e d’altra parte non si vede che senso abbia collegarsi alla piattaforma di Airbnb, se non per cercare un alloggio che risponda alle proprie esigenze: quindi davvero non si vede come possa il servizio erogato da Airbnb essere ritenuto «del tutto distinto» da quello materialmente erogato dagli “host”). E ancora: se l’attività della piattaforma è del tutto distinta da quella del proprietario dell’alloggio, perché il gestore della piattaforma deve farsi carico di raccogliere e pagare le tasse che dovrebbe pagare il proprietario dell’immobile? Se infatti esistesse questa chiara distinzione, così come ritenuto dal TAR, allora giocoforza il servizio fornito da Airbnb dovrebbe essere qualificato come servizio della società dell’informazione, con la conseguenza che, impattando su di esso, la normativa di rango primario su cui si basa il Provvedimento avrebbe dovuto essere notificata alla Commissione prima della sua approvazione, in ossequio a quanto disposto dalla Direttiva 1535/2015/UE (circostanza invece negata dal Tar).
Paradossalmente, peraltro, pur nella oscurità del percorso logico-giuridico seguito, il ragionamento del Tar finisce per convergere con quello dei Giudici del Lussemburgo: ad avviso di entrambi gli organi giurisdizionali, infatti, i servizi forniti da queste piattaforme non ostano all’approvazione di normative nazionali che sottopongano l’attività delle piattaforme al regime autorizzativo previsto per il mercato di riferimento, né a norme che impongano ai gestori delle piattaforme prestazioni fiscali, perché in entrambi i casi i servizi virtuali sarebbero indissolubilmente legati ai servizi resi “in natura” e dunque dovrebbero sottostare alle regole che governano l’agire degli operatori tradizionali.
- Conclusioni
Lungi – ovviamente – dal voler sindacare la decisione del Tar capitolino, la tortuosità dell’iter logico seguito da quest’ultimo pare piuttosto indicativo dell’incertezza che regna quando vengono in rilievo tematiche connesse alla c.d. platform economy. L’incertezza in merito alla natura ed alla inquadrabilità giuridica del servizio erogato dalle piattaforme ha delle conseguenza importanti in materia – ad esempio – di requisiti per l’accesso al mercato o di applicabilità o meno della normativa a tutela del consumatore (per non parlare delle tematiche fiscali o giuslavoristiche), che ad oggi risultano tutt’altro che certi (e largamente riposti, per quanto riguarda la loro individuazione, alla sensibilità della singola autorità investita della controversia o della procedura sanzionatoria, a seconda del caso: è evidente cosa questo significhi in termini di certezza del diritto). Viste le dimensioni sempre più importanti raggiunte dalla c.d. platform economy, è senz’altro auspicabile un intervento normativo – preferibilmente di matrice comunitaria – che contribuisca alla creazione di un sistema di regole chiaro ed uniforme, sia nell’interesse dell’economia, sia nell’interesse dello sviluppo del business e della tutela dei consumatori.
[1] CGUE, Grand Chambre, C-320/16, Uber France (2018)