Il servizio di Uber tra asset dormienti e valore digitale. Quale regolazione?

A seguito della richiesta inoltrata dal Tribunale commerciale n. 3 di Barcellona alla Corte di giustizia dell’Unione europea per ottenere un pronunciamento in merito alla vicenda Uber, la stessa Corte si è trovata di fronte a un quesito fondamentale: il servizio offerto da Uber rientra nella disciplina che assicura la libertà di stabilimento ai cosiddetti servizi della società dell’informazione o, piuttosto, è soggetto al quadro regolatorio del trasporto locale urbano?

Un quesito che pone una serie di problemi interpretativi non semplici e la cui risposta, contenuta nella ormai nota sentenza del 20 dicembre scorso, rischia di determinare un restringimento delle condizioni di operatività nell’ambito in cui si sviluppa l’economia delle piattaforme.

Cerchiamo allora di capire, anche sul piano della analisi economica, quali problematiche il quesito posto da Uber solleva e sulla base di quali argomentazioni la Corte di giustizia ha ritenuto di escludere Uber dal campo di applicazione delle direttive che rendono più agevole la libera circolazione dei servizi, qualificandone l’attività come «servizio nel settore dei trasporti».

A ben vedere, sono due nella sentenza i punti centrali intorno a cui ruota il ragionamento della Corte.

Secondo la Corte di giustizia, Uber, pur essendo in linea di principio un servizio di intermediazione fra conducenti non professionisti e passeggeri, svolge anche altre due funzioni importanti: «fornisce un’applicazione senza la quale […] tali conducenti non sarebbero indotti a fornire servizi di trasporto» ed «.esercita un’influenza determinante sulle condizioni della prestazione di siffatti conducenti». In altre parole Uber, dicono i giudici, crea un’offerta di servizi di trasporto urbano e ne controlla e organizza il funzionamento, fissando in via più o meno diretta prezzo delle corse e parametri di selezione dei veicoli e valutazione della condotta dei conducenti. Alla luce di questo, il servizio di intermediazione «deve quindi essere considerato parte integrante di un servizio complessivo in cui l’elemento principale è un servizio di trasporto».

L’impianto argomentativo proposto dalla Corte trae palesemente ispirazione da quello elaborato dal suo avvocato generale,  il quale l’11 maggio scorso aveva emesso un parere sul caso Uber che, sebbene non vincolante, è risultato decisivo e influente rispetto alla sentenza.

È opportuno dunque ripercorrere le considerazioni dell’Avvocatura Generale per evidenziarne luci e ombre rispetto all’approccio interpretativo del funzionamento dei meccanismi alla base dell’economia delle piattaforme.

Innanzitutto, il contesto normativo in cui ci si muove impone di ricordare che un servizio della società dell’informazione, così come definito dalla direttiva 2000/31, che a sua volta rinvia alla direttiva 98/34, ha la caratteristica di essere «prestato dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario».

L’Avvocatura, nel valutare se Uber possa rientrare in questa definizione, si è concentrata sul tema della prestazione di servizio a distanza per via elettronica, dal momento che onerosità e richiesta individuale sono manifestamente parte del servizio offerto da Uber. A partire da qui, il parere della Avvocatura della Corte di giustizia individuava due componenti: quella digitale – o elettronica, o dell’informazione – e quella industriale – legata all’erogazione del bene o del servizio, separandole con intento maieutico.

Ciò portava a definire Uber come un servizio misto, contenente appunto una componente digitale e una fisica, mentre un servizio della società dell’informazione dovrebbe «essere interamente trasmesso, inoltrato e ricevuto mediante fili, radio, mezzi ottici, o altri mezzi elettromagnetici».

Tuttavia, era l’Avvocatura stessa a riconoscere che in alcuni casi la prestazione non può essere dematerializzata e quindi trasmessa elettronicamente. È questo il caso delle vendite online che, pur implicando la consegna fisica del bene acquistato, entrano ugualmente nel novero dei servizi della società dell’informazione.

Per valutare se le norme che liberalizzano la circolazione dei servizi della società dell’informazione, contenute nella direttiva 2006/123/CE, siano applicabili anche ai servizi misti, l’Avvocatura riteneva che dovesse essere soddisfatta una delle due seguenti condizioni: indipendenza della prestazione fisica dalla componente elettronica o, in caso di difficile scindibilità delle due componenti, accessorietà di quella fisica.

Rispetto alla prima condizione, sembra che il concetto di indipendenza sia inteso come possibilità che la prestazione fisica esista autonomamente, anche senza la componente elettronica, in altri termini che non sia intrinsecamente legata ad essa.

Escludere tale possibilità nel caso in esame, come ha fatto l’Avvocatura, penalizza in prima battuta proprio quegli asset dormienti su cui l’economia delle piattaforme fonda la sua operatività.

Tali asset, secondo il parere dell’Avvocatura, vengono risvegliati dalle piattaforme e pertanto non esisterebbero senza di esse.

Tuttavia, va rilevato che in alcuni casi gli asset dormienti hanno in realtà un mercato e una propria esistenza indipendente dalle piattaforme. Non si tratta infatti di asset  proprio dormienti, ma, per usare una espressione un po’ ardita, sonnecchianti, che emergono dall’ombra in cui sono relegati dalle asimmetrie informative, per esempio quando per canali anche non digitali si manifesta una domanda che incontra le possibilità di servizio offerte dagli asset stessi. Si pensi al ruolo che giocano in questo senso reti amicali, personali, circuiti degli annunci o semplici passaparola nel consentire l’espressione e la soddisfazione di tale domanda.

Ammesso che non vi sia indipendenza della componente fisica bisogna quindi considerare, seguendo il procedimento analitico dell’Avvocatura, quale delle due componenti attribuisce il significato economico al servizio complessivo, individuando insomma quella principale e quella accessoria.

Nel caso delle vendite online, l’Avvocatura ricordava che queste sono state riconosciute nell’ambito dei servizi della società dell’informazione perché offerta, accettazione, conclusione e pagamento avvengono appunto online, mentre la consegna è il semplice adempimento di un’obbligazione contrattuale. Pertanto le regole che si applicano alla consegna non dovrebbero influenzare l’erogazione della componente principale del servizio, cioè quella digitale.

Per l’Avvocatura, tuttavia, non tutte le transazioni condotte online rientrano nel raggio d’applicazione della direttiva sui servizi della società dell’informazione. Nel caso Uber, infatti, la componente principale sarebbe quella fisica. E qui sta il paradosso. La componente fisica di Uber, ovvero il trasporto, pur essendo giudicata dormiente in assenza della piattaforma, è considerata la componente fondamentale della sua attività. Secondo l’Avvocatura, il trasporto in auto non esisterebbe senza la piattaforma. Proprio per questo allora potremmo dire che si tratta di un servizio della società dell’informazione, nel senso che è la stessa società dell’informazione ad averlo reso possibile.

Inoltre, non è chiaro perché la consegna della merce non rappresenti la componente principale anche nel caso delle vendite online, mentre così è intesa quando si considera il matching fra driver e cliente, ovvero nel caso di Uber il viaggio, che potrebbe essere considerato come equivalente della consegna nel commercio elettronico.

Da un punto di vista microeconomico poi è proprio la piattaforma a creare valore, perché, rimuovendo i costi di transazione, essa svela offerta dormiente facendola incontrare con una domanda potenziale. Secondo il parere dell’Avvocatura, invece, far emergere in tal modo asset dormienti non costituisce né è classificabile come creazione di valore economico, sebbene nel caso delle vendite online sia stato riconosciuto dall’Avvocatura stessa che «la prestazione dell’intermediario rappresenta un valore aggiunto reale sia per l’utente che per l’imprenditore interessato».

Ricapitolando, il matching fra driver e cliente non è considerato né autonomo, dal momento che il driver non avrebbe vita propria senza la piattaforma, né principale, poiché il viaggio organizzato tramite il matching assume un’importanza maggiore del matching stesso. L’attività di Uber consisterebbe dunque «soltanto in una prestazione di trasporto» e «il servizio è anche presentato agli utenti e percepito dai medesimi in tal modo» come si legge nel parere.

Ancora una volta, viene da chiedersi perché questo non possa valere anche per le vendite online; è infatti legittimo immaginare che all’utente interessi maggiormente il completamento della consegna rispetto alla transazione.

Concludendo, va comunque rilevata la fondatezza sul piano economico di alcune osservazioni dell’Avvocatura, in particolare laddove si concentrava sugli aspetti di organizzazione e controllo del processo produttivo fisico. Uber non si limiterebbe a mettere in contatto offerta e domanda, ma di fatto alimenta costantemente offerta determinando, in via anche indiretta, prezzo e qualità del servizio.

Da qui alcune considerazioni e alcuni suggerimenti.

L’Avvocatura Generale della Corte di giustizia, dovendo legittimamente svolgere il proprio compito, ha preso le mosse dal quadro normativo esistente, arrivando peraltro ad ammettere che anche qualora l’attività di Uber fosse stata inquadrata come servizio della società dell’informazione, si sarebbero comunque dovuti affrontare altri quesiti relativi al ruolo dei conducenti non professionisti che operano per mezzo della piattaforma.

Secondo l’Avvocatura essi «… non disponendo di una licenza di trasporto urbano, per definizione non soddisfano […] prescrizioni in merito all’attività di trasporto propriamente detta». Ciò avrebbe potuto determinare di fatto un potenziale conflitto tra la direttiva europea in merito ai servizi della società dell’informazione ed i regolamenti locali e nazionali sui trasporti.

Invece di delineare due componenti dello stesso servizio, come ha fatto l’Avvocatura, sarebbe  forse stato più corretto riconoscere che il modello proposto dalle piattaforme si basa su tre fasi: una fase di information research and treatment, una fase di comparison/assessment/decision e una fase di esecuzione ed erogazione fisica del bene o servizio.

Le tecnologie digitali e di geolocalizzazione, ed in particolare gli smartphone, hanno trasformato tutte le fasi del processo legato alle scelte di consumo e investimento arricchendo di informazioni disponibili al “tocco di un dito” la prima e l’ultima di queste fasi. La conseguenza è che sono disponibili più servizi a prezzi ragionevoli e questi stessi sono costantemente soggetti a valutazione della loro qualità.

La sfida posta oggi dall’economia delle piattaforme alla regolazione implica un ripensamento dei criteri regolatori vigenti e una comprensione profonda dei processi innovativi.

Si tratta di riconoscere l’esistenza di questo cambiamento, provando se possibile ad anticiparlo, per non correre il rischio di rimanere troppo indietro.

Partendo da una analisi dei bisogni, la regolazione dovrebbe quindi ragionare su mobilità, cibo, accoglienza, incontro, salute, divertimento, formazione, tempo libero e su tutti i servizi offerti dalle piattaforme e chiedersi come accompagnare in modo adattivo il cambiamento tecnologico in atto. La trasformazione ed il miglioramento di tali servizi non deve essere ostacolata da vecchie regole che rischiano di congelare l’innovazione.

 

* Alla stesura ha contribuito Monica Postiglione

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