La decisione del 9 ottobre del Tribunal de Grande Instance di Parigi (TGI) rappresenta un’interessante precedente sul rapporto che lega il principio, o meglio obbligo di “must carry”, concorrenza e proprietà intellettuale. Ripercorrendo, brevemente, la controversia, il caso vede contrapposte due società: “Playmedia”, che offre agli utenti un servizio gratuito di streaming, e senza abbonamento, dei canali televisivi accessibili in Internet, e France Television, società nazionale di programmi, editrice di servizi televisivi anche prodotti da terzi, la quale detiene una rilevante porzione di mercato in tale settore.
Invocando il principio comunitario del “must carry”, Playmedia ricorreva in giudizio per lamentare l’esistenza di una fattispecie di concorrenza sleale, in particolar modo di abuso di posizione dominante da parte di France Television, a seguito di un diniego di quest’ultima a diffondere i suoi programmi televisivi sulla piattaforma di Playmedia.
France Television, di tutta risposta, mediante domanda riconvenzionale, lamentava la violazione dei relativi diritti d’autore vantati sulle produzioni televisive, in quanto Playmedia, nonostante fosse sprovvista di regolare licenza, aveva di fatto proceduto alla diffusione in Internet di tali prodotti.
Abuso di posizione dominante, diritti di proprietà intellettuale e principio di “must carry” sono, quindi, le variabili coinvolte nella decisione.
Procediamo per gradi.
Come è noto, può essere definita in posizione dominante quando, detenendo quote elevate di mercato, può comportarsi in modo significativamente indipendente dai fornitori, concorrenti e consumatori. Un siffatto comportamento, alla luce del diritto dell’Unione, è sanzionabile se si tramuta in abuso; l’art. 102 del TFUE reprime, infatti, lo sfruttamento del potere dell’impresa che, pregiudicando il commercio, pone in essere un effetto distorsivo della concorrenza.
L’obbligo di “must carry”, invece, trova una puntuale disciplina normativa all’interno della direttiva 2002/22/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica, meglio nota come direttiva sul “servizio universale”.
Perno dell’intero sistema è la liberalizzazione delle telecomunicazioni che rappresenta, al contempo, matrice ed obiettivo delle regole comunitarie che sono volte a delineare un quadro armonizzato del settore. Non solo mediante la fissazione dei relativi diritti ed obblighi, ma orientando tale attività legislativa verso i capisaldi dell’Unione: tutela della concorrenza e, specularmente, tutela del consumatore quale nuovo player economico nel gioco del libero mercato. Rilevante, per il caso che qui interessa, è l’articolo 31 della direttiva rubricato “obblighi di trasmissione”. La norma si traduce in una “ri-diffusione” obbligatoria imposta alla reti che operano servizi di diffusione al pubblico di emissioni televisive e radiofoniche; l’obbligo del “must carry” è dunque una cessione obbligatoria di una quota di capacità trasmissiva.
Questa imposizione non è incondizionata; anzi, in accordo con la disposizione citata, è essenziale che vi sia il rispetto di parametri quantitativi e qualitativi.
Sotto il primo profilo, infatti, si richiede che l’utilizzo delle reti sottoposte all’obbligo in esame, come mezzo di ricezione delle informazioni, avvenga da parte di un numero finale di utenti “significativo”.
Il secondo parametro, qualitativo, opera su un piano giustificatorio dell’imposizione: l’obbligo deve soddisfare, infatti, obiettivi, che dal punto di vista della loro natura, posso definirsi come di “interesse generale”.
In tale contesto, i beneficiari sono identificabili in tutte le imprese che non possiedono una capacità tecnologica e di mercato (in tema di reti di diffusione ed infrastrutture) in grado di svolgere un ruolo significativo nella convergenza del “servizio universale”, identificazione questa, che conferma, tra le atre cose, l’esistenza di una dimensione sociale della normativa ben percepibile già da i primi considerando della direttiva.
L’accento della sentenza, cade sull’interconnessione tra principio del “must carry” e diritti di proprietà intellettuale, nonché, chiarisce la questione circa l’esistenza di una fattispecie lesiva della concorrenza, come l’abuso della posizione dominante, qualora vi sia un rifiuto di ottemperare agli obblighi connessi con il principio in questione.
Secondo il pensiero della Corte, infatti, non è assolutamente possibile ricondurre il comportamento di France Television alla fattispecie sanzionata dall’art. 102 del TFUE; questo perché, l’essere titolare di produzione televisive proprie o di terzi, presuppone anche la titolarità dei diritti di diffusione di tali beni, prerogative che possono essere cedute esclusivamente previa esistenza di un accordo.
Contratto o licenza, quindi, necessari a prescindere dall’operatività del principio del “must carry”, il quale, assolutamente, non rappresenta un’eccezione al sistema dei diritti d’autore e dei diritti connessi.
Inoltre, nell’ottica dell’Unione, il pluralismo convergente verso il “servizio universale”, perseguito con il principio in esame, deve essere letto non come sinonimo di diritto alla diffusione del medesimo contenuto informativo, bensì come garanzia di un quadro pluralista e dinamico, in termini di creazioni di condizioni all’accesso dell’informazione.
Playmedia, quindi, divulgando senza autorizzazione gli stessi programmi televisivi di France Television, non solo ha pregiudicato i diritti d’autore di quest’ultima, ma ha travisato lo spirito della norma comunitaria che vuole esclusivamente garantire la diversità di punti d’accesso come presupposto per la fruibilità, in termini di reperimento, dell’informazione. Il tribunale di Parigi ha così accolto le ragioni di France Television, condannando Playmedia ad un risarcimento di un milione di euro.