Corte di giustizia dell’Unione europea, 9 marzo 2017, causa C-398/15, Camera di Commercio c. Manni
Nei quaderni di Malte Laurids Brigge, Rilke scrive che bisogna dimenticare i ricordi, quando sono troppi, perché solo così emergono quelli che devono tornare.
Ai suoi tempi, non esistevano internet gli archivi digitali. Questi non corrono il problema di dover sgomberare la memoria per lasciar posto all’essenziale: archiviano tutto, dando una priorità algoritmica alle informazioni che non è necessariamente fedele all’importanza e all’attualità dei contenuti.
Si riaccende così, giuridicamente, il diritto all’oblio, in uno spazio temporale che si appiattisce su un infinito oggi: in un mondo che non ha pressoché più una memoria selettiva e breve, gli archivi diventano luoghi del presente, le notizie sono disponibili ora come allora, i database, on line e off line, risultano facilmente consultabili.
Possono quindi meritare tutela dal ricordo fatti e dati risalenti nel tempo, in un bilanciamento caso per caso tra esigenze di riservatezza e/o di immagine da un lato e di informazione e/o espressione dall’altro. Ciò vale per quello strumento oggi fondamentale di informazione che è l’indicizzazione informatica delle notizie, come ha ritenuto la Corte nella ‟sentenza pilota” Google Spain e Google (C-131/12, 13 maggio 2014), ma vale anche per il mondo reale delle raccolte, virtuali e non, di dati.
È quanto emerge dalla pronuncia Camera di commercio c. Manni della Corte di giustizia europea (causa C-398-15, 9 marzo 2017), che, a tre anni da quella sentenza, ha precisato e chiarito la portata di un diritto non nuovo, ma rinnovato dalle possibilità tecnologiche attuali.
Già a metà degli anni Ottanta, prima che il problema fosse il mantenimento di notizie e dati non più attuali, il diritto all’oblio era infatti stato estrapolato da quello alla riservatezza/immagine come riconoscimento della pretesa a non veder ripubblicate notizie inerenti vicende e fatti passati, che il decorso del tempo non rendeva più di interesse pubblico. Si tratta dunque di un diritto già presente ma silente, che si è fatto più perentorio allorché la modalità di pubblicazione, archiviazione e digitalizzazione delle notizie e dei dati, praticamente sempre disponibili, ha reso concreto il conflitto tra le ragioni di essere dimenticati e quelle di essere informati. Non è più, quindi, l’episodio di un fatto o un dato che può tornare notizia, ma è la costante di un fatto o un dato che restano notizia solo perché è facile conservarne memoria pubblica.
Il caso Manni sembra meno innovativo nei fatti e di conseguenza anche nelle conclusioni di diritto, rispetto al caso Google Spain.
La sentenza risponde a un rinvio pregiudiziale della Corte di Cassazione italiana sull’interpretazione dell’art. 3 della direttiva 68/151/CEE del 9 marzo 1968 e suoi aggiornamenti, che ha uniformato le garanzie richieste negli Stati membri alle imprese in forma societaria, a tutela dei soci e dei terzi. Una direttiva abrogata da successivi interventi legislativi ma in vigore all’epoca dei fatti, che impegna gli Stati, tra le altre cose, a tenere un registro pubblico delle imprese da cui poter rintracciare una serie di informazioni utili a disposizione della collettività.
Il processo da cui muove il rinvio riguarda un ricorso proposto nel 2007 dall’amministratore unico di una società edile a responsabilità limitata, Manni appunto, che citava in giudizio la Camera di commercio di Lecce per la condanna alla cancellazione, anonimizzazione o blocco dei dati che collegano il ricorrente al fallimento di una precedente società. Secondo il ricorrente, infatti, le difficoltà riscontrate dalla sua nuova società nel vendere immobili derivavano dalla notizia del fallimento nel 1992 di una sua precedente attività, notizia ancora ricavabile dal registro delle imprese e utilizzata da una società specializzata nella raccolta e elaborazione di informazioni di mercato e nella valutazione del rischio.
La Corte di Cassazione, a cui la Camera di commercio aveva fatto ricorso contro la condanna da parte dei giudici di prime cure, ha chiesto quindi alla Corte di giustizia se il sistema di pubblicità attuato con il registro delle imprese, laddove esige che chiunque, senza limiti di tempo, possa conoscere i dati relativi alle persone fisiche ivi risultanti, sia coerente con il principio per cui i dati personali vadano conservati per un arco di tempo non superiore a quello necessario al conseguimento delle finalità per cui sono rilevati e trattati o se, al contrario, la legislazione europea imponga che i dati siano disponibili solo per un tempo limitato o nei confronti di destinatari determinati, in base a una valutazione casistica affidata al gestore del dato.
In altri termini, il giudice del rinvio chiede se l’art. 3 della direttiva 68/151 – secondo cui i dati di una società devono essere trascritti in ogni Stato in un registro accessibile – e l’art. 6 , par. 1, lett. e) della direttiva 95/46 – secondo cui i dati personali sono conservati in modo da consentire l’identificazione delle persone interessate per un arco di tempo non superiore a quello necessario al conseguimento delle finalità per le quali sono rilevati o sono successivamente trattati – devono essere interpretati, alla luce degli articoli 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nel senso che gli Stati membri possono, o addirittura devono, consentire alle persone fisiche che sono state membri degli organi societari e ai liquidatori di chiedere all’autorità incaricata della tenuta del registro delle imprese, decorso un certo periodo di tempo dopo lo scioglimento della società interessata e in base ad una valutazione da compresi caso per caso, la limitazione all’accesso ai dati personali iscritti in tale registro, non necessariamente elettronico, che le riguardano.
La Corte quindi è investita di un quesito che, seppur attinente al diritto all’oblio già rispolverato nella sua accezione digitale con la sentenza Google Spain, amplia gli orizzonti di tale diritto all’ambito della tenuta dei dati in un registro pubblico, riportandolo dal mondo virtuale anche a quello reale. Da un lato, quindi, si profila il principio di pubblicità dei registri delle imprese, riconosciuto a partire dalla direttiva 68/151, dall’altro, il diritto di chiedere la cancellazione o il congelamento dei dati ai sensi degli artt. 6 e 14 della direttiva 95/46.
Come riconosciuto dalla Corte fin dagli anni ’70, la direttiva 68/151 fornisce «una garanzia giuridica per le relazioni tra la società ed i terzi, in previsione di un incremento degli scambi commerciali fra gli Stati membri in seguito all’istituzione del mercato comune» (Haaga GmbH, C-32/74, 12 novembre 1974). Il bene tutelato dal registro delle imprese è la certezza dei rapporti giuridici, in particolare a tutela dei creditori, a beneficio della correttezza e agilità delle transazioni commerciali, e quindi del buon funzionamento degli scambi giuridici e economici. Pertanto, «la memorizzazione di dati nel registro delle imprese, in ottemperanza ad un obbligo legale in tal senso, costituisce un’attività svolta nell’interesse generale della certezza del diritto», come di recente ribadito nella sentenza Compass-Datenbank (C-138/11, 12 luglio 2012), dal momento che è finalizzato a tracciare il quadro completo della vita di un’impresa, a beneficio di chi abbia bisogno di conoscerne la storia. Ciò vale anche per le imprese cessate, o perché i rapporti pregressi non si sono ancora esauriti, o perché, nell’ambito di rapporti nuovi, si voglia avere informazioni sull’attendibilità delle persone fisiche attraverso una ricognizione della loro attività in precedenti società.
La pretesa di non dare più notizia di dati risalenti nel tempo si scontra quindi con il diritto ancora attuale all’informazione, cui sottosta l’esercizio di quello che è il potere pubblico di raccolta dati relativi a un’impresa.
Sembra qui di poter leggere una ragionevole presunzione della Corte, condivisa con l’Avvocato generale, per cui l’impegno nella vita economica implica la sua esposizione a esigenze di trasparenza: notizie e dati riguardanti l’attività economica di un soggetto sono meritevoli di essere conosciuti anche a distanza di tempo poiché la loro conoscibilità è strumentale a transazioni giuridiche e economiche corrette e stabili.
Tuttavia, la concordanza tra le conclusioni dell’Avvocato generale e la Corte non è piena. Per il primo, infatti, la consapevolezza che lo svolgimento di un’attività economica implichi un’esigenza «permanente» di trasparenza vale a far ritenere che non si possa poi invocare l’oblio, davanti all’esigenza di informazione dei terzi. È proprio per la natura dei dati contenuti nel registro delle imprese, per la finalità del sottostante trattamento e per una sorta di ‟accettazione” implicita dei ‟rischi” connessi alla trasparenza di questi dati che l’Avvocato nega la sussistenza di un autonomo diritto all’oblio.
La Corte accoglie l’interpretazione dell’Avvocato, ma alla fine apre alla possibilità di circostanze eccezionali. A suo giudizio, alla luce della diversità degli scenari possibili e della eterogeneità dei termini di prescrizione nei diversi Stati membri, «risulta impossibile identificare un termine univoco, a far data dallo scioglimento di una società, allo spirare del quale non sarebbe più necessaria l’iscrizione nel registro e la pubblicità dei dati citati. In tali circostanze, gli Stati membri […] non sono tenuti a garantire alle persone fisiche che hanno ricoperto ruoli dirigenziali nelle imprese, decorso un certo periodo di tempo dallo scioglimento di queste, la cancellazione dei dati personali che le riguardano iscritti nel registro o il congelamento nei confronti del pubblico.» Non si può tuttavia escludere, dice la Corte, «che possano sussistere situazioni particolari in cui ragioni preminenti e legittime connesse al caso concreto della persona interessata giustifichino, in via eccezionale, che l’accesso ai dati personali ad essa relativi iscritti nel registro sia limitato, decorso un periodo di tempo sufficientemente lungo dopo lo scioglimento della società di cui trattasi, ai terzi che dimostrino un interesse specifico alla loro consultazione.»
È un uso litotico del ragionare, quello della Corte, che finisce comunque per ampliare la portata di un autonomo diritto all’oblio opponibile al trattamento lecito di dati. Negando in via di principio la sussistenza di tale diritto nel caso di trattamento dei dati contenuti nel registro delle imprese, essa affida alle autorità nazionali la possibilità di ribaltare eccezionalmente la regola. Rimette infatti alle autorità nazionali che tengono i registri delle imprese la scelta di determinare il prevalere dell’interesse alla conoscenza dei dati, o di taluni dati, o piuttosto della pretesa a che essi siano ‟dimenticati” (cancellati, congelati o limitati ad alcune categorie di interessati), valutando, caso per caso, l’eccezionalità della situazione che possa giustificare l’‟oblio”, «per ragioni preminenti e legittime connesse alla loro situazione particolare, decorso un periodo di tempo sufficientemente lungo dopo lo scioglimento della società interessata».
La sentenza può quindi quindi solo a una prima lettura poco rilevante, almeno rispetto alla precedente Google Spain. Stavolta, infatti, non è in discussione un autonomo digital right to privacy (che là, per giunta, viene riconosciuto come regola generale), ma più tradizionalmente è in discussione il bilanciamento tra l’attuale interesse alla conoscenza di un dato lecitamente trattato e il pregiudizio all’immagine e/o riservatezza derivante dal trattamento di quel dato.
Ciò non toglie che le conclusioni della sentenza si aprano a conseguenze importanti.
Nel dichiarare, infatti, che non esiste diritto all’oblio per i dati personali contenuti nel registro delle imprese, si riconosce comunque la possibilità che, in via eccezionale, il trascorrere del tempo possa consentire la limitazione dell’accesso a tali dati, in presenza di circostanze eccezionali.
Ponendo un tassello in più nella costruzione del diritto all’oblio, sembra importante quale considerazione dia la Corte del tempo nelle vicende economiche.
Il decorso del tempo determina essenziali differenze tra le ragioni giuridiche e quelle economiche (si pensi all’usucapione o alla prescrizione), motivate dalla necessità di garantire certezza ai titoli giuridici e agli scambi economici. Questa volta, invece, è proprio quest’ultima a sembrare di poter essere sacrificata, per quanto in via eccezionale, dal trascorrere del tempo. La trasparenza a tempo indefinito dei dati societari serve a garantire la certezza del diritto nelle relazioni tra le società e i terzi e a tutelare, in particolare, gli interessi dei terzi rispetto alle società che offrono come unica garanzia il proprio patrimonio sociale. Tali esigenze di certezza e di conoscenza possono esistere anche molti anni dopo che la società ha smesso di esistere, a beneficio sia di chi ha avuto con essa rapporti che possono ancora essere vantati, sia di chi, ex novo, voglia conoscerne le vicende, ad esempio perché voglia documentarsi sulle attività svolte dalle persone fisiche che ne hanno ricoperto ruoli dirigenziali. È quella certezza che, stavolta, seppur in via eccezionale, la Corte ritiene che possa essere sacrificata, con l’effetto di riconoscere comunque, per quanto in via interstiziale, un’autonoma rilevanza del diritto all’oblio di dati attinenti alle attività economiche.
Sarà, ancora una volta, il tempo e l’esperienza dei casi concreti a definire quali possano essere queste circostanze particolari. Il trattamento dei dati per la tenuta dei registri delle imprese sembra infatti rientrare, considerando la giurisprudenza sopra richiamata, tra gli adempimenti «di un obbligo legale che richieda il trattamento previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento o per l’esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse oppure nell’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento», oltre che «a fini di archiviazione nel pubblico interesse». Condizioni, queste, che ai sensi del nuovo regolamento sul trattamento dei dati personali non consentono di chiedere il diritto alla cancellazione ( regolamento (UE) 2016/679, art. 17, comma 3).
Resta significativa, intanto, l’attività della Corte di scoperta e attualizzazione di diritti, o di loro manifestazioni, che erano rimasti, come nel caso dell’oblio, negli angoli dell’ordinamento, e che riaffiorano tramite l’esegesi dei giudici, nella costante opera di adeguamento del diritto alla realtà.