1. Il caso
Lo scorso 3 gennaio, la Federal Trade Commission ha annunciato l’intenzione di non procedere in sede giudiziaria contro Google, riconoscendo la liceità delle sue pratiche in materia di ricerca online. In particolare, sotto la lente del regolatore americano era finito il meccanismo dell’Universal Search: dal 2007, Google affianca ai risultati “organici” della ricerca orizzontale contenuti tratti dai suoi servizi verticali, che spesso forniscono una risposta più immediata e pertinente alla query.
I concorrenti ritengono che quest’innovazione abbia avuto l’effetto di sottrarre visibilità ai loro servizi, facendoli scivolare nella fascia inferiore della schermata; con tale condotta, inoltre, Google avrebbe illegittimamente favorito i propri servizi verticali, a scapito di quelli degli altri operatori. Secondo la FTC, al contrario, «tutta l’evidenza indica che Google ha introdotto i cambiamenti esaminati principalmente per migliorare la qualità dei propri risultati e che ogni impatto negativo per i concorrenti effettivi o potenziali è da ritenersi casuale».
Su due diversi fronti, Google si è impegnata volontariamente. Da un lato, l’azienda garantirà ai concorrenti la possibilità di sottrarsi, con un sistema di opt-out, allo scraping dei propri contenuti – cioè al loro utilizzo proprio nell’ambito dei servizi verticali – senza che ciò determini la fuoruscita anche dalla ricerca orizzontale; dall’altro, Mountain View ha annunciato la possibilità di esportare i propri dati dal servizio AdWords, di fatto introducendo la portabilità delle campagne pubblicitarie.
Infine, l’indagine ha coinvolto un ultimo profilo, particolarmente rilevante nel mercato mobile: l’utilizzo delle ingiunzioni per inibire ai concorrenti l’utilizzo dei brevetti standard-essential: quelli, cioè, che stanno alla base di tecnologie indispensabili al rispetto degli standard tecnici e che, per tale ragione, dovrebbero essere concessi in licenza a condizioni non discriminatorie.
2. Obiezioni alla teoria del search bias
La FTC ha, dunque, escluso che Google alterasse a proprio beneficio i risultati della ricerca. L’idea stessa che i risultati di una ricerca possano essere “manipolati” è – a ben vedere – bizzarra, perché implica che si possano enunciare, per ciascuna query, la serie completa dei risultati a essa associati e il loro corretto ordinamento. Quest’operazione non potrebbe mai essere svolta sulla base di un astratto criterio di ragionevolezza, perché non esistono risultati “naturali”, ma solo risultati variamente rilevanti e sempre bisognosi di adeguamento alle circostanze concrete.
Ma nemmeno si potrebbe parlare di risultati “naturali” rispetto all’algoritmo, quasi che questo fosse una sorta di tavola della legge, intangibile e immutabile. In realtà, la “formula” di un motore di ricerca viene continuamente ritoccata per riuscire a proporre risultati sempre più pertinenti: dunque, la manipolazione è, per così dire, in re ipsa.
Altrettanto artificiosa appare la categoria dei risultati “organici”: non si spiega perché spetterebbe al regolatore definire le caratteristiche del prodotto della ricerca come una mera elencazione ordinata di link, quando appare evidente, al contrario, che i consumatori beneficino dell’arricchimento dei contenuti con notizie, immagini, video e persino informazioni commerciali.
3. Obiezioni alla teoria della posizione dominante
Particolarmente delicata è, poi, l’analisi della posizione dominante. In primo luogo, ci si deve interrogare sulla corretta definizione del mercato rilevante. Davvero i soli concorrenti di Google sono gli altri motori di ricerca? Questa pare una rappresentazione troppo angusta. Se prestiamo attenzione all’evoluzione dei modelli industriali, dobbiamo riconoscere che Google compete con social network e app mobili – nonché, in nome della convergenza, con i media tradizionali – in due ambiti: 1) nel fornire risposte alle ricerche degli utenti; 2) nel sottoporre a questi ultimi le inserzioni più affini ai loro interessi. Basti pensare alla nuova Graph Search di Facebook.
Questo ci ricorda come la regolamentazione pro-competitiva dei mercati dell’innovazione sconti l’incapacità delle autorità pubbliche di reggere il ritmo dei mutamenti delle strutture economiche sottostanti. Ma da ciò deriva anche l’inadeguatezza delle categorie concettuali tradizionali per descrivere il contesto concorrenziale: se, in una prospettiva statica, le quote di mercato di Google nel campo della ricerca garantiscono una posizione dominante, da un punto di vista dinamico, esse sono contendibili. A fortiori perché, nel campo della ricerca, la concorrenza si trova realmente a un clic di distanza, in virtù dell’assenza di rilevanti effetti di lock-in. Il preteso monopolista potrà contare solo sulla qualità del servizio e sulla capacità d’innovare.
4. La lezione per l’Europa
Un’indagine analoga a quella chiusa dalla FTC è attualmente in corso in Europa: nel maggio 2012, la Commissione ha delineato quattro ambiti in cui le pratiche commerciali di Google potrebbero dar adito a condotte anticompetitive: 1) il trattamento preferenziale riservato ai propri servizi verticali, a discapito di quelli dei concorrenti; 2) l’utilizzo di contenuti prelevati dai servizi di tali concorrenti, in mancanza di una loro autorizzazione preventiva; 3) la portabilità dei contenuti relativi alle campagne pubblicitarie realizzate attraverso il servizio Google Adwords; 4) l’inclusione di requisiti di esclusività negli accordi stipulati con i siti partner che esibiscono le inserzioni servite da Google.
Come si vede, i primi tre elementi coincidono esattamente con quelli esaminati dalla FTC. Tuttavia, le dichiarazioni (anche recenti) del Commissario Almunia lasciano presagire un esito assai diverso. In primo luogo, differisce lo stato di avanzamento delle procedure: entro la fine di gennaio, Google dovrà presentare alla Commissione degli impegni vincolanti; ed è sul terreno dell’adeguatezza di questi che il confronto tra l’azienda e le autorità si è già spostato: con la conseguenza che l’impossibilità di raggiungere un accordo tempestivo e soddisfacente, attiverà pressoché automaticamente un provvedimento sanzionatorio. Non pare esserci spazio, a questo punto, per una retromarcia.
Tale discrepanza si spiega innanzitutto con considerazioni di natura istituzionale. Nel modello comunitario di diritto della concorrenza, il vaglio giurisdizionale è successivo e solo eventuale, cosicché spetta immediatamente alla Commissione disporre le sanzioni e i rimedi ritenuti congrui, al termine di un procedimento amministrativo, e salva la possibilità per l’azienda destinataria di appellare il provvedimento innanzi al Tribunale dell’Unione Europea nonché, ove necessario, in secondo grado, alla Corte di Giustizia. (Questo modello è diffuso anche negli stati membri, ove, però, si combina tipicamente con l’assegnazione delle competenze antitrust a un’agenzia indipendente.)
Nel modello americano, al contrario, la FTC (e il Department of Justice, che pure dispone di competenze in materia di concorrenza) non godono generalmente di una diretta potestà sanzionatoria o d’imposizione di rimedi, dovendo invece citare in giudizio le imprese ritenute responsabili di condotte punibili ed sottoporre i propri argomenti a un giudice terzo nell’ambito di un procedimento giurisdizionale; si tratta di una soluzione che pare più rispettosa dei principi dello stato di diritto e che, per quanto qui più interessa, tende a disincentivare le azioni temerarie.
Strettamente connessa alle questioni istituzionali è una distanza ideologica sulla portata generale della tutela della concorrenza: nel contesto statunitense, la disciplina antitrust viene declinata alla luce del fondamentale criterio del benessere dei consumatori, e si tende così a richiedere la dimostrazione di un danno attuale e concreto, prima di poter addivenire a un intervento risolutivo; nel vecchio continente, è la salute dei concorrenti ad essere considerata un’immediata fonte di benefici per gli utenti: il che ha giustificato provvedimenti esemplari anche a fronte di analisi poco ponderate degli effetti sul mercato.
La speranza, pur flebile, è che le puntuali considerazioni della FTC facciano breccia anche a Bruxelles: è, infatti, fondamentale per la competitività europea ristabilire un corretto equilibrio tra tutela del mercato e tutela del consumatore, scoraggiando i fenomeni di rent-seeking; e proprio nei mercati innovativi questo ripensamento dei fondamenti del diritto antitrust potrebbe trovare terreno fertile.
[Questo post rielabora alcune delle considerazioni svolte nel mio Focus “Google e FTC: nessun risultato trovato“, disponibile sul sito dell’Istituto Bruno Leoni.]
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