Il presente articolo è stato pubblicato su La Domenica de Il Sole 24 Ore del 9 giugno 2013
Se ti rubano la vecchia e cara bicicletta, che con tanta curaavevi legato a un alto palo della luce, l’ordinamento si incarica di punire severamente il colpevole. È, infatti, da uno a sei anni, oltre alla multa, la pena per il furto con violenza sulle cose. E accade di frequente che ladri di biciclette vadano in carcere, senza che ciò provochi particolari reazioni nell’opinione pubblica. Solo al cinema invero, nel gran film di De Sica, ci si è commossi nel veder uno di loro evitare la galera, grazie alle lacrime di un bambino.
La stessa pena, da uno a sei anni, è prevista per chi diffama con il mezzo della stampa, attribuendo un fatto determinato. Nell’ottica della persona offesa, la sanzione non sembra esagerata, anzi: senza dire con l’Otello «ho perduto la reputazione […] la parte immortale di me stesso e ciò che rimane è bestiale», l’onore val ben una bicicletta.
Il “castigo” è severo ma, sono rarissimi i casi di giornalistipassati per il carcere e alti i lamenti quando ciò accade.
Si cita sempre che Giovannino Guareschi trascorse più di un anno in prigione, senza mai chiedere la grazia, a causa di due sentenze: la prima nel 1950, per aver pubblicato una vignetta sul Presidente Einaudi, ritenuta lesiva dell’onore dell’istituzione, la seconda nel 1954, peraltro mai appellata, per aver diffamato De Gasperi.
Molto ricordate sono anche le vicende giudiziarie di LinoJannuzzi. Alla fine degli anni sessanta, fu condannato insieme a Eugenio Scalfari a più di un anno di reclusione, per diffamazione del generale De Lorenzo, a seguitodell’inchiesta de L’Espresso, ove fu svelata l’esistenza del “Piano Solo”; i due giornalisti furono salvati dal carcere grazie all’elezione nelle file dei socialisti alle politiche del 1968. Un quarto di secolo più tardi, Jannuzzi fu di nuovocondannato a due anni e cinque mesi per il medesimo reato e, eletto parlamentare nel 2001, non entrò in prigionema scontò parte della pena ai domiciliari, sino alla grazia.
Non molti altri giornalisti in età repubblicana hannovarcato la soglia delle patrie galere per reati a mezzo stampa; l’ultimo risulterebbe essere il direttore di un periodico campano, detenuto per più di un mese nel 2010.
Miglior sorte ebbe nel 2012 Alessandro Sallusti,condannato a un anno e due mesi per aver concorso adiffamare un magistrato torinese, senza condizionale in ragione della gravità del fatto e dei precedenti penali dello stesso. La pena detentiva fu infatti commutata in multa dalPresidente della Repubblica, dopo che il giornalista aveva trascorso alcuni giorni in detenzione domiciliare.
Merita, infine, un cenno la paradossale storia del giornalista Stefano Surace, espatriato in Francia alla fine degli anni sessanta e condannato poi in contumacia a più di due anni per tre articoli scritti quando ancora viveva in Italia; Surace rientrò in patria trent’anni dopo, ignaro di processi e sentenze, fu arrestato ormai anziano alla vigilia di Natale del 2001 e restò carcere per vari mesi, sino aquando gli fu concesso di scontare la pena a casa.
Dunque, se questi dati sono corretti, di giornalisti in carcere ce n’è uno ogni dieci anni. Com’è possibile, con una pena così alta? La spiegazione sul piano tecnico sta nella possibilità per il giudice di bilanciare l’aggravante che prevede la detenzione fino a sei anni con le attenuanti generiche. In esito a tale operazione rimane solo il reato “base”, che prevede la pena alternativa: detenzione o multa. Tra le due il giudice pressoché sempre sceglie laseconda.
Ma la ragione forse più profonda è che il carcere non corrisponde da tempo alla sanzione socialmente ritenuta “giusta” per i reati di stampa e così la giurisprudenza si èincaricata di espellerlo dalle pene concretamente inflitte.Due corollari: le condanne alla reclusione sono davvero straordinarie, ma la legge le consente e nulla vieta che un giudice si discosti dall’orientamento più comune, come è accaduto di recente in un processo nei confronti di alcuni giornalisti di Panorama.
Così, dopo il gran baccano suscitato dal “caso Sallusti” e uno sciagurato tentativo di riforma della materia, scongiurato all’ultimo momento, è di qualche giorno fal’annuncio che la Commissione Giustizia della Camera si occuperà a breve del tema.
In questa prospettiva, ci pare essenziale porre un paio di domande: è davvero necessaria (o almeno opportuna) una riforma? E in questo caso, in che direzione?
Confessiamo una profonda sfiducia nei confronti di unlegislatore troppo spesso “sciatto e distratto”: negli ultimi venticinque anni, quando ha messo mano al diritto dell’informazione ha sempre reso le norme più oscure di quanto non fossero.
Tuttavia, non ci si può nascondere che l’attuale leggeabbia più di un problema. Non ultimo, una pena detentiva generalizzata e troppo elevata. Affermare, però, un po’ semplicisticamente, che bisogna escludere tout court il carcere per i giornalisti non pare coerente con il sistema,che lo prevede per fatti meno gravi.
La libertà di manifestazione del pensiero è certo un dirittofondamentale, ma lo è anche la reputazione, del resto. La chiave per trovare un buon equilibrio è nella presenza di un interesse generale che fatti e idee si diffondano il più possibile, consentendo di «conoscere per deliberare».
E allora l’ordinamento deve consentire al giornalista di sbagliare. In altri termini, le sanzioni non debbono essere di un rigore tale da indurre il giornalista a limitarsi troppo per timore di incorrervi, rinunciando così a dare una notizia o a esprimere un’idea.
In questa prospettiva, la pena detentiva dovrebbe essere limitata soltanto a chi, conscio di avere diffuso una notizia falsa, non l’ha rettificata, a chi ha pubblicato con lo scopo di screditare e ai diffamatori seriali. Nei casi di minore gravità, invece, sembra più corretto prevedere “solo” una multa, oltre ovviamente al risarcimento.
Altri interventi sono possibili; ad esempio un beneficio effettivo alla libera stampa potrebbe venire dallaapplicazione anche ai casi di diffamazione di un banale principio giuridico: chi soccombe paga le spese legali. Oggi, infatti, per un meccanismo comprensibile solo dai più esperti processualisti, ciò non accade a chi querela un giornalista, anche qualora il giudice ritenga che l’imputato abbia correttamente esercitato il suo diritto di informare.Modificare questa regola imporrebbe maggior prudenza a “querelanti abituali” e a chi è troppo sensibile alle critiche altrui.
Insomma, la reputazione è una cosa seria, almeno quanto la libertà di espressione, e, come per tutte le questioni serie, ci vuole un legislatore equilibrato. E a noi sembrerebbe saggio un Parlamento che preveda come regola la pena pecuniaria, in quanto l’interesse a essere informati suggerisce di non intimidire i giornalisti, ma non cancelli del tutto quella detentiva, limitandola ai casi più gravi di denigrazione consapevole.