“Un’Europa adatta all’era digitale” è a questo auspicio che la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha ispirato il suo mandato istituzionale. Un obiettivo che è più di un augurio e che sembra lentamente prendere forma. Anche la Commissaria alla Concorrenza, Margrethe Vestager, ha manifestato il suo impegno in tal senso: «diremo alle grandi piattaforme che le cose cambieranno» – ha tuonato dinanzi al Parlamento UE.
Si tratta di una svolta – probabilmente – concreta con cui l’Unione punta a regolare il complicato e mutevole mondo del web. Digital Service Act, insieme al gemello Digital Market Act, fanno comprendere come si intenda passare dalle parole ai fatti.
Certo gli ambiti da normare sono i più svariati se si considera che temi di rilevanza strategica per l’economia siano ancora affidati alla datata direttiva e-commerce del 2000.
Hate speech, disinformazione, ma anche concorrenza sleale e raccolta pubblicitaria sono aspetti che introducono la macro “questione” per eccellenza: la regolamentazione delle piattaforme online.
Ricordo che, già nel 2016, la Commissione aveva preso posizione, respingendo l’idea di una nuova legge generale sulle piattaforme online ed escludendo di modificare il regime di responsabilità stabilito dalla direttiva sul commercio elettronico. Si era così avallato quel pericoloso laissez-faire, magistralmente sfruttato dalle piattaforme, poi arginato e, gradualmente sostituito, con l’incentivazione, proveniente dalle stesse Istituzioni europee, verso sistemi di autoregolamentazione.
La necessità di affrontare problemi specifici individuati sul mercato ha richiesto però un impegno maggiore; sono così state adottate talune disposizioni: dalle norme sulla responsabilità delle piattaforme di condivisione di contenuti online protetti da copyright nella direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale, alle nuove regole per controllare i video sull’incitamento all’odio e la protezione dei minori nella nuova direttiva sui servizi multimediali audiovisivi, fino alla proposta di un regolamento sulla rimozione dei contenuti terroristici online.
Ciononostante, le principali norme europee sui servizi digitali sono rimaste sostanzialmente invariate dall’attuazione della direttiva di venti anni fa. Ecco perché l’adozione del DSA resta un intervento molto atteso con cui finalmente l’Unione pone, nero su bianco, l’obiettivo di plasmare l’economia digitale e definire le norme a livello sovranazionale, un po’ come già avvenuto, attraverso il GDPR, in materia di privacy.
In tal senso, non si può non sottolineare come i dati siano, sì capaci di incidere sui diritti fondamentali del singolo, ma costituiscano la linfa vitale dello sviluppo economico. Secondo fonti riportate dalla Commissione, il volume di essi prodotti a livello mondiale è in rapida crescita (dai 33 zettabyte del 2018 ai 175 zettabyte previsti nel 2025).
Ecco il vero nodo della questione. Se infatti vi è un generale consenso circa la tutela dei diritti umani, è sul versante economico che la partita è sempre aperta, oscillando tra due estremi: imbrigliare il “potere” delle piattaforme di controllo del flusso delle informazioni oppure affidarsi all’autoregolamentazione. Nulla di nuovo, si potrebbe concludere. Già negli anni ’60 dello scorso secolo, un simile dibattito interessò il sistema radiotelevisivo e sfociò con l’imposizione di oneri a carico delle tv.
Da più parti è stato sollevato il dubbio che l’inarrestabile sviluppo delle piattaforme sia dovuto proprio alla mancanza di un quadro regolamentare in grado di porre freno ai comportamenti opportunistici di questi nuovi giganti digitali. Si tratta dell’esigenza di garantire quel tanto agognato level playing field sempre richiamato quando si confrontano le nuove piattaforme con quelle tradizionali. Si deve però chiarire un preliminare aspetto. In questo caso è difficile parlare di parità delle regole dal momento che i “giochi” appaiono diversi.
Seguendo tale ragionamento, allora il mezzo Internet non consente di replicare pienamente quanto avvenuto in passato, seppur sia innegabile come i nuovi strumenti di comunicazione, quali moderni Giano bifronte, si qualifichino da un lato mezzi volti a veicolare contenuti, dall’altro intervengano, mediante sofisticati strumenti tecnologici, per fornire ad esempio prodotti o pagine informative. Considerazioni queste ultime che rafforzano l’idea di un progressivo cambiamento delle piattaforme in veri e propri media.
In tal senso, quindi, rinnegare un approccio “interventistico” rischierebbe di ingessare pericolosamente la situazione attuale, rappresentando anzi uno strumento di consolidamento delle posizioni di primazia degli operatori ormai leader del settore online.
Ovviamente, in questo contesto, le difficoltà sono immani. Ragionare su quali oneri destinare alle piattaforme, inevitabilmente rischia di provocare una riduzione dei soggetti del mercato. Se obblighi particolarmente complessi possono essere portati avanti solo da colossi del web, allora il risultato sarebbe quello di impoverire l’accesso al mercato da parte di aziende di più modeste dimensioni, imponendo insormontabili barriere all’ingresso.
Per altro verso, pur seguendo un diverso approccio, si rilevano comunque alcune criticità. Si pensi all’imposizione di un obbligo di controllo del flusso di informazioni online a carico delle piattaforme. Un’attività questa quasi impossibile in un ambiente pervaso da migliaia di operatori in concorrenza tra loro, senza considerare poi che agire in tal modo significherebbe lasciare ai grandi giganti del web il temuto compito di “giudicante”, operando una pericolosa delega di funzioni statali.
Nel contempo però assumere un atteggiamento fatalistico e sperare che i mercati abbiano in sé gli anticorpi per reagire a queste situazioni non può essere una soluzione – e di questo anche le istituzioni europee ne sono consapevoli.
Come agire? Le opzioni sembrano ridursi: imporre obblighi aggiuntivi per le piattaforme con “status di mercato significativo”, tipico dell’approccio antitrust, oppure delineare una via differente, forse spregiudicata. Assunta l’estrema difficoltà di imporre norme cogenti agli OTT, una soluzione per realizzare il tanto agognato level playing field non potrebbe essere quello di arrivare ad una Flat Regulation: poche regole, semplici e uguali per tutti?
Vero è che l’equilibrio tra il progresso digitale e il rispetto dei diritti fondamentali non è operazione semplice, ma altrettanto necessario è non cercare pervicacemente di arrestare il cambiamento in atto. Del resto, è assolutamente prioritario trovare un compromesso: imporre degli oneri eccessivi alle aziende ha sempre come contropartita quella di limitare la capacità innovativa del settore in questione.
Probabilmente affannarsi nel cercare il rimedio non è l’approccio ottimale; piuttosto è necessario sforzarsi di trovare l’equilibrio tra interessi ed esigenze spesso contrapposti: sarà esso che porterà alla soluzione.
L’ottica allora potrebbe essere quella di cercare una concreta convergenza delle regolamentazioni. Ciò non significa non intervenire ad esempio sul processo dei dati e sul “monopolio” dei ricavi pubblicitari da parte delle grandi piattaforme online, ma più semplicemente agire in modo che a servizi analoghi corrisponda la medesima regolamentazione, magari rimodulando il set di norme.
D’altronde, lungi pensare ad avallare il far web, l’“operare senza regole è il più faticoso e difficile mestiere di questo mondo” (A. Manzoni).
* L’Autore è docente di Diritto delle comunicazioni presso l’Università IULM