Due casi di pubblicità comparativa sono stati oggetto di recenti pronunce da parte del giudice di merito e del Giurì dell’autodisciplina.
Il primo caso, in relazione al quale, il 9 dicembre 2011, si è pronunciato il Tribunale di Torino ha visto come parti in causa L’Oreal in qualità di attrice e Johnson & Johnson, in qualità di convenuto.
L’oggetto della lite è costituito da una pubblicità di un prodotto antirughe contraddistinto da un marchio di titolarità di Johnson & Johnson in cui si affermava che questo fosse “sino a tre volte più efficace” di alcuni prodotti per la cura del viso, fra i quali uno di titolarità di L’Oreal.
L’Oreal aveva già ottenuto dal Giurì dell’autodisciplina pubblicitaria una pronuncia favorevole che inibiva la diffusione della pubblicità, in quanto – effettuando una comparazione tra prodotti non omogenei e privi delle medesime caratteristiche – era stata ritenuta contraria al codice di autodisciplina.
A tal proposito giova ricordare che l’articolo 15 del codice di autodisciplina della comunicazione commerciale prevede che la comparazione sia consentita a condizione che risulti utile a illustrare “caratteristiche e vantaggi dei beni e servizi (…), ponendo a confronto obiettivamente caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili tecnicamente e rappresentative di beni e servizi concorrenti, che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi.” Lo stesso articolo prosegue prevedendo che la comparazione debba essere “leale e non ingannevole, non deve ingenerare rischi di confusione, né causare discredito o denigrazione. Non deve trarre indebitamente vantaggio dalla notorietà altrui”.
Allo stesso modo, ai sensi dell’articolo 22 del Codice del Consumo (D. Lgs. 206/2005) la pubblicità comparativa è considerata lecita, tra l’altro, se “confronta beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi[1]” e se “confronta oggettivamente una o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative, compreso eventualmente il prezzo, di tali beni e servizi”[2].
Proprio in ragione di tali previsioni, nel 2008, il procedimento cautelare promosso da L’Oreal si era risolto con una decisione del Tribunale di Torino che sanciva l’illiceità della pubblicità comparativa diffusa da Johnson & Johnson – attraverso il mezzo televisivo, internet e stampa – in quanto effettuava un confronto tra prodotti non omogenei e perchè la veridicità di quanto affermato non risultava adeguatamente dimostrato dai test effettuati.
In definitiva, i prodotti in questione risultano avere composizioni differenti e sono finalizzati al raggiungimento di diversi effetti.
Il giudice di merito, inoltre, ha ritenuto illegittima l’utilizzazione del marchio di L’Oreal nell’ambito di una campagna pubblicitaria ingannevole e denigratoria; tale condotta avrebbe inoltre prodotto “un effetto illecito ulteriore rispetto alla scorrettezza in sé della campagna pubblicitaria”.
Proprio per tale ragione il Tribunale di Torino, confermando l’illiceità della pubblicità comparativa e l’inibitoria, ha stabilito un risarcimento in favore di L’Oreal – a titolo di lucro cessante – non calcolato sulla base del decremento delle vendite del prodotto a marchio L’Oreal bensì commisurato al 50% dell’incremento di fatturato realizzato da Johnson & Johnson nei due mesi successivi alla diffusione della campagna pubblicitaria oggetto della lite.
L’entità del risarcimento è stata valutata sulla base dell’articolo 125 del Codice della Proprietà Industriale il quale prevede che il lucro cessante sia “valutato dal giudice anche tenendo conto degli utili realizzati in violazione dei diritto e dei compensi che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare qualora avesse ottenuto licenza dal titolare del diritto”.
È significativo, inoltre, che il giudice ritenendo la campagna pubblicitaria lesiva dell’immagine dell’azienda, abbia disposto a carico di Johnson & Johnson un risarcimento di duecentomila euro, oltre al rimborso di alcune costi sostenuti da L’Oreal al fine di difendere la credibilità del proprio marchio.
Il secondo caso di pubblicità comparativa vede contrapposte le società Barilla e Plasmon.
La disputa ha avuto ad oggetto una campagna pubblicitaria di Plasmon – pianificata su siti internet e sulla stampa -incentrata su una comparazione fra prodotti Plasmon e prodotti Barilla. In particolare, il messaggio riproduceva le fotografie di una linea di prodotti Barilla (i “Piccolini”) e di una linea di prodotti Plasmon (“Pasta per bambini”) accompagnata dalla scritta “Qual è la differenza?”; una tabella comparativa metteva in evidenza i valori numerici di alcune sostanze (pesticidi e micotossine) evidenziando la conformità dei prodotti Plasmon alle quantità richieste dalla normativa vigente e, al contrario, la presenza di taluni valori oltre la norma nei prodotti a marchio Barilla. Il messaggio si chiudeva con l’affermazione: “Plasmon da sempre ti dà il meglio per il tuo bambino”.
La questione è stata sottoposta sia dinanzi al Tribunale di Milano, sia dinanzi al Giurì dell’Autodisciplina.
È interessnte rilevare che la pronuncia del Giurì[3], del 20 dicembre 2011, pur ritenendo lecita la comparazione effettuata, ha giudicato comunque ingannevole e denigratoria la campagna di Plasmon.
La contestazione di Barilla si fondava su tre ordini di argomenti:
– i propri prodotti posti a confronto con quelli Plasmon non sarebbero destinati alla prima infanzia (e cioè alla fascia d’età compresa tra 0 e 3 anni). In questo senso la campagna risulterebbe in violazione dell’articolo 15 del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale[4];
– la pubblicità di Plasmon non specifica in modo chiaro che i valori delle sostanze indicate fossero infinitesimali, trattandosi di “μg/kg”, ossia di microgrammi per ciascun chilo. Ciò avrebbe prodotto un effetto denigratorio nei confronti di Barilla che sarebbe stata rappresentata come un’azienda non attenta alla saluta dei bambini;
– attraverso la campagna pubblicitaria Plasmon avrebbe goduto di un indebito vantaggio. Ciò in violazione dell’articolo 13 del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale, il quale vieta “qualsiasi sfruttamento del nome, del marchio, della notorietà e dell’immagine aziendale altrui, se inteso a trarre per sé un ingiustificato profitto”.
Plasmon, rivendicando la legittimità della propria campagna pubblicitaria ha articolato la propria difesa sostenendo che:
– Barilla tenderebbe a svilire la specializzazione degli alimenti per bambini, cercando di trasmettere il messaggio secondo il quale gli alimenti generici sarebbero sostituibili con quelli specifici per bambini di età inferiore ai 3 anni. Secondo Plasmon l’uso del marchio “Piccolini”, così come il claim utilizzato “A mangiar bene si comincia da Piccolini” sarebbero elementi idonei a creare confusione tra il nome del prodotto e la sua destinazione di consumo;
– i valori riportati sarebbero veritieri e in quanto tali non sarebbero idonei a procurare discredito a Barilla;
– alla luce della posizione di Plasmon nel segmento di mercato, sarebbe infondata la censura relativa al presunto agganciamento alla notorietà di Barilla. Il riferimento ai prodotti e al marchio del concorrente sarebbe stato esclusivamente funzionale a informare i consumatori delle differenze tra prodotti dedicati all’infanzia e prodotti generici (pubblicizzati come prodotti dedicati ai bambini).
Plasmon ha, inoltre, proposto una domanda riconvenzionale nei confronti di Barilla chiedendo al Giurì di dichiarare: i) l’illiceità di un comunicato pubblicato da Barilla, in cui si informano i consumatori della campagna di Plasmon – giudicata “eticamente inaccettabile” e che si conclude con il messaggio “Le mamme italiane sanno quello che fanno”; ii) l’illiceità del messaggio veicolato attraverso le confezioni dei “Piccolini” (“A mangiar bene si comincia da Piccolini”).
Riconoscendo una parziale sostituibilità tra i prodotti Plasmon e i prodotti Barilla, il Giurì ha affermato che non vi sarebbe disomogeneità tra i prodotti posti a confronto nella campagna pubblicitaria di Plasmon e che pertanto la stessa non risulta illegittima sotto questo aspetto. Come si vedrà, diversa è stata la posizione espressa dal Tribunale di Milano.
Il Giurì, acquisendo il dato normativo e cioè le previsioni di cui alla Direttiva 2006/125/EC, sugli alimenti a base di cereali e gli altri alimenti destinati ai lattanti e ai bambini, ha preso atto dei limiti imposti dalla legge e dunque della veridicità dei valori resi pubblici da Plasmon, peraltro non contestati da Barilla.
Ma in ciò risiede la parte più interessante della decisione del Giurì, il quale ritiene che la diffusione di risultanze scientifiche seppur veritiere e corrette, se non accompagnata da strumenti interpretativi idonei a trasmettere in modo chiaro il significato ai consumatori, rischia in ogni caso di risultare ingannevole.
Il messaggio pubblicitario, infatti, va valutato alla stregua dell’articolo 3 del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale, il quale prevede che terminologia, citazioni e menzioni di prove scientifiche debbano essere usate in modo appropriato. A ciò si aggiunga che il messaggio pubblicitario deve essere valutato in relazione all’effetto che provoca al momento della sua ricezione da parte del consumatore medio.
In conclusione, la campagna di Plasmon è stata ritenuta in contrasto con l’articolo 2 (comunicazione commerciale ingannevole) e con l’articolo 14 (denigrazione) del Codice di autodisciplina, in quanto diretta a comunicare che i prodotti Barilla siano potenzialmente nocivi per la salute dei bambini, da un lato omettendo di chiarire a quale classe di bambini si riferiscano i prodotti, dall’altro menzionando dei valori il cui significato se adeguatamente definito non avrebbe suggerito alcuna pericolosità dei prodotti in questione.
Il Giurì non ha invece ritenuto che Plasmon abbia illeggittimamente sfruttato la notorietà dei prodotti Barilla.
Con riferimento alla domanda riconvenzionale presentata da Plasmon, infine, il Giurì si è pronunciato nel senso di non ritenere ingannevole il nome – “Piccolini” – che contraddistingue la linea di prodotti di Barilla; mentre al contrario ha ritenuto ingannevole il claim “A mangiar bene si comincia da Piccolini”, nella misura in cui tale messaggio suggerisca l’idoneità dei prodotti ai fini dello svezzamento, e ne ha ordinato la cessazione.
La pronuncia del Tribunale di Milano – posteriore a quella del Giurì – conferma il provvedimento d’urgenza emesso il 3 dicembre 2011 con cui il Tribunale ha concesso l’inibitoria della campagna pubblicitaria di Plasmon (avente ad oggetto tanto la pasta, quanto i biscotti di entrambe le aziende[5]), per contrarietà all’articolo 4 del D. Lgs 145/2007[6] (condizioni di liceità della pubblicità comparativa) e all’articolo 2598 c.c. (atti di concorrenza sleale).
Il Giudice ha infatti ritenuto ingannevole il messaggio pubblicitario di Plasmon in quanto avrebbe posto in essere un confronto tra prodotti non omogenei. Come anticipato, il Tribunale di Milano, a differenza del Giurì, ha considerato inequivocabile la circostanza per cui la comparazione sarebbe stata operata tra prodotti per bambini (intendendosi con questa espressione – quelli contraddistinti dal marchio Plasmon) e prodotti per adulti (quelli contraddistinti dal marchio Barilla).
Pur constatando, la veridicità dei dati diffusi da Plasmon, il giudice ha ritenuto ingannevole il messaggio in quanto in grado di indurre in errore i consumatori rispetto all’idoneità dei prodotti Barilla per la categoria dei consumatori di età superiore ai 3 anni[7], categoria con riferimento alla quale i prodotti risultano essere pienamente conformi alla normativa.
L’ulteriore elemento considerato ingannevole è l’assenza del prezzo che – secondo il Giudice – avrebbe rappresentato un elemento necessario al fine di fornire un “quadro completo ed obiettivo della situazione, inducendo poi le mamme – con un messaggio diversamente congeniato – a compiere una valutazione consapevole dei costi e dei benefici, valorizzando questi ultimi, anche di fronte ad un prezzo maggiore, nella considerazione che si trattava di preservare la salute dei propri bambini al di sotto dei tre anni”.
L’omissione del prezzo è ritenuta estremamente rilevante anche sotto il profilo del giudizio relativo alla sotituibilità dei prodotti: per poter affermare che due beni soddisfano gli stessi bisogni si ritiene indispensabile che i prodotti siano offerti ai consumatori a parità di condizioni e in primis a condizione di prezzo[8]. L’assenza di questa informazione nell’ambito della pubblicità comparativa di Plasmon è stata pertanto ritenuta idonea a trarre in inganno il consumatore e a sviare le sue scelte d’acquisto.
Il Giudice ha, infine, rigettato la domanda riconvenzionale di Plasmon avente ad oggetto la richiesta di inibitoria del claim “A mangiar bene si comincia da Piccolini” e del corrispondente marchio “Piccolini” per il quale è stata richiesta la declaratoria di nullità ai sensi dell’art. 14. comma I del Codice della Proprietà Industriale[9] e dell’art. 2 del D.lgs. n. 109/92[10].
In particolare, con riferimento al segno distintivo, sebbene i prodotti contrassegnati dal marchio “Piccolini” risulterebbero sconsigliabili per i bambini al di sotto dei tre anni di età, non si può negare che essi siano idonei per i consumatori dai tre anni in su.
A giudizio del Tribunale di Milano mancherebbe l’elemento della decettività che giustificherebbe la declaratoria di nullità del marchio: Barilla non avrebbe impostato la comunicazione dei prodotti a marchio “Piccolini” per promuoverne il consumo da parte dei bambini di età inferiore ai tre anni.
A tal proposito è stato, inoltre, valutato positivamente l’inserimento della precisazione per cui i prodotti a marchio “Piccolini” sarebbero destinati ai consumatori sopra i tre anni.
Allo stesso modo è stato ritenuto lecito il messaggio “A mangiar bene si comincia da Piccolini”, in quanto suggerirebbe il prodotto come alimento di chi voglia mangiare bene e allo stesso tempo quale abitudine da tenere fin da bambini (evidentemente di età superiore ai tre anni).
I provvedimenti esaminati sottolinenano, ancora una volta, come la scelta di effettuare una comparazione ancorchè diretta a soddisfare precise esigenze di comunicazione, si traduce in una scelta rischiosa in quanto estremamente sottile risulta essere la linea di confine tra la veridicità (o la verificabilità) delle affermazioni contenute nei messaggi pubblicitari comparativi e la lesione dell’immagine – effettiva o percepita – delle imprese sottoposte alla comparazione.
[1] D. Lgs. 206/2005, Art. 22 co.1 lett. b)
[2] D. Lgs. 206/2005, Art. 22 co.1 lett. c)
[3] IAP BARILLA – 148/2011 – 20/12/2011
[4] Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, Art. 15 – Comparazione. “È consentita la comparazione quando sia utile ad illustrare, sotto l’aspetto tecnico o economico, caratteristiche e vantaggi dei beni e servizi oggetto della comunicazione commerciale, ponendo a confronto obiettivamente caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili tecnicamente e rappresentative di beni e servizi concorrenti, che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi. La comparazione deve essere leale e non ingannevole, non deve ingenerare rischi di confusione, né causare discredito o denigrazione. Non deve trarre indebitamente vantaggio dalla notorietà altrui.”
[5] Oggetto del procedimento dinanzi al Tribunale di Milano è la campagna di Plasmon nella sua interezza, la quale includeva anche un confronto tra i biscotti Plasmon per la prima infanzia e i biscotti del Mulino Bianco contraddistini dal marchio “Macine”.
[6] Decreto Legislativo 2 Agosto 2007 , n. 145 – Attuazione dell’articolo 14 della direttiva 2005/29/CE che modifica la direttiva 84/450/CEE sulla pubblicita’ ingannevole.
[7] Nella sentenza si legge su questo punto: “Giova quindi riportare le modalità di presentazione del confronto sopra evidenziate, unitamente alle conclusioni che la pubblicità comparativa delle resistenti ne traggono, nei termini che seguono: “Molte mamme usano biscotti per adulti anche per bambini con meno di 3 anni. Questi biscotti vanno bene per gli adulti, ma possono contenere livelli di pesticidi anche molto superiori ai limiti di legge stabiliti per i bambini di questa età…” e, nel caso della pasta, analogamente: “Questa pasta va bene per gli adulti, ma può contenere livelli di contaminanti anche molto superiori ai limiti di legge stabiliti per i bambini di questa età…”. L’affermazione “questi biscotti vanno bene per gli adulti” o “questa pasta va bene per gli adulti” (sicuramente di maggior rilievo e di impatto più immediato rispetto alle precisazioni che seguono) esclude una categoria rispetto alla quale non viene violata nessuna particolare indicazione di legge, che è quella dei bambini al di sopra dei 3 anni. Questi pure sono da considerarsi “bambini” nell’accezione comune, e non certo “adulti” (quantomeno fino all’adolescenza o dopo l’adolescenza), con la conseguenza che il messaggio trasmesso dalla pubblicità Plasmon induce il consumatore a ritenere che i prodotti Barilla non siano idonei all’alimentazione di tutti i bambini, di qualsiasi età.”
[8]In tema di prezzo, il Giudice prosegue: “Si deve infatti affermare che la comparabilità di due beni non postula solo l’identità dei bisogni o degli obiettivi, ma esige anche la loro appartenenza alla stessa fascia qualitativa ed economica, cosicché da avere un posizionamento di mercato omogeneo. Ai fini della pubblicità comparativa, differenze qualitative ed economiche notevoli sono idonee a rendere disomogenei prodotti appartenenti ad una stessa categoria, dal momento che finiscono per soddisfare interessi diversi.”
[9] Art. 14 co. 1 – Liceità
Non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa:
a) i segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume;
b) i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi;
c) i segni il cui uso costituirebbe violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi.
[10] Attuazione delle direttive n. 89/395/CEE e n. 89/396/CEE concernenti l’etichettatura, la presentazione e la pubblicita’ dei prodotti alimentari. Art. 2. Pubblicità: “L’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari non devono indurre in errore l’acquirente sulle caratteristiche del prodotto e precisamente sulla natura, sulla identità, sulla qualità, sulla composizione, sulla quantità, sulla durabilità, sul luogo di origine o di provenienza, sul modo di ottenimento o di fabbricazione del prodotto stesso” .