A poche settimane dalla presentazione della Dichiarazione dei diritti di Internet, si rinfocola la querelle tra Big G e l’Europa sulla definizione della portata territoriale del diritto all’oblio e sui limiti di coercibilità della deindicizzazione dei contenuti ritenuti lesivi.
A fronte della diffida formale, da parte del Cnil – autorità francese per la protezione dei dati personali – alla rimozione dei link da tutte le estensioni del motore di ricerca, ivi incluse quelle non europee, Google ha difatti opposto un perentorio rifiuto, rilevando come la matrice legislativa comunitaria del diritto all’oblio ne circoscrivesse l’operatività – e dunque anche la coercibilità – ai soli domini europei.
Ebbene, al fine di cogliere appieno i termini del dibattito e il delicato equilibrio di opposti interessi che ne costituiscono il nucleo, è anzitutto opportuno sgomberare il campo da possibili travisamenti circa l’effettiva portata del diritto in questione e, soprattutto, circa il reale impatto del c.d. delisting sulle informazioni ritenute lesive.
I. IL DIRITTO AD ESSERE DIMENTICATI: NATURA E PRESUPPOSTI DEL DELISTING
Il diritto all’oblio si configura come il diritto ad ottenere la rimozione dai motori di ricerca di notizie riguardanti la propria persona, in quanto ritenute inadeguate, non più pertinenti in relazione alle finalità del trattamento, ovvero obsolete rispetto alle circostanze del caso di specie e alle successive evoluzioni dei fatti riportati.
Un diritto che – è essenziale chiarire – non ha il suo fondamento nella illiceità della pubblicazione o nella mendacia delle informazioni divulgate, né tantomeno nella effettiva causazione di un pregiudizio, bensì nell’interesse del singolo ad una proiezione virtuale della propria persona che sia attuale e veritiera.
In altre parole, il diritto ad essere dimenticati – e l’obbligo (relativo) di delisting ad esso speculare – non presuppone la diffamatorietà della notizia, ma mira unicamente a preservare la persona dal rischio di una cristallizzazione della propria identità all’epoca in cui le informazioni sono state pubblicate.
Il right to be forgotten viene così ad assumere una valenza strumentale rispetto alla salvaguardia del più ampio diritto alla identità personale, qui nella sua specifica declinazione di “diritto a non vedere travisata la propria immagine sociale”[1].
Se è vero che i motori di ricerca giocano un ruolo nevralgico nella costruzione della identità degli individui, in quanto capaci di generare una immagine virtuale in grado di sovrapporsi a quella reale, fino a surclassarla, occorre tuttavia precisare che la deindicizzazione, pur operando come strumento di tutela della reputazione del singolo, non determina la cancellazione della notizia.
Le informazioni, difatti, sopravvivono al delisting, il quale non incide sulla esistenza della notizia, bensì sulla sua visibilità, complicandone il reperimento da parte degli utenti; non, dunque, il diritto ad essere dimenticati, quanto più il diritto ad essere derubricati, secondo la terminologia utilizzata da Google.
Evidentemente, resta salva la facoltà dell’interessato di rivolgersi all’editore per ottenere la cancellazione delle informazioni dal sito sorgente; si tratta, tuttavia, di un iter distinto e non necessariamente interferente con quello della deindicizzazione, ben potendo l’utente rivolgersi al motore di ricerca senza aver preventivamente richiesto la rimozione dei contenuti al titolare della pagina.
A ciò si aggiunga, inoltre, che il delisting non si riferisce alla totalità dei risultati correlati alla persona che ha richiesto la rimozione, bensì unicamente a quelle voci ottenute mediante l’utilizzo – come key word – del nome dell’interessato[2].
La ratio è, evidentemente, quella di operare un equo contemperamento tra le istanze di protezione della reputazione virtuale dei soggetti e il libero accesso alle informazioni da parte dell’utenza, laddove una indiscriminata rimozione dei contenuti segnalati determinerebbe una eccesiva compressione dell’interesse collettivo alla circolazione delle notizie.
II. L’ESTENSIONE GLOBALE DELLA DEINDICIZZAZIONE: GARANZIA NECESSARIA O MISURA ECCESSIVA?
Tali considerazioni – utili a comprendere le logiche di pesi e contrappesi sottese al meccanismo di deindicizzazione – consentono di analizzare con maggiore consapevolezza la problematica della estensione territoriale del diritto all’oblio, in questi giorni ripropostasi all’attenzione in seguito alla richiesta di rimozione globale dei link inoltrata dal Cnil a Google.
Più segnatamente, l’Autorità francese – nell’invitare formalmente Mountain View ad estendere la rimozione dei contenuti a tutti i domini del motore di ricerca- ha posto l’accento sulla necessaria unitarietà del procedimento di delisting, evidenziando come la segmentazione territoriale del processo ne svilisca inevitabilmente l’effettività.
Invero, allo stato attuale, la rimozione dei link conseguente all’accoglimento della richiesta di deindicizzazione è circoscritta alle versioni europee del motore di ricerca , con esclusione dei dominii extraeuropei; in altre parole, i contenuti oggetto di delisting continuano ad essere accessibili e raggiungibili sul dominio non europeo, come google.com.
Tale meccanismo di cancellazione parziale, come puntualmente osservato nel report messo a punto dall’Advisory Council di Google per il diritto all’oblio[3], è ritenuto dalla società statunitense pienamente idoneo a soddisfare le esigenze di tutela della riservatezza a cui è funzionale il processo di deindicizzazione.
In particolare, il report ha evidenziato come la scelta di circoscrivere il delisting ai domini europei trovi la propria legittima spiegazione nella circostanza per cui la quasi totalità delle richieste di rimozione fanno riferimento alle versioni locali del motore di ricerca, poiché è rispetto a queste che la notizia – inadeguata o non più pertinente – può esercitare un impatto effettivo sulla reputazione dell’interessato.
Come ribadito in riscontro alla richiesta inoltrata dal Cnil – Google ritiene che l’estensione globale della deindicizzazione costituisce una misura eccessiva e sproporzionata rispetto all’obiettivo ultimo di protezione della reputazione del singolo, atteso che tale finalità può essere efficacemente realizzata attraverso la rimozione dal dominio europeo, evitando cioè una inutile compressione del diritto di accesso alle informazioni.
Al riguardo, Big G puntualizza altresì come la riservatezza dell’interessato sia ulteriormente garantita dal meccanismo di redirecting automatico alla versione locale di Google; in altre parole, l’utente stabilito in Europa, che voglia ricercare il nominativo del soggetto che ha richiesto la deindicizzazione sulla piattaforma google.com, non potrebbe accedervi, poiché verrebbe automaticamente reindirizzato sul dominio europeo, dove i link alle informazioni sono stati rimossi.
Mountain View pone, inoltre, l’accento sui rischi connessi all’eventuale estensione extraeuropea del delisting, evidenziando come un siffatto sistema di deindicizzazione globale comporterebbe l’instaurazione di un pericoloso “meccanismo di corsa al ribasso, per cui il paese più restrittivo detterebbe la misura della libertà di internet per tutti”; una fissazione unilaterale degli standards di protezione che, nel lungo termine, si tradurrebbe in un sacrificio sistematico (e aleatorio) del diritto di informazione.
Ulteriore argomento invocato da Google è, infine, quello attinente alla genesi europea del diritto all’oblio, per cui se è vero che la normativa che lo consacra è di matrice comunitaria – la direttiva 95/46 CE – e non mondiale, è legittimo ritenere che la portata della deindicizzazione debba essere limitata ai confini europei.
Di avviso diametralmente opposto è l’Autorità Francese, la quale evidenzia come l’inscindibilità e uniformità del processo di delisting costituisca presupposto indefettibile per garantirne l’efficacia, in piena conformità a quanto già affermato dall’Art. 29 Working Party, il quale già nel 2014 aveva rilevato come le decisioni di deindicizzazione dovessero necessariamente essere applicate anche sui domini “.com”.
Più precisamente, il WP29 – le cui osservazioni sono state fedelmente fatte proprie dal Cnil – ha energicamente rilevato come la rimozione dai soli motori di ricerca europei costituisca un evidente aggiramento della normativa, la cui effettività sarebbe inammissibilmente vanificata dalla permanenza dei link sul dominio extraeuropeo.
E’ una questione complessa, rispetto alla quale il delicato gioco di bilanciamenti tra interessi contrapposti, che sin da principio ha segnato l’affermazione e la definizione del diritto all’oblio, rischia di incrinarsi pericolosamente.
Si tratta allora di decidere da che lato far pendere la bilancia, se da quello della piena e completa effettività del delisting, o da quello del libero accesso alle informazioni, limitando la rimozione ai soli domini europei, in ossequio a un criterio di stretta necessità.
A ben vedere, il criterio sinora adottato da Big G rivela criticità minori rispetto a quelle rilevate dal Cnil, in quanto scientemente concepito in un’ottica di contemperamento tra istanze di protezione confliggenti: una soluzione compromissoria che si pone a metà strada tra la rimozione nazionale e quella internazionale e che, soprattutto, tiene conto delle istanze già inoltrate dagli utenti europei, i quali solo in rarissimi casi hanno specificato la propria volontà di estendere il delisting a versioni non europee del motore di ricerca.
Evidentemente, non è dato sapere se tale omessa specificazione sia consapevole o – altrettanto verosimilmente- dettata dalla errata convinzione della sostanziale coincidenza tra i domini; ciò che è possibile affermare, tuttavia, è che anche una eventuale deindicizzazione dei link dalla versione extraeuropea non sarebbe, in ogni caso, idonea a garantire il soddisfacimento integrale del diritto all’oblio.
Come già rilevato, difatti, le informazioni, anche successivamente al delisting, restano accessibili attraverso altri canali o attraverso l’impiego di parole chiave diverse dal nome dell’interessato, atteso che solo la rimozione da parte dell’editore del sito sorgente è in grado di incidere sulla permanenza della notizia sul web.
In altre parole, il controllo censorio transnazionale sui contenuti pubblicati, che di certo seguirebbe alla estensione globale della deindicizzazione, potrebbe rivelarsi un prezzo troppo alto, tenuto conto che l’obiettivo ultimo, della completa e piena realizzazione del diritto all’oblio, sarebbe ugualmente non raggiungibile in toto, permanendo le informazioni nella memoria del web, sebbene meno istantaneamente reperibili.
A ciò si aggiungano le perplessità legate alla forte asimmetria normativa e culturale esistente tra i vari Paesi, la quale si risolverebbe prevedibilmente in una pericolosa “oligarchia dell’informazione”, dove il bilanciamento tra riservatezza e accesso all’informazione sarebbe interamente rimesso a quegli Stati che esercitano il più severo controllo sulla rete.
[1] FINOCCHIARO G., Il diritto all’oblio nel quadro dei diritti della personalità, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, Milano, 2014, p. 601.
[2] La Corte di Giustizia, nella sentenza Google Spain, nell’enucleare il contenuto del diritto dell’interessato alla deindicizzazone, parla testualmente di “diritto a che l’informazione riguardante la sua persona non venga più collegata al suo nome da un elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome”.
[3] Advisory Counci to Google on the Right to be Forgotten, Febbraio 2015, diponibile alla pagina https://drive.google.com/file/d/0B1UgZshetMd4cEI3SjlvV0hNbDA/view.