Il diritto all’oblio, con riferimento ad internet, può essere declinato, in una accezione più ristretta ma di maggior ricorrenza pratica, come il diritto ad ottenere che le proprie generalità non siano direttamente rinvenibili in associazione a contenuti lesivi (es. notizie di cronaca giudiziaria) o, comunque, risalenti nel tempo, attraverso l’utilizzo dei comuni motori di ricerca.
Una disamina del predetto diritto – nella più ristretta accezione sopra formulata – finalizzata alla ricerca di eventuali indici normativi, non può prescindere dall’attento esame del meritevole lavoro compiuto – sin dall’anno della sua istituzione – dall’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, in tema di tutela del diritto all’identità personale e relative estrinsecazioni, e da un’altrettanto attenta disamina di ogni altro dato normativo e giurisprudenziale utile in tema, anche, di divulgazione di dati sensibili giudiziari.
Ed invero, sin dal diffondersi dei primi motori di ricerca, ben anteriormente all’utilizzo generalizzato di Google, l’Autorità Garante ha mostrato lodevole sensibilità verso le nuove problematiche connesse all’indicizzazione di contenuti lesivi o, comunque, risalenti nel tempo, da parte dei motori di ricerca, con particolare riguardo alle notizie di stampa riguardanti fatti di cronaca giudiziaria.
Già nei primi provvedimenti dell’Autorità Garante, difatti, veniva da subito in esame, in particolare, l’emergere di notizie di stampa relative a fatti di cronaca giudiziaria che si collocavano ai primi posti dei risultati di ricerca in associazione al nominativo del protagonista, con evidente stravolgimento dell’intera identità personale del soggetto ( art.2 del Dlgs. 196/2003) che ne risultava caratterizzata, in via prevalente, dalla predetta vicenda giudiziaria e ciò, virtualmente, per un tempo indefinito.
Al riguardo, l’Autorità Garante ha da subito inteso individuare quei rimedi, anche di natura tecnica, volti ad impedire che l’individuo indagato, imputato od anche condannato, rimanesse esposto, indefinitamente, alla c.d. “Gogna mediatica” così coniando, anche, la predetta felice e significativa espressione descrittiva della permanenza indefinita in Internet di notizie di cronaca giudiziaria
Tele espressione (Gogna Mediatica), ad avviso di chi scrive, centra con precisione chirurgica gli esatti confini di una tematica, il c.d. diritto all’oblio, che, da ultimo, sta avendo una vastissima – e spesso confusionaria – eco mediatica, anche a seguito della nota Sentenza della Corte Europea (C-131/12 del 14 maggio 2014)[1] che ha riconosciuto la responsabilità concorrente dei motori di ricerca nel trattamento dei dati personali.
Difatti, ad avviso di chi scrive, oggetto esclusivo e specifico di una corretta disamina del tema della tutela del diritto al controllo della propria identità personale nel tempo, in riferimento ad internet, dovrebbe essere non già la liceità, o meno, della divulgazione in sé della notizia – condotta, questa, che a prescindere dai profili di continenza della notizia, è pienamente giustificata dall’esercizio del diritto di cronaca – ma la sua “permanenza” per un tempo indefinito, ed indefinibile a priori, quale risultato di ricerca, in base, per altro, a criteri (gli algoritmi di indicizzazione utilizzati dai motori di ricerca) al di fuori della disponibilità dell’originario pubblicante.
Non è superfluo precisare, al riguardo, che la divulgazione è una condotta che – prendendo a prestito una figura civilistica – può definirsi quale unico actu perficiuntur, la quale cioè produce, ed esaurisce , i suoi effetti principali nel medesimo istante.
Rientra nella predetta definizione l’ipotesi tipica dell’articolo di giornale pubblicato su supporto cartaceo (quotidiano e/o periodico tradizionale) il cui fine divulgativo “pubblico” si esaurisce con la distribuzione, ed eventuale acquisto delle singole copie, rimanendo l’eventuale conservazione di queste confinato ad ulteriore , ed eventuale , attività privata (conservazione personale della copia) o storico–archivistica (archivio del quotidiano, emeroteche pubbliche e/o private, et similia).
In altri termini, sin quando l’attività giornalistica si è svolta per solo mezzo della carta stampata, una volta esauritasi la vendita delle copie, l’eventuale riproposizione della notizia era sempre subordinata ad un attività ulteriore (es. ripubblicazione da parte di una Testata, riproposizione degli eventi nel corso di un reportage televisivo ovvero, nel caso di privati, accesso agli archivi e/o all’emeroteca pubblica).
Uno stato di cose quale quello che precede, garantiva un bilanciamento equo tra la “momentanea” soppressione del diritto all’identità dell’interessato di un provvedimento giudiziario – specie nella delicata fase antecedente ad un‘eventuale condanna – ed il diritto/dovere di cronaca degli operatori della carta stampata.
Il superiore quadro, però, è stato radicalmente “stravolto” dalla pubblicazione indiscriminata ed illimitata, su internet, da parte delle testate giornalistiche, dei propri archivi, e ciò senza che venisse adottata alcuna cautela in ordine all’indicizzazione e conseguente “riaffiorare” di notizie ormai risalenti nel tempo, e sovente relative a vicende afferenti dati giudiziari e/o altrimenti sensibili.
Il predetto incauto contegno è stato in seguito mantenuto dalla generalità degli operatori dell’informazione sul web i quali, sin dall’inizio del processo di immissione dei propri archivi in rete, hanno radicalmente omesso di adottare precauzioni finalizzate ad evitare che gli articoli (riportanti vicende giudiziarie), una volta pubblicati, rimanessero liberamente indicizzabili dai motori di ricerca generalisti e – anche in ragione dell’elevato ranking che viene attribuito ai “maggiori siti di informazione” da parte dei motori di ricerca – venissero pubblicati, a tempo indefinito, tra i primi risultati di ricerca in associazione al nominativo del protagonista della vicenda.
Ad avviso di chi scrive, quanto sopra ha ben poco a che vedere tanto con il diritto di cronaca, quanto con il “diritto alla completezza storico-archivistica”.
Difatti, per quanti sforzi ermeneutici si compiano, non è dato rinvenire in alcun ramo dell’Ordinamento – e/o nella ultra secolare e consolidata giurisprudenza in tema di diritto al nome, all’onore, al decoro ed alla reputazione, con specifico riferimento alla divulgazione di informazioni giudiziarie – alcun “appiglio” idoneo a ritenere sussistente un astratto diritto a propalare – indiscriminatamente, per un arco temporale indefinito e con una reperibilità chirurgicamente associata al nominativo dell’interessato – dati afferenti vicende giudiziarie comprimendo, sino ad eliminarlo, il diritto di rango costituzionale alla personalità (Art.2 Cost), il quale è di rango pari – se non di rango superiore, essendo il predetto diritto collocato tra i principi fondamentali – a quello ordinariamente invocato a supporto di tali condotte di propalazione, di cui all’ Art.21 della nostra Costituzione (c.d. diritto alla libera manifestazione del pensiero).
Al contrario è da vedersi se – da una disamina complessiva delle norme ordinamentali in tema di diffusione di informazioni giudiziarie – non siano rinvenibili espliciti ed incontrovertibili confini entro i quali la predetta divulgazione possa ritenersi lecita ai sensi del c. d. diritto di cronaca.
Ed invero, anche a prescindere dalla specifica attenzione che lo stesso Dlgs. 196/2003 pone ai dati giudiziari – che, in re ipsa, costituiscono “dati sensibili” e, pertanto, da trattarsi con specifiche e pregnanti modalità e cautele – il legislatore aveva già disciplinato – in diversi ed antecedenti impianti normativi di diversa collocazione topografica – ed in maniera incontrovertibile, le modalità di diffusione dei dati afferenti vicissitudini giudiziarie, con specifico riferimento alla pubblicazione a mezzo stampa.
In primo luogo, graduando la seguente disamina a partire dall’ipotesi più grave di diffusione di dati giudiziari, viene in rilievo l’attenta disciplina che il Legislatore ha dedicato all’ipotesi della pubblicazione della sentenza di condanna penale “su uno o più giornali designati dal giudice” (Art.36 Codice Penale).
Al riguardo, risalta immediatamente all’occhio dell’interprete la circostanza che la suddetta pubblicazione della sentenza di condanna ex art 36 c.p., ha natura di pena accessoria.
In altri termini, il legislatore ha chiaramente codificato la natura “punitiva” della predetta pubblicazione della sentenza di condanna su organi di stampa.
In secondo luogo, lo stesso legislatore ha previsto la pubblicazione “automatica” della sentenza di condanna nella sola ipotesi della pena all’ergastolo – e cioè in relazione a condanne relative ai reati più gravi e di maggiore allarme sociale – rimandando, nelle altre ipotesi, a leggi speciali che espressamente e tassativamente dispongano la pubblicazione della sentenza su quotidiano quale pena accessoria (art 36 comma 3 : “la legge determina gli altri casi nei quali la sentenza di condanna deve essere pubblicata”).
Non vi è chi non veda, pertanto, come il Legislatore, lungi dallo stabilire un regime di pubblicità indiscriminata dell’incidente giudiziario abbia, al contrario, confinato quanto precede alle sole ipotesi più gravi e/o specificatamente individuate dalla Legge stessa.
Con riferimento al dato della durata temporale della pubblicazione, inoltre, il Legislatore, una volta definitane la natura affittiva – avendo a mente, anche, l’opportunità di informare, esclusivamente in determinate e tassative ipotesi, la collettività per mezzo della stampa dell’avvenuta condanna – ha però inteso ulteriormente delimitare tale incombente disponendo che la predetta pubblicazione avvenga: “per una sola volta e su uno o più giornali designati dal giudice” (art. 36 c.p. comma 2).
In altri termini, lungi dal prevedere ogni automatismo indiscriminato, il Legislatore ha limitato le ipotesi di pubblicazione di sentenza di condanna, nel tipo (“ergastolo od altre ipotesi espressamente previste dalla legge”), nel tempo (“per una sola volta”) e sottoponendone eventuali altre modalità (“uno o più quotidiani”) all’attento esame del Giudice (“designati dal Giudice”).
Ciò premesso, in via di principio, risulta chiaro, però, che la predetta disciplina – riguardando la ipotesi di pubblicazione “coatta” a seguito di condanna – potrebbe ritenersi non coincidente – come infatti non lo è – con altre ipotesi di pubblicazione giornalistica in attuazione del c.d. diritto di cronaca.
Alla superiore obiezione, di contro, in stretta aderenza con il tema che ci occupa, giova evidenziare che quanto sopra costituisce sicuro criterio ermeneutico, di fonte legislativa, in ordine alla natura afflittiva della pubblicazione su di un quotidiano di una sentenza di condanna, e tale che non si possa in alcun modo sostenere, a contrario, l’esistenza di un diritto alla pubblicazione indiscriminata, e senza durata nel tempo, di tali vicende.
In particolar modo, risalta il riferimento espresso che il Legislatore compie alla durata del predetto trattamento afflittivo, ove viene precisato che la pubblicazione avvenga: “per una sola volta”.
Risulterebbe ben strano, pertanto, che ciò che lo stesso Legislatore definisca quale “pena” e limiti all’Ordinamento Giudiziario sotto il profilo della durata nel tempo (pubblicazione di sentenza di condanna, per una sola volta, su quotidiano) venga riconosciuto indiscriminatamente ad altri soggetti, per mezzo di internet! (es. permanenza ed accessibilità indiscriminata su internet di articoli riportanti la notizia della condanna).
Per altro, a chi argomenti l’esistenza di un diritto temporale indefinito – o, comunque, svincolato da precisi vincoli normativi in ordine all’accessibilità, sine condicio di informazioni giudiziarie – ovvero subordinato esclusivamente ad un vago e non meglio definito “interesse pubblico all’informazione”– giova ricordare che anche l’ accesso ai Casellari Giudiziali – ai fini di acquisire informazioni sull’esistenza di precedenti penali e/o anche di carichi pendenti – è stato dal Legislatore limitato a chiunque “vi abbia un interesse”.
Fatto salvo, pertanto, il diritto di informare la collettività – per una sola volta, o attraverso un atto di accesso da parte di chi, almeno, vi abbia un qualche interesse specifico – il Legislatore, nel disciplinare il regime di pubblicità delle informazioni giudiziarie (sentenze di condanna e/o, anche, carichi pendenti), lungi dal riconoscere un regime indiscriminato di diffusione permanente e pubblica, ha posto precise limitazione tanto in ordine alla durata, quanto in ordine al regime di accesso ex se.
Quanto sopra, per altro, è ben coerente con il complessivo dettato costituzionale in ordine alle vicissitudini giudiziarie, con particolare riguardo al fine “rieducativo” della pena, che deve sempre tendere alla completa emenda del reo – ivi compreso un “ristoro” della propria identità personale o, nella fase forse ancora più delicata delle indagini preliminari, tendente ad evitare ulteriori conseguenze afflittive rispetto a quelle che ex se conseguono al rivestire lo status di indagato – in conformità, per altro, con altra norma di rango Costituzionale (art.27 Cost).
Quasi ultroneo appare, al riguardo, fare menzione della disciplina penale che fa espresso e chiaro divieto di divulgare atti di un procedimento penale in corso, norma, per altro, nella prassi largamente disattesa, ma anche questa di sicuro valore ermeneutico al fine di focalizzare lo sfavore con il quale il Legislatore guarda alla diffusione indiscriminata di informazioni afferenti procedimenti giudiziari, e ciò anche prima – o, forse, a maggior ragione prima – dell’intervenire di una sentenza di condanna.
Ultimo cenno meritano le Linee Guida emanate dalla Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali in tema di trattamento di dati personali nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica ove, già dalla intitolazione delle stesse, è chiaro che il favore con il quale si riguarda alla diffusione – sebbene previe specifiche cautele – è indirizzato, anche in questo caso, ad un ambito limitato (informazione giuridica)e non alla generalità dei consociati.
Giova, per altro, sottolineare che l’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, sin dai primi provvedimenti adottati in materia, ha ben chiaramente stabilito che, sebbene “il trattamento dei dati…” sia stato “… a suo tempo effettuato in modo lecito per finalità giornalistiche, nel rispetto del principio dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, rientra ora, attraverso la riproposizione dei medesimi dati negli articoli pubblicati quali parti integranti dell’archivio storico del quotidiano reso disponibile on-line sul sito Internet dell’editore resistente” tuttavia “vanno separatamente considerati i motivi legittimi di opposizione sostanzialmente argomentati dall’interessato, il quale ha rappresentato legittimamente la propria aspirazione affinché in rete, per mezzo delle “scansioni” operate automaticamente dai motori di ricerca esterni al sito dell’editore… non restino associate perennemente al … nominativo le notizie oggetto dell’articolo pubblicato…tali motivi … appaiono meritevoli di specifica tutela, tenuto conto delle peculiarità del funzionamento della rete Internet che può comportare la diffusione di un gran numero di dati personali riferiti a un medesimo interessato e relativi a vicende anche risalenti (nel tempo – ndr) … che però, per mezzo della rappresentazione istantanea e cumulativa derivante dai risultati delle ricerche operate mediante i motori di ricerca, rischiano di riverberare comunque per un tempo indeterminato i propri effetti sugli interessati come se fossero sempre attuali; ciò, tanto più considerando che il successivo utilizzo degli esiti delle ricerche effettuate sulla rete Internet mediante i motori di ricerca può avvenire per gli scopi più diversi e non sempre per finalità di ricerca storica in senso proprio;” [2]
Va segnalato, però, che, una volta stabilito il criterio temporale, quale indice di riferimento per giustificare una reperibilità generale ed indiscriminata delle notizie di cronaca giudiziaria, questa la medesima Autorità Garante ha ritenuto infondata[3] una richiesta di de-indicizzazione avanzata decorso solo un anno di tempo, sul presupposto che fosse un decorso temporale troppo breve al fine di eliminare l’interesse pubblico alla conoscibilità di una vicenda giudiziaria.
In relazione al suddetto criterio del “limite temporale” di applicabilità dell’oblio – pur in assenza di una indicazione normativa specifica e ben consapevoli dell’intenso ed acceso dibattito vigente in dottrina ed anche presso il pubblico, sul punto – ad avviso di chi scrive è però necessario vagliare se l’Ordinamento Giuridico non offra, aliunde, indici di riferimento utili, con specifico riguardo ai fatti di cronaca giudiziaria.
A tal fine, si ritiene utile evidenziare – in prosecuzione dell’iter ermeneutico svolto in precedenza – l’impianto normativo previsto dal Codice di Procedura Penale in tema di c.d.“termini di fase”.
In sintesi, nella delicata fase delle indagini preliminari – che comporta, inevitabilmente una temporanea compressione “di fatto” del diritto di cui all’Art. 27 Cost – il Legislatore ha inteso ancorare la possibilità del verificarsi di effetti pregiudizievoli in capo all’indagato/imputato a rigidi criteri temporali.
Ciò è vero, tanto in tema di esperibilità di atti di indagine – che salvo ipotesi speciali non possono essere compiuti, mai, oltre il 18° mese dall’iscrizione nel registro degli indagati, a pena di inutilizzabilità[4] – tanto in tema di durata delle misure cautelari, custodiali o altrimenti, comunque, afflittive e/o interdittive.
Individuate le superiori limitazioni temporali, e stabilito che la pubblicazione di fatti di cronaca giudiziaria – anche quando legittimamente esercitata ed in presenza di un interesse pubblico alla conoscenza della vicenda – comporta anch’essa una inevitabile, temporanea, compressione dei diritti fondamentali della personalità, ad avviso di chi scrive, sarebbe oltremodo irragionevole consentire che la predetta limitazione superasse, temporalmente, i termini previsti dalla Legge per le relative fasi procedimentali degli atti di indagine o della compressione dello status libertatis.
Se così fosse – ed, allo stato in parte, così è – si consentirebbe che le “garanzie” poste dal Legislatore a tutela dell’indagato rimanessero, di fatto, radicalmente inoperanti sul piano del diritto all’immagine, al nome ed alla riservatezza dello stesso indagato.
In conclusione – con spirito propositivo rispetto ad un tema ancora non esattamente delineato nei suoi confini – chi scrive ritiene ragionevole – e conforme ai principi ispiratori dell’Ordinamento Giuridico Italiano, con riguardo al “sistema” nel suo complesso – che la reperibilità esterna e generalizzata di una notizia di cronaca giudiziaria non debba mai superare, nella durata, il termine di fase processuale e/o procedimentale cui la predetta notizia si riferisca.
Un ultimo cenno, infine, si rende opportuno in relazione ai ben noti i limiti ed alla “debolezza dell’istituto della rettifica”[5] il quale – già di scarsa e controproducente applicazione in seno alla carta stampata – si rivela radicalmente controproducente rispetto all’ambiente internet causando un’amplificazione virtualmente permanente dell’argomento che si vorrebbe obliare.
Giova evidenziare, per altro, che sul tema ha generato ulteriore confusione, tanto tra gli interpreti, quanto in sede applicativa, la non esemplare Sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 5525 del 5.04.2012 la quale, sebbene di sicuro interesse in via di obiter dicta, nella parte dispositiva trascura tout court il tema della de-indicizzazione affrontando, al contrario ed addirittura, la necessità di aggiornare le notizie all’interno stesso degli archivi dei quotidiani, modificando ed integrando gli originali ivi conservati con le opportune integrazioni.
Quanto sopra, ad avviso di chi scrive, non è auspicabile, né condivisibile, risolvendosi un in una palese reiterazione e riproposizione di ciò che si vorrebbe, di contro, obliare.
[1] Sentenza della Corte Europea – Grande Sezione 13 maggio 2014 – C 131-12: “..Gli articoli 12, lettera b), e 14, primo comma, lettera a), della direttiva 95/46 devono essere interpretati nel senso che, nel valutare i presupposti di applicazione di tali disposizioni, si deve verificare in particolare se l’interessato abbia diritto a che l’informazione in questione riguardante la sua persona non venga più, allo stato attuale, collegata al suo nome da un elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome, senza per questo che la constatazione di un diritto siffatto presupponga che l’inclusione dell’informazione in questione in tale elenco arrechi un pregiudizio a detto interessato. Dato che l’interessato può, sulla scorta dei suoi diritti fondamentali derivanti dagli articoli 7 e 8 della Carta, chiedere che l’informazione in questione non venga più messa a disposizione del grande pubblico in virtù della sua inclusione in un siffatto elenco di risultati, i diritti fondamentali di cui sopra prevalgono, in linea di principio, non soltanto sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse di tale pubblico ad accedere all’informazione suddetta in occasione di una ricerca concernente il nome di questa persona. Tuttavia, così non sarebbe qualora risultasse, per ragioni particolari, come il ruolo ricoperto da tale persona nella vita pubblica, che l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall’interesse preponderante del pubblico suddetto ad avere accesso, in virtù dell’inclusione summenzionata, all’informazione di cui trattasi.”
[2] cfr. Provvedimento di Autorità – 28 dicembre 2008 – http://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/1583152
[3] Provvedimento n. 317 del 17 luglio 2014 – http://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/3407708
[4] Art. 407 C.p.p.
[5] cfr. Privacy e Giornalismo, pag. 43, Mauro Paissan, edito da questa stessa Autorità