Dovendo preparare un intervento per un convegno sull’argomento, in queste ultime settimane ho approfondito il tema del cyber bullismo, giungendo a conclusioni inaspettate che, sinceramente, han colto di sorpresa anche me stessa.
Tre le tappe che hanno contribuito alla formazione del mio pensiero:
- il fact checking di Fabio Chiusi e Carola Frediani sui dati diffusi da Save the Children in occasione del Saver Internet Day;
- la consultazione online sulla proposta di autoregolamento del cyber bullismo;
- It’s Complicated, il libro appena uscito di Danah Boyd.
– Esiste un fenomeno cyber bullismo?
L’11 febbraio 2014, in occasione del Safer Internet Day, Save The Children Italia ONLUS pubblicava un comunicato dall’inquietante titolo “Cyber bullismo il pericolo maggiore secondo il 69 per cento dei ragazzi under 18”, stando al quale, in base ad uno studio sul cyber bullismo condotto da Ipsos per conto dell’associazione, due minori su tre percepirebbero come la minaccia più grave per la loro vita il cyber bullismo, seguito da droga (55%) e molestie/aggressioni da parte degli adulti (45%).
Fabio Chiusi e Carola Frediani, esperti di rete, trovavano la notizia alquanto sospetta, specie in considerazione dell’alto livello di attenzione mediatica scatenatosi in quei giorni a causa di un increscioso fatto di cronaca (la morte suicida di una ragazza a Cittadella), fatto biecamente sfruttato per condurre l’ennesima campagna di demonizzazione del web, e decidevano quindi di approfondire, scoprendo che il dato statistico riportato non rispondeva a verità.
Esaminando direttamente la fonte, infatti, Chiusi e Frediani appuravano che “ad essere considerato un «pericolo forte in questo momento» dal 69% dei ragazzi interpellati è il bullismo in generale (e quindi quello che avviene in primo luogo a scuola, per strada, nei luoghi di ritrovo, nel mondo fisico) e non il cyber-bullismo. …Il cyber nella parola bullismo non poteva essere implicito visto che il questionario affronta temi non cyber, elencando pericoli come le «bevande non consentite ai minorenni» (si bevono online?) e le «malattie trasmissibili» (via cavo?)”.
Oggi la pagina web del comunicato originale non è più raggiungibile ed è stata sostituita con altra che titola, un po’ più correttamente “Internet e minori: il bullismo – anche in rete – il pericolo maggiore secondo il 69 per cento dei ragazzi under 18”.
Analizzando il rapporto di Ipsos senza preconcetti emerge in modo chiaro e pacifico che il fenomeno del bullismo nasce e si sviluppa ancor oggi in una dimensione fisico-analogica, in particolare la scuola, primo luogo di socializzazione e di creazione e disfacimento di legami non prettamente famigliari.
Internet, in generale, ed i social media, in particolare, non hanno affatto modificato le dinamiche del bullismo, ma le hanno solo rese più visibili. Questa maggiore visibilità, che certamente comporta una preoccupante amplificazione del fenomeno, ha, per contro, dei risvolti positivi in quanto consente di comprendere meglio il fenomeno e conseguentemente aiutare in modo più efficace i ragazzi (sia le vittime che i carnefici) che ne rimangono coinvolti.
Prima conclusione: il cyber bullismo non è un fenomeno autonomo, bensì una modalità eventuale di estrinsecazione del bullismo tradizionale.
– Che cos’è il bullismo?
Me lo sono chiesta ripetutamente leggendo la bozza del Codice di autoregolamentazione per la prevenzione ed il contrasto del cyberbullismo, la quale, purtroppo, pretende di regolamentare il fenomeno senza darne la benché minima definizione!
Non scrivo da penalista, ossessivamente attaccata al principio di tassatività del precetto delle fattispecie criminose, ma da comune cittadina.
Come posso chiedere e ricevere tutela con riguardo ad un determinato fenomeno se non mi è dato sapere esattamente di cosa si sta parlando?
La proposta di autoregolamentazione sottoposta a consultazione è, a mio modesto parere, davvero misera nei suoi contenuti, ma la mancanza di qualsivoglia definizione del concetto di bullismo è la lacuna maggiore che mina alla radice la concreta efficacia del regolamento stesso.
Si legge in premessa che il fenomeno del cyber bullismo va “… inteso come l’insieme di atti di bullismo e di molestia effettuati tramite mezzi elettronici come l’e-mail, la messaggistica istantanea, i blog, i telefoni cellulari e/o i siti web posti in essere da un minore, singolo o da in gruppo, che colpiscono o danneggiano un proprio coetaneo incapace di difendersi”.
Le molestie sarebbero dunque una condotta distinta rispetto al bullismo?
E con la locuzione “mezzi elettronici” si debbono indistintamente considerare sia i sistemi di comunicazione (e-mail, blog) che gli strumenti hardware utilizzati (telefono cellulare)? Quindi se minaccio o sbeffeggio o denigro un compagno di classe con delle telefonate si tratta di cyber bullismo solo perché lo faccio mediante uno smartphone?
E le vittime possono essere solo i coetanei???
Io credo che una definizione chiara e precisa di bullismo sia imprescindibile prima ancora di cominciare anche solo a parlarne.
A tal proposito, una delle migliori teorizzazioni del fenomeno, universalmente riconosciuta cone tale, rimane quella elaborata sin dagli anni ’70 dallo psicologo scandinavo Dan Olweus, il quale nel suo libro “Bullying at School: What We Know and What We Can Do” ha definito il bullismo come segue: “A person is bullied when he or she is exposed, repeatedly and over time, to negative actions on the part of one or more other persons, and he or she has difficulty defending himself or herself”. Il bullismo è dunque un comportamento che necessita di tre elementi contestuali:
1. un’aggressione, fisica o verbale;
2. la ripetizione nel tempo;
3. uno squilibrio di potere o di forza.
Seconda conclusione: in base alla definizione che precede, non tutto ciò che generalmente viene spacciato per bullismo, è tale.
Non possono, infatti, essere qualificati atti di bullismo le aggressioni e le molestie occasionali, né quelle reciproche, né tutti quei comportamenti in cui una parte non si pone in una posizione di predominanza fisica o psicologica o sociale o razziale rispetto ad un’altra, che si ritrova, a sua volta, a subire passivamente degli attacchi senza alcuna possibilità di difesa.
Ma Danah Boyd, nel suo recentissimo libro “It’s complicated”, frutto di una serie di interviste a ragazzi/e condotte nel corso degli ultimi sette anni, va addirittura oltre.
Sulla base dei dati raccolti, la ricercatrice americana fa delle interessanti riflessioni sulla peculiare percezione della realtà dei minori, percezione che spiega e talvolta sin anche giustifica alcuni comportamenti tenuti dai teenager, generalmente considerati incomprensibili per gli adulti e da questi duramente condannati.
La Boyd ha rilevato che alcuni atteggiamenti, pacificamente considerati atti di bullismo da parte degli adulti, vengono invece definiti dai ragazzi come gossip o rumors, pranking o punking, ma soprattutto drama.
Scrive Danah Boyd (cfr. pag. 138 della versione .pdf in free download del suo libro): “Drama is not simply a substitute for bullying. Unlike bullying, which presumes a victim and a perpetrator, referring to conflict as drama allows teens to distance themselves from any emotional costs associated with what is happening. Drama does not automatically position anyone as either a target or an abuser. Those involved in drama do not have to see themselves as aggressive or weak but simply as part of a broader – and, often, normative – social process. Even when someone is central to the drama, they have an opportunity to respond, which allows them to feel a sense of power, even when they’re hurting”.
Terza conclusione: senza voler in alcun modo sminuire la gravità del fenomeno, gran parte delle situazioni oggi qualificate come cyber bullismo, rientrano piuttosto nel diverso concetto di drama.
– Drama e Internet
A differenza del bullismo, il fenomeno del drama, proprio per come nasce e si sviluppa, è fortemente caratterizzato dalla natura e dall’utilizzo dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social network in particolare.
Laddove la bozza del codice di autoregolamentazione parla di “… crescente tendenza dei giovani a sviluppare, attraverso l’uso dei nuovi media, una forma di socialità aggressiva e violenta che può indurre all’adozione di quei comportamenti discriminatori e denigratori verso i propri coetanei che spesso sfociano in episodi di cyberbullismo, attraverso la diffusione di post ed immagini o la creazione di gruppi contro” si riferisce, a mio avviso, a questo particolare fenomeno, fenomeno che va studiato, analizzato e, se del caso, regolamentato e sin anche sanzionato, ma solo avendone ben chiara la differente natura rispetto al bullismo.
Peraltro, forme di socialità aggressive e violente ricorrono sempre più di frequente anche tra gli adulti.
Come noto dai fatti di cronaca, le pratiche di hate speech, sdoganate negli anni passati dai talk show televisivi, sono oggi all’ordine del giorno nella messaggistica di Twitter e Facebook.
Ed allora, se è vero che l’apprendimento dei bambini passa prevalentemente attraverso l’emulazione dei grandi, pare davvero difficile pretendere dai minori comportamenti più retti di quelli che i loro stessi genitori o i loro insegnanti o i personaggi pubblici di riferimento pongono in essere!
Ma incolpare la tecnologia per l’esistenza di presunti cyber fenomeni, non definiti, non studiati e quindi non correttamente e compiutamente inquadrati, oppure ipotizzare di risolvere il cyber fenomeno di turno con la messa al bando o la regolamentazione indiscriminata delle piattaforme web o, peggio ancora, pensare di sanzionare in maniera prossima alla censura l’uso di Internet, in quanto causa di tutti i mali della nostra società, sono procedimenti mentali che peccano o di ingenuità o di mala fede. Tertium non datur.
1 Comment
Pingback: Cyberbullismo, internet e norme sociali | Eleonora Pantò