Una recente ordinanza del tribunale di Pinerolo – già segnalata su questo sito da Giovanni Maria Riccio – si è occupata della possibilità di attribuire a Google la responsabilità a titolo di diffamazione delle combinazioni di parole che si formano nel sistema di suggest search al momento della digitazione nella stringa di ricerca del nome di una persona.
Ancora una volta, come nel caso della applicabilità al direttore di un sito di informazione dell’art. 57 c.p., o alle pagine web delle garanzie costituzionali per il sequestro di stampati, la giurisprudenza cerca una strada per rispondere alle questioni più spinose che la libertà di manifestazione del pensiero pone quando il mezzo di diffusione è la rete.
Più precisamente, del tema in questione si era già occupato il tribunale di Milano, condannando la società che gestisce l’ISP, in sede di reclamo, in seguito ad un provvedimento d’urgenza, a rimuovere le parole «truffa» e «truffatore» che comparivano a fianco del nome del ricorrente. Con argomenti non del tutto condivisibili, i giudici avevano anzitutto ritenuto diffamatoria l’associazione del nome del ricorrente ai termini menzionati e, in secondo luogo, che tale associazione fosse opera dell’ISP, e dunque che quest’ultimo dovesse risponderne.
La più recente decisione del tribunale piemontese cambia prospettiva e, a parere di chi scrive, sia pure con un certo qual “eccesso di motivazione”, propone una soluzione più aderente al dato normativo.
Prendiamo le mosse dall’argomento meno convincente. Il giudice spende molte parole per giungere ad affermare che la condotta di accostare le espressioni «indagato» e «arrestato» alle generalità di un soggetto non darebbe luogo a una lesione della reputazione di costui. Senza entrare nel merito della questione, obiettivamente scivolosa, ci pare che altri siano i temi sui quali appoggiare la decisione. Temi che pure vengono toccati e ben illustrati e che consentono al tribunale di Pinerolo di escludere in radice qualsiasi responsabilità da parte di Google non solo nel caso in esame, ma anche in qualunque altro.
Vediamo quali sono. L’ordinanza in esame in primis contesta la sussistenza dell’elemento oggettivo della diffamazione, ovvero la lesione della reputazione del ricorrente. E lo fa sulla scorta di un’analisi davvero condivisibile del meccanismo di “aiuto alla ricerca” incriminato. La successione di parole che si formano automaticamente nella maschera di ricerca al momento della digitazione viene composta da un algoritmo (c.d. autocomplete) il cui funzionamento prevede appunto che quando vengono inserite lettere nell’apposita stringa, il sistema restituisca le ricerche più frequenti iniziate con la medesima combinazione di lettere. Le espressioni che ne derivano, dunque, non veicolano una affermazione, semmai attestano quali sono state le più frequenti interrogazioni rivolte al motore di ricerca. In questo senso documentano comportamenti collettivi e, anche qualora dalla associazione dei termini emergesse una frase di senso compiuto, la sua comparsa non veicola il messaggio relativo, ma si limita ad attestare la frequenza con cui essa è stata già composta dagli utenti precedenti.
Le descritte modalità di funzionamento del meccanismo in questione – precisate in una pagina del motore di ricerca, ma comunque notorie per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con internet – portano a escludere del tutto che la comparsa del messaggio, magari davvero diffamatorio se inserito all’interno di un contesto comunicativo, sia in grado di incidere sulla reputazione di chicchessia.
In seconda “battuta”, il tribunale ribadisce la esclusione della responsabilità della società resistente per i risultati del dispositivo di aiuto alla ricerca in virtù della disciplina contenuta nel d.lgs. n. 70 del 2003, in base alle regole della quale – in estrema sintesi – gli ISP non rispondono dei contenuti realizzati dagli utenti a meno che non abbiamo la consapevolezza della loro illiceità e non ne siano stati avvisati dall’autorità.
Queste ultime due osservazioni, come anticipato all’inizio, sono decisive e affidandosi ad esse – senza nemmeno addentrarsi nella effettiva idoneità lesiva del messaggio – il tribunale avrebbe potuto risolvere agilmente la questione sottoposta.
È in ogni caso assai importante che tali argomenti siano stati posti alla base di una decisione giudiziaria, in quanto entrambi sono in grado di fondare un indirizzo per futuri provvedimenti su analogo tema. Più precisamente, particolare interesse suscita l’osservazione secondo cui le espressioni generate dall’algoritmo autocomplete non sarebbero idonee, di per loro, a veicolare contenuti in grado di ledere la reputazione. Il percorso logico giuridico delineato dal giudice sembra cogliere nel segno e, se verrà seguito da altre decisioni nello stesso senso, potrebbe – a nostro avviso correttamente – escludere qualunque responsabilità dell’ISP per un messaggio che, qualunque sia l’espressione considerata, da un lato non costituisce una vera e propria affermazione riferita ad un soggetto, dall’altro, essendo originata da un comportamento collettivo, non sembra poter essere riconducibile alla società che gestisce il motore di ricerca e dunque ad essa rimproverata.
Appare corretto anche il riferimento alla applicazione al caso in esame della disciplina di cui al d.lgs. n. 70 del 2003, nonché l’interpretazione di detta normativa nel senso di non attribuire all’ISP alcuna colpa per i risultati dei suggerimenti di ricerca. Questi ultimi, infatti, come ricordato, non sono nient’altro che l’effetto di condotte diffuse da parte degli utenti, dunque volendoli considerate contenuti al pari di una qualunque altra manifestazione del pensiero, possono essere ritenuti opera degli utenti. Pure sotto questo profilo, quindi, una eventuale responsabilità non può essere ricondotta a Google.
Contrordine da Pinerolo: Google irresponsabile per i suggerimenti alle ricerche
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