Contro la retorica dell’anonimato sul web. A prima lettura del DDL Pagano

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Il mestiere di scrivere senza firma frutta magari denaro, ma non onore.
Poiché negli attacchi il signor Anonimo è senz’altro il signor Mascalzone, e si può scommettere cento contro uno che chi non vuol dire il suo nome ha intenzione di truffare il pubblico.
Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena, 1851

 

Lo scorso 24 ottobre è stata presentata una proposta di legge al Senato della Repubblica (atto n. 895 Senato) che mira a imporre un obbligo di identificazione degli utenti di social network. Si tratta di una proposta che merita attenzione non solo da parte dei giuristi, e che è destinata a riaccendere il dibattito sull’esistenza di un diritto all’anonimato sul web. Il disegno di riforma si inserisce nel contesto di una serie di iniziative registratesi negli ultimi mesi volte a contrastare il fenomeno della disinformazione in Internet. Iniziative che, tuttavia, come nel caso della proposta di legge “Gambaro” (disegno di legge n. 2688), hanno spesso tradito una scarsa dimestichezza con i principi che governano il funzionamento della rete e la responsabilità degli intermediari. La proposta di legge a firma del Sen. Pagano, invece, pare differenziarsi da questa maldestra linea di intervento, mantenendo intatti i principi (di derivazione europea) sul ruolo delle piattaforme. L’obiettivo della proposta è evitare che il web divenga una zona franca per la realizzazione di condotte illecite, in particolare in relazione a comportamenti che costituiscono diffamazione e incitamento o istigazione all’odio. Il disegno di riforma rappresenta una novità degna di nota perché tocca una corda assai delicata senza però dilatare l’area di responsabilità degli intermediari del web e alterare l’equilibrio nel rapporto tra utenti e piattaforme.

Il disegno di legge, infatti, si propone di modificare il decreto legislativo n. 70/2003 (noto anche come “Decreto E-Commerce”), che ha recepito in Italia la direttiva 2000/31/CE (nota anche come “Direttiva E-Commerce”), mediante l’inserimento di una nuova disposizione, l’art. 16-bis. Tale norma si colloca “a ridosso” delle regole sulla responsabilità dei fornitori di servizi Internet, e costituisce un nuovo obbligo in capo agli hosting provider, vale a dire i prestatori di servizi di memorizzazione permanente: quello, in particolare, di esigere dagli utenti che effettueranno dal 1° gennaio 2020 la registrazione sui social network la presentazione di un documento di identità. La proposta non pare priva di senso in un’epoca in cui l’esercizio della libertà di espressione in rete trascende spesso in comportamenti diffamatori, talvolta non privi di una rilevanza anche penale. E in uno scenario in cui tecniche come l’utilizzo di pseudonimi o il camuffamento della propria identità consentono ai responsabili di condotte illecite di sottrarsi alle relative conseguenze, rendendo difficoltoso per l’autorità giudiziaria risalire agli effettivi colpevoli.

Se si condivide l’assunto per cui l’anonimato non può costituire un ostacolo al perseguimento di reati e condotte comunque illecite, vi sono buone ragioni per guardare con attenzione alla proposta di legge in commento e al suo auspicabile iter di discussione nelle sedi parlamentari. E ciò non tanto perché il rimedio proposto possa rappresentare la soluzione di ogni male (sarebbe ardito crederlo) quanto piuttosto perché intercetta un punto nevralgico di quella che appare una battaglia di civiltà contro il ricorso all’anonimato come scudo contro la responsabilità.

In tempi recenti e meno recenti, il dibattito ha visto pronunciarsi diversi giuristi, su tutti il prof. Rodotà, che profetizzava il ricorso all’anonimato come precondizione per l’esercizio indisturbato e nella sua pienezza della libertà di manifestazione del pensiero da parte degli utenti. Non è un caso che la Dichiarazione dei diritti in Internet licenziata dal Parlamento italiano nel 2015, ideale lascito di Rodotà (che presiedette la Commissione deputata alla sua redazione), menzioni proprio il diritto all’anonimato all’art. 10. Queste riflessioni hanno fatto breccia nei cosiddetti “attivisti della rete” per divenirne oggetto di una speculazione assai strumentale volta a trasformare il diritto all’anonimato quale salvacondotto di ogni manifestazione di pensiero, finanche illecita.

Nonostante la posizione incline al riconoscimento dell’anonimato come diritto sia stata finemente argomentata, essa non sembra trovare ancoraggio nell’ordinamento e soprattutto pare superata dagli sviluppi che hanno caratterizzato il funzionamento del web.

Anzitutto, non si può negare che in epoche del passato l’anonimato abbia costituto una condizione per esprimere liberamente le proprie idee e opinioni contro l’oppressione dei governanti: tutt’altro che casuale che la pubblicazione di importanti opere letterarie sia avvenuta sotto l’uso di uno pseudonimo, onde sfuggire alla mannaia della censura. Deve tuttavia porsi in questione se il contesto dello stato costituzionale moderno ripeta le caratteristiche illiberali proprie di quelle esperienze così da giustificare l’uso dell’anonimato per manifestare il proprio pensiero. A chi scrive pare che a questo interrogativo debba offrirsi una risposta negativa, per una molteplicità di ragioni: prima fra tutte, perché lo stato stesso si fa garante del diritto individuale di esprimersi liberamente e senza soffrire interferenze pubbliche. Lo stesso diritto conosce poi ampia e variegata protezione a livello sovranazionale, non soltanto europeo. Se, dunque, la tutela della libera espressione è assicurata contro ogni arbitrio, vi è da domandarsi se l’avvento del web abbia prodotto mutamenti in grado di revocare in dubbio questo principio. Ancora una volta, il quesito non sembra meritare una risposta affermativa: a un’osservazione empirica, infatti, l’invenzione di Internet ha, al contrario, ampliato lo spazio pubblico per l’esercizio della libertà di pensiero, al punto forse da facilitarne l’abuso da parte degli utenti anziché alimentare derive censorie da parte dei governanti.

Queste osservazioni devono tenere in conto un altro aspetto ricorrente tra le argomentazioni di coloro che rivendicano una tutela ad hoc per i diritti in Internet (tra cui l’anonimato), vale a dire la necessità di predisporre un sistema di tutele da opporre non solo nei confronti dei potei pubblici ma anche dei nuovi attori privati metaforicamente indicati come “oligarchi del web”. In questa direzione si muovono, per esempio, le numerose carte dei diritti di Internet (Internet bill of rights) promosse nell’ultimo decennio, tra cui la già ricordata Dichiarazione dei diritti in Internet. Ebbene, se la preoccupazione dominante è che tali soggetti possano condizionare l’esercizio della libertà di espressione in rete, essa non può che dirsi infondata. Il principio su cui si regge il funzionamento delle piattaforme che ospitano contenuti condivisi dagli utenti, infatti, è l’assenza di un’attività e dunque di una responsabilità di tipo editoriale. Se tale attività sussistesse, gli intermediari che gestiscono le nuove “agorà virtuali” in cui si snoda l’esercizio della libertà di pensiero dovrebbero rispondere per i contenuti ivi pubblicati da terzi. Se ne evince come i “giganti del web” abbiano tutt’altro interesse che indulgere in forme di censura privata che ne trasformerebbero la fisionomia in quella di editori, con le conseguenze del caso. Emerge così come l’impostazione di coloro che hanno indicato nell’anonimato un presupposto di esercizio della libertà di espressione sul web sia stata verosimilmente condizionata da un pregiudizio: quello per cui a essere non virtuoso sarebbe perlopiù l’atteggiamento degli stati e dei giganti del web verso la libertà degli utenti, anziché l’esercizio di quest’ultima.

Da quali pericoli occorre dunque difendere la libertà di espressione sul web rispetto al suo esercizio nel mondo reale?

La stessa prospettiva emerge da altra angolazione: se si consentisse agli individui di esercitare la propria libertà di pensiero sul web in forma anonima, contrariamente a quanto avviene nel mondo reale, Internet finirebbe per assurgere a veicolo di impunità, in grado di assicurare una sostanziale immunità dalle conseguenze di condotte illecite, al punto di rappresentare una zona franca.

Questi argomenti sembrano confortare l’idea che l’anonimato non possa, a meno di situazioni eccezionali (cui potrebbero corrispondere tutele altrettanto eccezionali), vedersi riconosciuta protezione sul web. Anche a voler prescindere dall’interpretazione letterale del dettato costituzionale (che fa leva sull’art. 21 e sulla necessaria predicabilità soggettiva di un pensiero, qualificato come “proprio”), pur convincente e sostenuta in dottrina, ragioni di politica del diritto e di opportunità sembrano suffragare queste conclusioni.

Del resto, l’art. 21 della Costituzione offre più di un indizio a sostegno di un esercizio “a volto scoperto” della libertà di manifestazione del pensiero. Non soltanto, infatti, il primo comma sembra postulare una imprescindibile riconducibilità soggettiva dell’uso della parola, dello scritto o di ogni altro mezzo di diffusione; anche il comma 3 e il comma 5 depongono a favore di questa ricostruzione, laddove stabiliscono che la legge, rispettivamente, prescriva l’indicazione dei responsabili per le pubblicazioni a mezzo stampa e possa richiedere di rendere noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Se tali sono i motivi ispiratori confluiti nella norma cardine sull’esercizio della libertà di espressione, non pare francamente potersi ravvisare alcunché di illiberale nel pretendere dagli utenti una rinuncia “relativa” all’anonimato sul web.

Le considerazioni ora svolte cercano di spiegare perché la proposta contenuta nel disegno di legge in commento pare a chi scrive iscriversi in una direzione condivisibile rispetto al contrasto di attività illecite sul web. Queste riflessioni, in particolare, paiono utili per sgombrare il campo da ogni argomentazione che faccia leva in modo preconcetto sull’esistenza di un diritto all’anonimato.

Discorso diverso può ovviamente svolgersi per il merito specifico della proposta, sulla quale è possibile comunque anticipare alcune considerazioni, nella speranza che possa svilupparsi un dibattito proficuo nel prossimo futuro e sgombro dalla consueta retorica anarcoide che bolla quale paternalistico e anti-liberatorio ogni e qualsiasi intervento del legislatore sul web.

Anzitutto, il disegno di legge getta il proverbiale sasso nello stagno, provando a indicare un problema, ossia le difficoltà connesse all’accertamento dell’identità degli autori di condotte illecite sui social network. Non si vuole affermare che l’acquisizione di un documento di identità, come proposto, possa risultare un rimedio a prova di ogni elusione; tuttavia, pare un primo segnale nell’ottica di contrastare la proliferazione dei cosiddetti troll o di account fondati sul mascheramento di identità. Andrà, in quanto tale, confrontato con i rimedi che l’ordinamento pone a disposizione dell’autorità giudiziaria, al fine di misurare la sua concreta efficacia. Pare tuttavia che il tema non sia peregrino, come testimonia, pur su un altro versante, la recente proposta della Commissione europea di un regolamento per la circolazione di prove elettroniche mediante ordini di produzione e conservazione europei. È bene sottolineare che la previsione di un meccanismo di identificazione non serve a fini di giustizia privata ma intende agevolare la tutela giurisdizionale dei diritti (costituzionalmente tutelata) degli utenti, quando la rilevanza di determinate condotte online trascenda e travalichi i confini della mera contrarietà ai termini e alle condizioni d’uso dei social network.

Un secondo punto sul quale pare opportuno soffermarsi riguarda l’effettiva rinuncia all’anonimato e all’utilizzo di pseudonimi. Anche a voler ritenere che sussista un diritto a presentare in forma anonima il proprio pensiero, la sua tutela non sembra del tutto pregiudicata, dal momento che la proposta di legge non mira a impedire l’utilizzo di pseudonimi bensì a consentire l’identificazione del titolare del relativo account. Un “sacrificio” dell’anonimato sarebbe così imposto soltanto in via di eccezione, ove reso necessario dall’esigenza di tutelare altrui diritti offesi dall’esercizio della libertà di espressione, come per esempio l’onore e la reputazione. In altri termini, non si elimina un anonimato “protetto” ma soltanto un anonimato “totale”, tale da farsi ostacolo all’accertamento dei colpevoli di reati. Gli utenti potranno continuare a mascherare il proprio volto sulla “pubblica piazza” del web, ma non potranno pretendere di sottrarsi all’identificazione da parte del prestatore di servizi.

Un terzo aspetto merita la considerazione dei giuristi che avranno a confrontarsi con la proposta, ossia l’impatto sulla legislazione vigente. Non pare, a chi scrive, che l’introduzione di un obbligo di identificazione degli utenti in capo agli hosting provider contrasti con il diritto dell’Unione europea che regola la libera circolazione dei servizi della società dell’informazione. Si potrebbe, semmai, immaginare di circoscrivere per via “empirica” (per esempio, escludendovi i gestori di mercati online) l’ambito di applicazione soggettivo di tale obbligo, in considerazione della varietà degli attori che ricadono nel suo campo di applicazione.

Naturalmente, il disegno di legge in commento, come ogni proposta, si presta a correttivi e migliorie, oltre che al necessario confronto con la mediazione politica. Sarebbe bene, tuttavia, che il dibattito tra i giuristi non fosse inquinato da preconcette visioni dense di retorica sulla libertà degli utenti su Internet, per offrire al legislatore un contributo tecnico sgombro da considerazioni di diversa matrice. Diversamente, si correrebbe il rischio di una curiosa eterogenesi, per cui il momento della mediazione politica risulterebbe impropriamente anticipato al momento della valutazione tecnica. Nel bene, o nel male, insomma, la proposta appare come un avanzamento del dibattito, purché se ne parli. Possibilmente, a volto scoperto…

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About Author

Marco holds a PhD in Constitutional and European Law from the University of Verona (2016) and is a qualified lawyer in Milan (2013). He is an Emile Noël at the Jean Monnet Center for International and Regional Economic Law & Justice - New York University (School of Law). In 2010 he got his degree in Law (magna cum laude) from Bocconi University, Milan. He has been a visiting researcher at the Max Planck Institute for Comparative Public Law and International Law in Heidelberg (2012) and at the Max Planck Institute for Foreign and International Criminal Law in Freiburg im Breisgau (2012). His research interests include Constitutional Law, Information and Communication Law and EU Law.

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