Vendita all’asta di beni contraffatti, confermate in seconda battuta tutte le decisioni che hanno visto il sito di e-commerce eBay chiamato in giudizio da diversi colossi del lusso, come il gruppo Louis Vuitton e Tiffany. Orientamenti che si consolidano in lungo e in largo nel mondo, dagli Stati Uniti all’Europa. In gioco, nel primo ordinamento, la responsabilità per violazione diretta e indiretta del marchio; nel secondo, la responsabilità di un soggetto qualificabile, a seconda dei casi, come mero intermediario o come mediatore.
Al primo posto per numero di decisioni, la Francia. Storica quella del Tribunal de commerce de Paris (30 giugno 2008) che condannò il sito di aste on line (sia la holding americana eBay Inc. sia la svizzera eBay International Ag, che gestisce la piattaforma francese) al pagamento di circa 20 milioni a favore di Christian Dior Couture (e altri 20 a favore della società madre LVMH, con diverso provvedimento). Altra sentenza dello stesso tenore fu emessa a favore di Hermés (che ottenne un risarcimento di 20mila euro). La condanna fu motivata dalla non assimilabilità di eBay alla figura del provider mero intermediario che, secondo quanto disposto dalla direttiva sul commercio elettronico 2000/31/Ce, recepita in Francia con la legge 2004-575 (Loi pour la confiance dans l’économie numérique), non risponde delle informazioni trasmesse a meno che non dia origine alla trasmissione, non ne selezioni il destinatario e non selezioni né modifichi le informazioni trasmesse. La figura dell’auction provider fu assimilata invece a quella di un mediatore, perciò responsabile, causa la notorietà e il prestigio del marchio contraffatto (anche se da terzi), le commissioni che eBay percepisce su ogni vendita e non potendosi ritenere che il sito ignorasse le “informazioni trasmesse”, nella fattispecie la vendita di prodotti contraffatti tramite la propria piattaforma. Ne discese una responsabilità civile ai sensi degli artt. 1382 e 1383 del Code Civil. A nulla valse l’invocazione, da parte di eBay, della predisposizione di un programma di protezione a favore dei titolari di diritti di proprietà intellettuale (VeRO, Verified Rights Owner: grazie a questo sistema, oltre 2 milioni di inserzioni illecite sono state eliminate nel 2008).
A distanza di due anni, nel settembre 2010, la Cour d’Appel de Paris ha confermato le sentenze di primo grado con cui aveva condannato eBay a risarcire il gruppo Louis Vuitton (LVMH), modificandone esclusivamente l’importo da corrispondere (5,7 milioni di euro, anziché i 40 totali, di cui 2,7 a Christian Dior Couture). Negata nuovamente, quindi, la natura di intermediario del sito di aste on line, in direzione contraria all’orientamento affermatosi negli anni precedenti alla sentenza del 2008 e che considerava eBay alla stregua di un host provider.
Diversa l’impostazione del giudice americano Sullivan del Southern District di New York, che nel luglio 2008 – a soli sette giorni di distanza dalla decisione del Tribunal de Commerce de Paris – rigettò la richiesta avanzata da Tiffany & Co. in merito alla vendita, attraverso il sito, di gioielli contraffatti. La storica casa di gioielli contestava la violazione diretta ed indiretta del marchio secondo quanto disposto dal Lanham Act e dal diritto comune, nonché la dilution dello stesso secondo il Lanham e la New York General Business Law. Il giudice newyorchese non ha però ritenuto che tali richieste fossero sufficientemente sostenute da prove e che: la pubblicità relativa alla vendita di prodotti Tiffany sul sito eBay costituisse fair use; che eBay non fosse equiparabile ad un negoziante che metta in vendita prodotti contraffatti, perché eBay non prende visione né possesso degli oggetti venduti; che eBay ha immediatamente rimosso gli annunci contestati appena è stata informata da Tiffany; dal rifiuto di ricercare attivamente – e preventivamente – annunci riguardanti prodotti dell’azienda la legge americana non fa discendere alcuna responsabilità. Da ciò deriva che vigilare sulla eventuale contraffazione è compito di Tiffany, non di eBay, e non sussiste, secondo il giudice, intenzione di indurre i venditori a violare il marchio.
A tale decisione hanno fatto séguito una sentenza della U.S. Court of Appeals for the Second Circuit nell’aprile 2010 e poi, sette mesi dopo, in novembre, una decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti: la prima ha confermato la decisione del Southern District di New York, seguita a ruota dal rigetto (aprioristico), da parte della Supreme Court, dell’appello depositato da Tiffany.
Quelle che poco più di due anni fa apparivano come decisioni isolate, sembrano assumere oggi, alla luce di tali conferme, valenza di orientamento. Da segnalare, una sentenza 2009 che pare “mediana”: la United Kingdom High Court, in un procedimento simile a quelli già visti, non ha riconosciuto in capo ad eBay responsabilità per la vendita all’asta di prodotti L’Oréal contraffatti: non è stato ravvisato interesse di eBay a ospitare sul proprio sito la vendita di tali beni e numerose sono, secondo la Corte, le misure messe in atto dal sito d’aste per combattere il fenomeno. Allo stesso tempo, però, e questa riserva è l’accennata soluzione intermedia, ha rimesso alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee la dubbia questione relativa all’uso pubblicitario di parole chiave e link sponsorizzati (contenenti riferimenti a prodotti la cui originalità non è garantita) e ha esortato eBay a realizzare ulteriori filtri di protezione. Come a dire: “Potrebbe fare di più”.