Concentrazioni pericolose? Spunti per una riflessione.

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Akamai e pochi altri per i grandi network, Amazon per le vendite, eBay per le vendite fra privati, Google, Yahoo e Bing come search engine, Twitter e Facebook per il social networcking (ma anche Ming e LinkedIn), Flikr e Photobucket per il photo sharing, Youtube e Metacafe per i video.

Si tratta di una semplificazione, tuttavia, per quanto si allarghi il numero dei grandi player considerati per ciascuna categoria, rimaniamo quasi sempre sulla punta delle dita di una sola mano per descrivere il mondo degli operatori di rete.

Lasciando agli economisti il compito di comprendere le ragioni del fenomeno (idee innovative, economie di scala, fenomeni di lock-in ecc.), rimane il dato di fatto che milioni di persone, enti ed imprese si avvalgono di pochi fondamentali servizi per gestire la propria vita attraverso le reti informatiche.

Dietro dunque la facile esaltazione del pluralismo della rete si individua invece una forte aggregazione in capo a pochi soggetti di attività fondamentali nelle gestione, raccolta e trasmissione delle informazioni. Informazioni che in un contesto digitale costituiscono l’essenza stessa del sistema comunicativo.

C’è poi un ulteriore dato: questi soggetti hanno per lo più le proprie roccaforti situate negli Stati Uniti (anche qui il discorso sulle ragioni si amplierebbe a digressioni di tipo socio-politico oltre che tecnologico).

Il giurista guarda tradizionalmente a questi temi attraverso la lente del diritto della concorrenza, del diritto internazionale privato, del diritto sui dati personali, ecc. Non ci si può tuttavia esimere dall’assumere anche un diverso angolo visuale, più generale, orientato all’esame dei rapporti di forza che si sono creati e dell’incidenza che quest’ultimi hanno poi necessariamente nella risoluzione anche dei profili giuridici controversi.

Visti i tempi è facile richiamare il caso Wikileaks, ma potremmo anche pensare al nostrano caso Google ed alle osservazioni non propriamente “terze” provenienti dall’amministrazione statunitense. In un mondo globale interconnesso gli esempi non mancano, ma il dato comune che emerge mette in risalto la peculiare situazione in cui gli Stati Uniti, anche qui per ragioni storiche, conservano la leadership nella vita on-line.

Tale leadership non è di per sé un problema, almeno sino a quando imprese e potere politico agiscono secondo correttezza e democraticità. Tuttavia il potere assegnato nelle mani di pochi è molto, sia in termini di risorse strategiche, sia in termini di risorse informative, e, non da ultimo, di controllo politico-giudiziario.

La centralità delle reti informatiche per le attività di governo e d’impresa porta infatti a ponderare l’opportunità di lasciare in capo a pochi soggetti le funzioni vitali della comunicazione,  secondo una scelta che rende maggiormente esposti alle sventure tecniche (o finanziarie) degli stessi.

Secondariamente tali fenomeni di concentrazione hanno portato nelle banche dati di un limitato numero di società i flussi informativi del pianeta. Questo ha un impatto notevole sotto differenti aspetti. In primo luogo ci sono i rischi di accesso illegittimo ai dati, ipotesi non poi così peregrine e rare neppure nel contesto off-line. Lo scambio di informazioni riservate, il ricorso al cloud, l’impiego di sistemi di lavoro collaborativo canalizzano verso pochi una mole di dati, certamente tutelata con strumenti normativi e contrattuali, ma ciononostante di dimensioni prima ignote. Dimensioni che forse dovrebbero indurre a riflettere sull’adeguatezza di soluzioni pensate in un contesto caratterizzato da volumi decisamente inferiori.

I fornitori dei servizi, attraverso gli stessi, possono poi raccogliere ulteriori informazioni sugli utenti, in maniera più o meno anonima ed aggregata. Già si parla della possibilità predittiva dei sistemi di analisi dei social network. Anche su questo punto si è in presenza di forme di controllo e monitoraggio sociale ad amplissimo spettro e del tutto innovative, ma, a mio parere, non sufficientemente indagate né tanto meno adeguatamente regolate.

Con riguardo all’ultimo profilo, infine, per l’Europa, e le sue imprese, dipendere in maniera significativa da servizi made in USA, vuol dire fidarsi che i poteri di quella nazione si astengano da comportamenti antidemocratici, intrusivi, discriminatori, ma la storia non è sempre andata in tal senso. Oltre al fatto che la localizzazione negli USA comporta difficoltà nell’applicazione delle leggi comunitarie (salvo rocambolesche interpretazioni, v. Articolo 29-Gruppo di lavoro per la tutela dei dati personali, Tutela della vita privata su Internet – Un approccio integrato dell’EU alla protezione dei dati on-line –, Bruxelles, 21 novembre 2000, 30 s.) in relazione ad aspetti su cui la cultura giuridica delle diverse aree geografiche non risulta coincidere.

Da tutti questi temi si possono trarre sommariamente alcuni spunti per un principio di riflessione.

In primo luogo andrebbe rimeditato il framework regolamentare e, soprattutto, occorrerebbe sollecitare la nascita di organismi sovranazionali davvero indipendenti in grado di sorvegliare in maniera efficace e concreta sulla democraticità e sulla gestione del sistema. In secondo luogo, in un’ottica politica e di politica industriale, parrebbe opportuno che l’Europa investisse nello sviluppo di competenze autonome in maniera da renderla meno dipendente da Paesi terzi in un settore così strategico. Cosa succederebbe se domani vi fosse un black-out informativo o se qualche operatore optasse per il “be evil”? Specie in quest’ultimo caso davvero avremmo modo di accorgercene o l’asimmetria che caratterizza il controllo sui dati finirebbe per rendere anche difficile percepire l’alterazione, ad esempio, dei risultati di ricerca dei search engine?

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