La Repubblica popolare cinese continua a essere uno straordinario laboratorio per quanto concerne la censura della rete internet. Sin dalla commercializzazione di internet nel 1994, il governo ha fatto progressivamente cadere quella che sembrava essere una certezza: l’impossibilità, cioè, di regolare la rete e dunque qualsivoglia attività venisse svolta al suo interno. L’elemento principale che sembrava giocare a favore di questa impossibilità, la mancanza, cioè, di un ancoraggio territoriale, viene risolto dal governo con la creazione di una grande rete intranet, corrispondente all’intero territorio cinese. Il controllo dei punti di accesso consente un primo filtering e/o blocking di contenuti e informazioni oltre che di interi siti. Il Great Firewall si insinua così in maniera pervasiva nella vita di tutti gli internauti, filtrando, bloccando e registrando l’attività di ciascuno. La predisposizione poi, di particolari softwares, così come di una capillare rete di polizia informatica ufficiale e non, assieme a una stretta regolamentazione sull’acquisto di pc privati e sull’uso di quelli pubblici, completa il quadro del sistema repressivo di Stato.
L’efficacia della macchina censoria cinese non sta solo nella capillarità della sua azione, ma anche nell’effetto incredibilmente dissuasivo (o persuasivo) del suo funzionamento non continuo, one eye closed, one eye open. L’incertezza circa il funzionamento o meno del firewall, così come l’impossibilità di identificare con certezza in un membro della internet police un utente con cui ci si sta relazionando, funge da incredibile deterrente nei confronti dell’internauta medio che quindi, operando una scelta razionale sulla base di una valutazione costi-benefici, decide di non porre in essere un comportamento sanzionabile da parte del regime.
Per quanto il Great Firewall, avvantaggiandosi anche della tecnologica occidentale (inizialmente i routers Cisco), costituisca una muraglia non agevolmente aggirabile, VPN e altre cirmuvention technologies continuano a consentire a utenti decisamente esperti di abbandonare l’intranet nazionale e accedere così alla versione libera della rete. La possibilità di aggirare il frewall non deve però essere sovrastimata, per due ordine di motivi: il primo concerne la continua tensione tecnologica tra censore e censurato e il secondo la non democraticità delle cirmuvention technologies. Per quanto riguarda il primo motivo, non sfugge come concretamente sia una sfida tecnica a perfezionare sempre più da un lato la tecnologia censoria e dall’altro quella di aggiramento; più la prima diventa raffinata, meno agevole sarà per la seconda riuscire a produrre gli effetti desiderati in breve tempo; qualora questa riesca poi ad aggirare la censura, le tecniche censorie si perfezioneranno ulteriormente e così via. Relativamente invece al secondo profilo, che è strettamente interconnesso al primo, le cirmuvention technologies non hanno carattere democratico. L’internauta medio, infatti, o non ne conosce l’esistenza oppure non possiede quel know how informatico di base che possa consentirgli di utilizzarle e di farlo con successo. Indi per cui, è solo una percentuale limitata rispetto alle centinaia di milioni di internauti cinesi che può, ogni giorni, accedere all’internet libero.
In questo quadro, il 2016 ha portato un’upgrade dell’apparato repressivo, in un certo qual modo, però, meno sofisticata dal punto di vista tecnologico. Oggetto dell’intervento del censore è questa volta la telefonia mobile, in particolare alcune applicazioni di messaggistica istantanea, quali Whatsapp, Telegram e Skype, che tendenzialmente consentono di aggirare il grande firewall. Ciò che rileva in questo contesto non è necessariamente l’uso che l’utente fa delle summenzionate applicazioni, a prescindere dunque da che esso sia finalizzato o meno a porre in essere condotte illecite, quanto la loro semplice presenza nella memoria del dispositivo. La sanzione per quegli utenti che sono scoperti in possesso di VPN o di applicazioni di messaggistica istantanea non made in China è costituita dalla interruzione del servizio telefonico e dalla successiva rescissione del contratto. I providers di telefonia mobile procedono immediatamente in questo senso, senza comunicazioni ai propri clienti, salvo un generico rivolgersi alla autorità di pubblica sicurezza per ulteriori spiegazioni. La rimozione delle VPN e delle applicazioni incriminate pare al momento essere condizione necessaria e sufficiente per la riattivazione del contratto telefonico.
Non sono ancora chiarissime le varie fasi che portano alla individuazione delle presenza o meno delle applicazioni incriminate sullo smartphone, in particolare, il ruolo degli operatori di telefonia mobile. Ciò non deve stupire, considerando l’elevato livello di confusione che domina il settore della regolazione della rete, non solo a livello normativo –che difetta di una chiara gerarchia delle fonti –, ma anche di soggetti legittimati a intervenire. I vari livelli di governo e gli operatori di settore spesso si sovrappongono, senza alcun coordinamento, contribuendo ad aumentare la nebulosità della governance. Ciononostante, l’apparato censorio funziona sempre efficacemente. Ciò che è sicuro è che, a partire dal mese di gennaio, l’autorità di pubblica sicurezza, in occasione di un qualsiasi controllo, può pretendere la consegna dello smartphone.
Vediamo dunque ancora una volta come in un Paese dominato più dalla rule by law che dalla rule of law, ciò che rileva non è l’uso lecito o meno di una determinata applicazione o software, quanto invece la semplice presenza sulla memoria del dispositivo, sia esso fisso o portatile. Sussiste quindi non una presunzione di innocenza quanto una presunzione di colpevolezza. Del resto, è però piuttosto pacifico agli occhi del governo che quegli utenti che non intendano usare queste applicazioni non si premurano neppure di scaricarle.
Tuttavia, è un altro l’elemento che fa di questa nuova misura censoria – di per sé meno eclatante e “spettacolare” rispetto a tante altre che hanno catturato l’attenzione dei media occidentali – e cioè l’implementazione geograficamente selettiva della misura repressiva. Peraltro la natura stessa della misura repressiva è causa e conseguenza della zona di implementazione, la regione autonoma dello Xinjian Uigur, abitata dalla minoranza islamica degli uiguri. La regione si è sempre caratterizzata per un difficile rapporto con il governo centrale; la tradizionale diffidenza orientale per la non omogeneità etnica ha sempre portato a considerare gli uiguri come nemici, in quanto non han, oltre che di religione differente. L’appartenenza religiosa ha poi, negli ultimi quindi anni, rappresentato un ulteriore profilo che fa degli uiguri una minoranza da reprimere con particolare zelo. Lo stesso testo costituzionale, sin dal preambolo, è molto chiaro sul punto: «In the struggle to safeguard the unity of the nationalities, it is necessary to combat big-nation chauvinism, mainly Han chauvinism, and to combat local national chauvinism». La lotta allo sciovinismo nazionale, nello Xinjiang, passa anche attraverso la censura di internet.
È comunque da sottolineare che l’implementazione selettiva di interventi censori ancora in fase di sperimentazione non è una novità dell’anno 2016. Parimenti, non è una novità neppure la scelta dello Xinjian. La misura più drastica a cui è stata sottoposta la regione a seguito dei disordini del 2009 fu l’isolamento totale dalla rete di circa 6 milioni di utenti per oltre dieci mesi.
Il caso dello Xinjiang è fortemente emblematico in quanto salda due profili: quello della censura della rete con la lotta al dissenso interno (che, almeno nello Xinjiang, dall’11 settembre è mascherata come lotta al terrorismo di matrice islamica).
Questi due elementi, letti in combinato, portano a considerare le applicazioni di messaggistica istantanea per smartphones (anche se non sono limitati ad essi, Skype e Whatsapp sono per esempio disponibili anche per pc) come doppiamente minacciose, perché permettono di veicolare informazioni sovversive e perniciose per la sopravvivenza del regime e per l’aggancio che consentono con l’ampia rete jihadista mondiale (i recenti attentati di Parigi hanno dimostrato il rilevante ruolo di Telegram). L’uso di VPN e di applicazioni di messaggistica istantanea diventa così automaticamente non una generica espressione di attentato contro il regime ma di terrorismo.
La nuova misura repressiva è dunque ancora in fase di sperimentazione nel laboratorio uiguro. Rimane prematuro speculare su una eventuale sua estensione all’intero territorio della Repubblica popolare e questo principalmente per due motivi: non sono ancora disponibili dati sull’effettiva efficacia e la sua ragion d’essere è strettamente legata alla questione del terrorismo islamico.