La rete internet vive momenti difficili in Cina così come in tante altre realtà in cui le maglie della censura soffocano la tradizionale libertà della rete. Sono pochi i Paesi in cui il web non è sottoposto ad alcun tipo di controllo o a una forma molto blanda di censura (una efficacissima sintesi del panorama attuale della “libertà” della è visibile sul sito http://yuxiyou.net/open).
Sicuramente, la rete cinese è sottoposta a una censura pervasiva e capillare. Solo pochi altri Paesi sono caratterizzati da questo tipo di censura: Arabia Saudita, Cuba, Egitto, Iran, Siria, Tunisia (ma sicuramente dopo la caduta di Ben Alì anche l’assetto della rete è destinato a murate).
Tuttavia, la situazione cinese si è sempre distinta da quella di altri regimi autoritari che tengono la rete sotto il proprio giogo e questo per l’indubbia raffinatezza e articolazione del sistema.
Pechino censura la rete principalmente per tre ragioni, strettamente interconnesse le une con le altre: il mantenimento della sicurezza nazionale; la conservazione della stabilità politica; la difesa di valori tradizionali.
La libertà di espressione garantita dalla Costituzione cinese agli art. 35 e 41 Cost. si scontra quindi con tre grandi limiti che finiscono per comprimerne il godimento. Se infatti l’art. 41 non solo non richiama la possibilità di incorrere per i cittadini cinesi in una censura né preventiva né successiva, ma individua come unico limite il divieto di costruire e alterare i fatti allo scopo di diffamare o creare montature, ci pensa l’art. 51 a rendere quasi lettera morta i diritti appena enunciati, affermando come il godimento degli stessi non sia assoluto, ma non debba «infringe upon the interests of the State, of society, and of the collective, or upon the lawful freedoms and rights of other citizens». Ma anche gli art. 52 e 53 non sono da meno; secondo l’art. 52, dedicato all’unità dello Stato, le autorità cinesi possono riservarsi di sanzionare e censurare qualsiasi espressione, scritta o orale, che ritengano minare l’unità e l’integrità della nazione; parimenti l’art. 53, dove si fa obbligo ai cittadini di proteggere la Costituzione e la prosperità pubblica e di mantenere i segreti di Stato. Va poi aggiunto come la divulgazione dei segreti di Stato a organizzazioni, enti o individui stranieri è punita anche dall’art. 111 c.p.
Se le disposizioni costituzionali si caratterizzano per la vaghezza e l’assoluta genericità dei limiti che vengono a porre in essere, non diversamente la legislazione di dettaglio che non solo non circoscrive i limiti espressi dalla Carta, ma si rivela ancora più restrittiva e pregiudizievole per la libertà di espressione e di stampa. La discrasia tra Costituzione e fonti subordinate è un fenomeno tipico (oltre che, naturalmente, patologico) dell’ordinamento cinese, accresciuto, e anche consentito, dal fatto che manchi una qualsiasi forma di judicial review, indi per cui la Costituzione cinese è correttamente definita come silente o dormiente.
Stante dunque questo quadro, i margini di autonomia dell’internet cinese sono alquanto limitati; l’autorità di pubblica sicurezza è infatti autorizzata a intervenire capillarmente su ogni forma di espressione, dai blog, ai forum, alle chat, ai motori di ricerca, ai siti di ONG, di partiti politici, di informazione.
Il governo di Pechino sente quindi la necessità di impedire che il web diventi un mezzo di opposizione al regime, per cui il suo obiettivo è la censura di contenuti e informazioni.
Sicuramente internet si è subito qualificato, in virtù delle sue caratteristiche tecniche, differente rispetto ai tradizionali mezzi di comunicazione, soprattutto per un doppio ordine di motivi: perché è il primo mezzo di comunicazione che offre una sorta di arena per la libera e diretta espressione di ogni individuo e perché riesce a garantire in maniera decisamente più efficace l’anonimato dei soggetti che esercitano la propria libertà di espressione. Ciò non ha comunque impedito alla censura cinese di professionalizzarsi e di diventare veramente incisiva. A dispetto, infatti, di quanto comunemente affermato in merito alla non governabilità della rete, Pechino è riuscita a governarla con risultati sorprendenti, risultati di cui il governo – sotto certi profili anche non a torto – se ne fa un vanto.
Il corpus regolamentare atto a disciplinare e a censurare la rete internet è estremamente complesso e articolato.
La disciplina degli ISPs e degli ICPs configura un controllo sui contenuti mediato in due tempi. Vi è infatti un controllo ex ante su ISPs e ICPs tramite il meccanismo della licenza, internet providers che poi a loro volta sono incaricati di vigilare su notizie e informazioni che circolano in rete (controllo ex post). D’altro canto, però, l’efficace macchina cinese ha messo in atto anche una forma di controllo diretto, proprio perché, servendosi dei mezzi che la tecnologia informatica mette a disposizione – in particolar modo il potente golden shield, il firewall nazionale noto come la Grande Muraglia Digitale – interviene istantaneamente per reprimere e impedire la violazione della regolamentazione in materia di informazioni proibite: esso si esplica nel monitoring, nel filtering e nel blocking.
La Grande Muraglia è sicuramente la soluzione censoria che più soddisfazioni ha dato al governo.
Essa opera tramite: il blocco dell’indirizzo IP di un sito; DNS filtering and re direction; DNS poisoning; l’URL filtering; il packet filtering e il reset della connessione.
A conclusione dell’annata 2010, il capo del Dipartimento per la propaganda, Wang Chen, ha tracciato un bilancio sull’attività della Grande Muraglia, rilevando come essa abbia contributo in maniera sostanziale a migliorare l’ambiente on line. Naturalmente il termine ‘migliorare’ va letto nell’accezione cinese, nel senso quindi di “ripulire” il web da contenuti dannosi per il popolo, rectius, scomodi per il governo.
Stando ai dati rilasciati dalle autorità, nel 2010 la Grande Muraglia ha consentito il monitoraggio di ben 1.79 milioni di siti internet, monitoraggio che ha portato alla eliminazione dalla rete di qualcosa come 350 milioni di informazioni (immagini, articoli, files audio e video).
Tendenzialmente i siti su cui si abbatte la mannaia censoria sono quelli di informazione (blog in particolare) o dedicati a argomenti politici sgraditi al regime (in particolare le questioni del Tibet e dei diritti umani), ma nell’ultimo anno nell’agenda governativa ha fatto il suo ingresso la lotta alla pornografia e alla pirateria digitale.
Le stime ufficiali parlano di circa 65 mila siti pornografici chiusi, 5 mila persone accusate di aver diffuso materiale pornografico e 58 gestori condannati a 5 anni carcere.
Sicuramente più curiosa risulta la seconda “crociata”, quella dedicata alla pirateria digitale. La Cina è infatti considerata, certamente non a torto, come la patria della pirateria, non solo digitale. Lo stesso governo non si è mai particolarmente interessato alla disciplina della pirateria digitale, preferendo concentrare i suoi sforzi sul controllo ideologico della rete. Le fonti del Ministero della cultura dichiarano di aver già individuato 237 siti colpevoli di violazione del copyright e di questi di averne già chiusi circa un terzo. La lotta alla pirateria digitale, musicale in particolare, è dunque uno dei nuovi, principali obiettivi della censura. Tuttavia, la chiusura dei siti colpevoli è da considerarsi come una extrema ratio; il governo preferisce infatti offrire ai siti in questione la possibilità di rientrare nella legalità ponendo immediatamente fine all’attività illecita e chiedendo una autorizzazione per poter continuare l’attività in rete. Seppure quindi la lotta cinese alla violazione del diritto d’autore è ancora piuttosto recente, è indubbio che se ad essa sarà applicato lo stesso rigore adottato per le censura ideologica non potrà che rivelarsi anch’essa molto efficace.