Paolo Grossi nel descrivere l’esperienza della legalità costituzionale nel diritto moderno, in un discorso di qualche anno fa in occasione della chiusura dall’anno accademico dell’Accademia dei Lincei, sviluppando le intuizioni contenute in un suo fortunato volume (Mitologie giuridiche della modernità, Milano 2007), rilevava come “[…] le cosiddette ‘carte dei diritti’, espressioni fedeli del primo costituzionalismo sei-settecentesco, nella loro struttura di cataloghi di diritti, indicano con precisione il carattere garantistico delle studiatamente ricercate fondazioni giusnaturalistiche”, ed ancora, riferendosi all’esperienza giuridica citata, non mancava di sottolineare come: “Tutto si misurava […] non su uomini in carne ed ossa, ma su modelli disincarnati, su soggetti virtuali più simili a statue museali che a creature viventi. Il vizio stava soprattutto nella astrattezza del paesaggio disegnato, un vizio che costituiva il perno essenziale di una occhiuta strategia, diventando un pregio inestimabile per conseguire in modo indolore una precisa finalità. Il lavorare su modelli astratti permetteva, infatti, di dare a ciascuno il lievito della speranza lasciando intatte le disuguaglianze economiche e sociali del mondo presente”.
Dalla lettura della “Dichiarazione dei diritti in Internet” elaborata dalla c.d. “Commissione Boldrini” insediata presso la Camera dei Deputati prima dell’estate, il rischio che si stia tratteggiando un paesaggio astratto, non sembra poter essere escluso.
La Dichiarazione elaborata da una Commissione composta da una rappresentanza parlamentare e da una componente di tecnici/esperti della materia, è attualmente, e lo sarà fino al 27 febbraio 2015, sottoposta a consultazione pubblica sulla piattaforma CIVICI, non prima di essere stata comunque presentata in sede europea, come la risposta italiana al brasiliano Marco Civil, in occasione di una riunione interparlamentare tenutasi lo scorso mese di ottobre.
Non è ragionevole dubitare sulle intenzioni, senza dubbio meritorie, che hanno animato l’iniziativa, che almeno auspicabilmente è destinata a ravvivare il dibattito pubblico anche in Italia su temi centrali sotto tanti punti di vista (seppure i risultati in termini di partecipazione in queste prime settimane di consultazione non appaiono entusiasmanti). Ma l’impressione complessiva che si coglie è quella di un documento statico e rivolto a cogliere solo una faccia (la dimensione individuale) di quel meraviglioso prisma che è rappresentato dalla rete internet.
In questo breve contributo non ci si soffermerà su due aspetti pure rilevanti ai fini di una valutazione complessiva della Dichiarazione, vale a dire la sua forza giuridica e la tecnica normativa utilizzata, aspetti già puntualmente sviscerati da Marco Bassini in una recente analisi. L’intento del presente contributo è, infatti, piuttosto quello di rintracciare ciò che manca nella Dichiarazione, nel tentativo di offrire taluni spunti di riflessione nella consultazione in corso.
1. Internet come strumento di organizzazione e partecipazione
Come anticipato, la bozza di Dichiarazione sembra cogliere in via esclusiva la rete internet in una dimensione individuale, quasi intimistica, elencando un set di diritti “riconosciuti” ai cittadini della rete, la maggior parte dei quali, occorre avvertire, come pure rilevato dal Bassini, risultano già da tempo presenti nell’esperienza giuridica positiva europea e nazionale.
Infatti, dei 14 articoli che compongono la Dichiarazione ben 12 si riferiscono alla dimensione individuale fotografando una serie di diritti riconosciuti in capo ai cittadini in rete (si va dal diritto all’oblio, al diritto all’educazione digitale, al diritto di accedere ad una rete neutrale), mentre i restanti 2 si possono considerare come di carattere ordinamentale o programmatico (il riferimento è all’articolo 12 sulla “Sicurezza in rete” e all’articolo 14 recante “Criteri per il governo della rete”).
Eppure nel preambolo della Dichiarazione non mancano puntuali riferimenti al ruolo della rete quale motore per nuove forme di organizzazione sociale e politica, nonché quale strumento per una più diretta partecipazione dei cittadini alla vita democratica, in un periodo peraltro connotato da un progressivo restringimento degli ambiti di rappresentanza politico-sociale ai più vari livelli.
In tale direzione, nel preambolo si afferma come da un lato, internet “ha ampliato le possibilità di intervento diretto delle persone nella sfera pubblica” e, sotto altro e concorrente profilo avrebbe “[…] consentito lo sviluppo di una società più aperta e libera”. Infine, sempre secondo gli estensori della Dichiarazione, internet si configura come “[…] uno strumento essenziale per promuovere la partecipazione individuale e collettiva ai processi democratici […]”.
Da tali premesse ci si poteva ragionevolmente attendere l’introduzione nel corpo della Dichiarazione di disposizioni volte quantomeno a “fotografare” la realtà e la dimensione sociale della rete, se non a introdurre obbligazioni positive a carico dei pubblici poteri.
Sotto il primo profilo considerato sarebbe auspicabile, pertanto, che nella versione finale della Dichiarazione fosse dedicato uno spazio adeguato al riconoscimento della piena dignità delle organizzazioni sociali e politiche che svolgono le proprie attività in rete o partendo dalla rete, riempiendo di contenuto e specificando le garanzie già implicite nel nostro ordito costituzionale (il riferimento non può che essere all’articolo 2 della nostra Carta fondamentale).
In un’ottica promozionale e venendo al secondo profilo evidenziato, la versione finale della Dichiarazione potrebbe contenere disposizioni volte a declinare nuovi diritti di partecipazione in rete, attraverso la previsione di obblighi positivi a carico delle istituzioni pubbliche. In tale direzione potrebbero essere previsti impegni a carico delle istituzioni nazionali e locali di prevedere forme di consultazione obbligatoria anche online, in relazione all’adozione di decisioni strategiche per la popolazione in quanto incidenti direttamente o indirettamente sull’esercizio e la protezione di diritti fondamentali e sociali (salute, sicurezza, informazione etc.).
2. Il ruolo dei provider e l’articolo 11 della Dichiarazione
Accanto ai correttivi sopra proposti, e sempre nel tentativo di giungere ad una Dichiarazione che, per quanto possibile, sia in grado di cogliere la complessità della rete e dei suoi protagonisti oltre che di valorizzarne gli aspetti promozionali, appare opportuno integrare l’articolo 11 recante “Diritti e garanzie delle persone sulle piattaforme[1]” prevedendo specifiche garanzie anche in favore delle c.d. “piattaforme” nei confronti dei pubblici poteri.
Nell’ottica di migliorare la disposizione citata, sarebbe auspicabile anzitutto definirne con maggiore precisione l’ambito di applicazione soggettivo. Il riferimento alle “piattaforme” oltre che a-tecnico (considerando che nessuna disposizione normativa vigente parla di piattaforme ma piuttosto il riferimento è rivolto a access, caching e hosting provider), appare, infatti, eccessivamente generico non consentendo una precisa individuazione dei soggetti tenuti al rispetto degli obblighi previsti.
Sempre in quest’ottica occorrerebbe definire con maggiore precisione cosa si intende per fornitori che prestano “[…] servizi essenziali per la vita e le attività delle persone”. Sul punto è agevole, anzitutto, considerare come la previsione attuale della norma sembra porre sullo stesso piano un valore supremo come la vita umana con altri valori che pure possono essere insiti nello svolgimento delle “attività” umane.
Inoltre nell’ambito di tale definizione, se questa fosse stata l’intenzione originaria degli estensori, sarebbe opportuno utilizzare la congiunzione disgiuntiva “o” piuttosto che la congiunzione coordinativa proposta nella versione in consultazione, considerando che, ad esempio, potrebbe essere auspicabile garantire l’interoperabilità di un servizio di posta elettronica che certamente non appare essenziale per la “vita” delle persone, ma lo è o lo può essere con riferimento alle attività esercitate dalle stesse.
Oltre alle imprecisioni testé evidenziate, la norma in commento appare carente anche sotto il profilo del riconoscimento del ruolo svolto dai provider nelle dinamiche di funzionamento della rete. Non è, infatti, revocabile in dubbio che prima che dalle istituzioni pubbliche l’attuale architettura della rete e il successo del suo sviluppo siano stati dovuti essenzialmente alle intuizioni dei grandi player globali che hanno, nel tempo, plasmato internet come la conosciamo oggi. Tale considerazione, da non intendersi come un giudizio di valore in relazione alle caratteristiche delle rete oggi (aperta, libera, scalabile?), quanto piuttosto come una mera fotografia dell’attuale, dovrebbe indurre ad inserire nel corpo della Dichiarazione, non solo obblighi variamente modulati, ma il riconoscimento del ruolo svolto da tali soggetti, nonché precise garanzie in favore degli stessi nelle relazioni con i pubblici poteri.
Anche sotto tale profilo il c.d. Datagate può insegnare molto: in assenza di precise garanzie in favore dei provider gli stessi sono destinati/obbligati a concorrere, consapevolmente o meno, negli attentati ai diritti fondamentali che pubblici poteri possono porre in essere per il perseguimento delle più varie finalità.
Facendo tesoro, dunque, e sviluppando anche le acquisizioni cui è giunta di recente la Corte di Giustizia dell’Unione europea (il riferimento è alle sentenze gemelle SABAM del 2012/2013), sarebbe opportuno integrare la disposizione in commento prevedendo accanto agli obblighi previsti nella versione in consultazione anche precise garanzie in favore dei players della rete.
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La breve analisi sopra condotta, nel tentativo di mettere in luce le principali mancanze della Dichiarazione sottoposta a consultazione, non vuole essere una critica senza proposta, ma piuttosto uno stimolo a non ridurre quest’iniziativa meritoria ad ennesimo strumento idoneo ad alimentare il “lievito della speranza”, piuttosto che a cogliere la complessità della rete, cogliendo e valorizzando le opportunità che la stessa offre in termini sociali oltre che individuali.
[1] La disposizione citata prevede che: “I responsabili delle piattaforme digitali sono tenuti a comportarsi con lealtà e correttezza nei confronti di utenti, fornitori e concorrenti. Ogni persona ha il diritto di ricevere informazioni chiare e semplificate sul funzionamento della piattaforma, a non veder modificate in modo arbitrario le condizioni contrattuali, a non subire comportamenti che possono determinare difficoltà o discriminazioni nell’accesso. Ogni persona deve in ogni caso essere informata del mutamento delle condizioni contrattuali. In questo caso ha diritto di interrompere il rapporto, di avere copia dei dati che la riguardano in forma interoperabile, di ottenere la cancellazione dalla piattaforma dei dati che la riguardano.
Le piattaforme che operano in Internet, qualora si presentino come servizi essenziali per la vita e l’attività delle persone, favoriscono, nel rispetto del principio di concorrenza, condizioni per una adeguata interoperabilità, in presenza di parità di condizioni contrattuali, delle loro principali tecnologie, funzioni e dati verso altre piattaforme”.