Google ottiene il brevetto per i doodle, le variazioni sul logo che celebrano le ricorrenze di artisti, scienziati, personaggi dei fumetti e feste nazionali. Ma a cosa serve?
Tra i molti brevetti insoliti, bizzarri e a volte anche molto stupidi riconosciuti dalle istituzioni preposte alla proprietà intellettuale da qualche giorno c’è anche quello ottenuto da Google per i suoi doodle (http://tools.patentcalls.com/patent/07912915), che potremmo definire ‘variazioni sul logo’.
Doodle in italiano vuol dire scarabocchio, ghirigoro, definisce quei disegni fatti in automatico mentre si parla con qualcuno al telefono o in una riunione, senza prestare attenzione a quel che si traccia con la penna. La versione digitale dei doodle è stata realizzata da Google che da tempo scarabocchia il proprio logo in occasione di ricorrenze speciali, festività. I google doodle si adattano alle versioni locali del motore di ricerca e celebrano le date più importanti di un Paese. Nella trasposizione del significato analogico a quello digitale si perde quindi la casualità del ghirigoro e rimane solo la medesima connotazione di cosa da poco, giochetto o scherzo grafico.
Il primo googledoodle (http://www.google.com/logos/googleburn.jpg) risale a fine agosto del 1998, quando Brin e Page, i futuri fondatori dell’azienda (che nacque il 4 settembre dello stesso anno), annunciarono agli utenti del loro motore di ricerca la loro assenza in occasione del Burning Man Festival aggiungendo al logo – all’epoca scritto con caratteri diversi e col punto esclamativo finale in stile Yahoo! – il simbolo del festival. Un modo arguto di segnalare che in caso di crash dei server di Google, non ci sarebbe stato nessuno a ripristinare il servizio fino al giorno successivo.
Da allora ne sono comparsi centinaia e i doodle sono diventati un segno distintivo dell’home page del motore di ricerca più usato nel mondo. Un simpatico diversivo per rinforzare la memoria collettiva, ricordando agli utenti del web che era esistito qualcuno chiamato Nikola Tesla, che era la giornata mondiale dell’ambiente, che anni prima qualcuno aveva lottato per la libertà, e chi era Turing. E allo stesso tempo un modo per diffondere la cultura pulp, geek e un po’ hippie di cui Brin e Page sono ammantati (vedi per l’appunto il Burning Man Festival http://www.burningman.com/), mescolando l’anniversario dei Flintstones con le Olimpiadi, il giorno della marmotta con la dichiarazione d’indipendenza Usa, Will Eisner con Contantin Brancusi.
E invece no, né l’uno né l’altro. A leggere il titolo della domanda di brevetto, richiesta formalmente da Sergey Brin, si capisce che l’invenzione (?!) riguarda un “Sistema o metodo per attirare l’utente a un sito”. Il sito è quello di Google in cui risiedono le informazioni sul doodle, e che l’utente è indotto a raggiungere cliccando sul doodle. Da questo punto di visto il doodle meglio riuscito è stato quello dedicato ai 30 anni di Pac-Man, ricorrenza per cui è stata creata una versione del logo che non solo si intonava alla grafica dell’arcade game anni ’80 ma che diventava un campo di gioco vero e proprio, con diversi livelli di difficoltà. Milioni di click in poche ore e un successo così duraturo da convincere Google a farne un min-isito permanente (http://www.google.com/pacman/).
Che i singoli doodle siano protetti dal copyright è legittimo, alcuni sono davvero belli e sicuramente hanno tutti i crismi di un’opera creativa, ma richiedere una tutela per l’idea che ne sta alla base sembra abbastanza assurdo. L’idea che consiste nella modifica del logo in base a eventi precisi e il cui scopo è attirare gli utenti a un sito. Sarebbe come chiedere il brevetto sulla presenza di corpi discinti – rigorosamente presentati in fotogallery interminabili – nelle homepage dei quotidiani come sistema o metodo per attirare il lettore sulle pagine interne.
Un eccesso di avidità di Brin e Page? Dei nuovi Brin e Page, quelli post quotazione in borsa e pressioni degli azionisti per protegge in tutti i modi il patrimonio, prevalentemente intellettuale, dell’azienda? La spiegazione non regge perchè la domanda di brevetto è stata depositata dieci anni fa, quando Google non era ancora la grande G, e doveva molto del proprio appeal sugli utenti all’incarnare il motto aziendale don’t be evil. Si trattava invece evidentemente di business as usual, o business greed as usual: un’azienda in crescita esponenziale che cercava come tutte le altre di tutelare tutto il tutelabile, e anche di più. Uno di quei tentativi pleonastici di difendere ogni asset, anche e soprattutto quelli potenziali, futuri. E chi sa che commercialmente alla fine il brevetto non comporti un guadagno per Google? In fondo presentare la domanda è costato solo millecinquecento dollari.
Resta il fatto che questo, come la richiesta di trademark per l’app store di Apple e le molte altre domande oscene presentate agli uffici marchi e brevetti, non sembra incarnare lo spirito della tutela della proprietà intellettuale. Questa è un’idea, e non basta a renderla invenzione il fatto che per realizzarla sia necessaria una tecnologia (il link, il software per creare l’immagine etc). È per domande come questa che gli uffici preposti sono congestionati e non riescono a decidere in tempi decenti se rilasciare il brevetto o meno. Il fatto che Brin abbia atteso dieci anni per vedersi riconosciuta la tutela rende ancora più assurda la vicenda. Se qualcuno avesse voluto fare suo l’idea dei doodle avrebbe tranquillamente potuto farlo in questo periodo.
Un brevetto che non ha i connotati dell’invenzione, ma dell’idea, che non sembra particolarmente utile, che non contribuisce al progresso della civiltà nemmeno disvelando i dettagli dei googledoodle, svelamento che dovrebbe essere il contraltare all’esclusione dei diritti di sfruttamento e dell’uso dell’idea da parte di altri per un determinato periodo di tempo. Non svela perché non ha nulla nulla da svelare in realtà. E purtroppo è solo uno dei tanti.