Con sentenza n. 210/2015, depositata lo scorso 29 ottobre, la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 5, del D. Lgs. n. 177/2005 (“Testo Unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici”), che prevede l’applicazione ai canali televisivi a pagamento di tetti di affollamento pubblicitario inferiori rispetto a quelli che si applicano ai canali in chiaro. La Corte ha considerato conforme a Costituzione la norma in questione, che consente ai canali in chiaro di tramettere più pubblicità tabellare rispetto ai canali pay.
L’articolo oggetto di giudizio, introdotto nel Testo unico dall’art. 12 del decreto Romani (D. Lgs. n. 44/2010), contiene delle disposizioni più severe, in materia di limiti all’affollamento pubblicitario televisivo, rispetto a quelle previste dalla direttiva 2010/13/UE. A differenza della normativa europea, infatti, è prevista una differenziazione di soglia pubblicitaria a seconda che il canale televisivo sia trasmesso in chiaro o a pagamento: i canali a pagamento possono dedicare alla pubblicità fino a un massino del 12% di ogni ora, mentre il limite orario per i canali in chiaro è pari al 18%.
Uno dei canali a pagamento editi da Sky Italia S.p.A. ha superato il limite del 12%, restando però al di sotto del tetto orario del 18% previsto che le emittenti in chiaro. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha irrogato a Sky la sanzione pecuniaria prevista per tale infrazione e Sky ha impugnato davanti al TAR Lazio il provvedimento sanzionatorio.
Il TAR Lazio, nel 2012, si è rivolto in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia per sapere se limiti di affollamento differenziati per le emittenti a pagamento e in chiaro siano compatibili con il principio di parità di trattamento e con la libertà e pluralità dei media. Con sentenza del 18 luglio 2013 in causa C-234/12, la Corte di Giustizia ha affermato che la normativa italiana sulla pubblicità televisiva, nel prescrivere limiti orari di affollamento pubblicitario più severi per le emittenti televisive a pagamento rispetto a quelli stabiliti per le emittenti in chiaro, è conforme al diritto dell’Unione, a patto che il giudice di rinvio verifichi che sia stato rispettato il principio di proporzionalità.
La sentenza della Corte di Giustizia ha sottolineato che, nel settore dei media audiovisivi, il legislatore nazionale si trova dinanzi il contemperamento di due distinti interessi: il primo, quello delle emittenti televisive, che ha carattere finanziario; il secondo, riguardante quella particolare categoria di consumatori che sono i telespettatori. La Corte ha ritenuto che la differenziazione dei limiti di affollamento pubblicitario tra emittenti in chiaro ed emittenti a pagamento, lungi dal violare il principio di eguaglianza, risulti essere giustificata alla luce della diversa “incidenza economica” che il finanziamento pubblicitario può avere in caso di emittenti in chiaro, eroganti un servizio a titolo gratuito, rispetto alle emittenti a pagamento: “ne consegue che, nel ricercare una tutela equilibrata degli interessi finanziari delle emittenti televisive e degli interessi dei telespettatori nel settore della pubblicità televisiva, il legislatore nazionale ha potuto stabilire, senza violare il principio della parità di trattamento, limiti diversi all’affollamento pubblicitario orario a seconda che si tratti di emittenti a pagamento o di emittenti in chiaro”.
Dopo la pronuncia della Corte di Giustizia che confermava la legittimità comunitaria della norma in questione, il TAR Lazio, con ordinanza del 17 febbraio 2014, ha sollevato questione di legittimità costituzionale davanti alla Corte Costituzionale.
Anche la Corte Costituzionale ha ritenuto che l’art. 38 sia legittimo, in quanto realizza un equilibrato contemperamento degli interessi delle emittenti televisive e degli interessi dei telespettatori.
Partendo da questa considerazione, la Corte Costituzionale ha esaminato i tre punti di doglianza del TAR Lazio e di Sky, giudicandoli tutti non accogliibili, sebbene per motivazioni diverse.
La questione posta in riferimento all’art. 3 Cost. (uguaglianza e ragionevolezza) è stata dichiarata inammissibile, in quanto l’accoglimento avrebbe avuto come risultato il venir meno di ogni limite di affollamento per le emittenti pay. Questo esito, paradossalmente, aggraverebbe la disparità di trattamento.
Con riferimento all’art. 41 (libertà economica), invece, la questione è stata dichiarata infondata, in quanto, sebbene l’art. 38, comma 5 imponga una limitazione della libertà d’impresa delle emittenti a pagamento, tale limitazione è giustificata dalla tutela dei consumatori, oltre che da finalità di tutela della concorrenza e del pluralismo.
L’ultimo punto di doglianza, infine, riguarda l’eccesso di delega: il Governo, nell’introdurre l’attuale testo dell’art. 38, comma 5, sarebbe andato al di là della delega che gli era stata conferita dal Parlamento, con conseguente violazione dell’art. 76 Cost. La Corte Costituzionale ha ritenuto anche questa questione infondata, sulla base di quanto stabilito dalla Corte di Giustizia sulla ratio della disciplina in esame: secondo la Consulta il legislatore ha attribuito al Governo uno spazio di intervento molto ampio in relazione al recepimento della direttiva, autorizzando non solo l’adozione delle modifiche “occorrenti”, ma anche di quelle “opportune”. Inoltre, per costante giurisprudenza della Corte, i principi della direttiva si aggiungono alla legge nazionale nel disegnare i confini della delega. La direttiva prevede un obiettivo di armonizzazione minimale e consente agli Stati membri di stabilire norme più particolareggiate e quindi anche tetti di affollamento pubblicitario più rigorosi.