I social network sono sempre più di frequente utilizzati non solo a livello personale, e quindi per mantenere vivi i propri rapporti interpersonali, ma anche a livello aziendale, per guadagnare nuovi clienti e interagire con essi. Chi dunque usa Twitter tutti i giorni per motivi personali non ha sicuramente mai pensato che ciascun suo tweet possa avere un valore economico, così come la sua lista di followers. E, in effetti, il valore economico di un account personale è assolutamente risibile, ma questo discorso non può essere applicato alle aziende per cui i social network sono un mezzo per condurre campagne di marketing e implementare i propri introiti. Da qui al sostenere, seppure senza una base giuridica, che una lista di followers di un account aziendale abbia un valore economico e sia quindi di proprietà dell’azienda il passo è breve.
Il quesito giuridico che si origina da questa considerazione riguarda la possibilità per una azienda di rivendicare la proprietà dell’account di un proprio dipendente e, nel caso, quali possano essere le conseguenze concrete per i dipendenti che usano i propri account sui social networks sempre di più nelle ore di lavoro. Su questo è stata chiamata a decidere la California District Court.
Il caso sottoposto all’attenzione della Corte riguarda la cessazione di un rapporto di lavoro tra un blogger, Noah Kravitz, e il sito per cui lavorava, PhoneDog.com (www.phonedog.com), a prima vista, dunque, niente di eccezionale. Eppure, la particolarità del caso emerge nel fatto che Kravitz si è portato con sé il suo “portafoglio” di 17 mila followers dal suo account aziendale (PhoneDog_Noah) e che PhoneDog ha conseguentemente rivendicato la proprietà del suddetto account e dei relativi followers. Nei quattro anni in cui Kravitz ha lavorato per PhoneDog, un sito di telefonia mobile, ha aperto un profilo aziendale su Twitter ed è arrivato a raccogliere 17 mila followers. Nel 2010, Kravitz decide di porre fine al proprio rapporto di lavoro con l’azienda la quale gli propone di conservare il proprio account aziendale a patto che Kravitz lo usasse ogni tanto. In base a questo accordo, Kravitz ha iniziato così a scrivere sotto il nome di Noahkravitz, mantenendo però tutti i followers del vecchio account. PhoneDog ha presentato, otto mesi dopo, presso la California District Court una denuncia contro Kravitz, rivendicando la proprietà sia dell’account che dei relativi followers. La denuncia di PhoneDog è piuttosto articolata: principalmente essa assimila i followers ad un vero e proprio portafoglio clienti e sostiene l’illegittimità del cambio dell’account da parte di Kravitz da PhoneDog_Noah a Noahkravitz. Sulla base di queste premesse, PhoneDog configura una appropriazione di segreto industriale e una ostruzione agli introiti economici e arriva a stimare i danni in circa 340 mila dollari (2,5 dollari mensili per ogni follower per otto mesi). In sostanza, PhoneDog, in considerazione dei costi e delle risorse impegnate nella campagna di marketing condotta attraverso Twitter, rivendica la proprietà dei followers guadagnati tramite questa compagna di marketing.
Il nocciolo della questione è la possibilità o meno di imputare a un’azienda la proprietà di un account Twitter. La risposta potrebbe essere nei motivi che hanno spinto l’azienda o il dipendente ad aprire l’account. In realtà, però, la risposta non esaurisce la questione. Quand’anche, infatti, esso fosse stato per interagire con i clienti, è sufficiente per ritenerlo di proprietà dell’azienda? A questo si affianca la qualificazione della lista di followers; spetterà infatti alla Corte decidere se considerarla analoga a una lista di clienti aziendale. Sicuramente vi sono alcuni fattori che ostano all’assimilare la lista di followers come un portafoglio di clienti agevole, principalmente il fatto che la lista di followers è pubblica – chiunque abbia un account Twitter la può visionare – mentre la lista clienti è privata e il suo contenuto è noto solo all’azienda. Un’altra questione chiave cui la Corte dovrà dare risposta riguarda il valore, in termini economici, da attribuire a ciascun follower. Accanto alla difficoltà in sé di quantificare il valore di un cliente, non deve sfuggire come un follower di un account aziendale non sia necessariamente un cliente, ma solo un cliente potenziale. E’ quindi possibile quantificare concretamente quanto vale un cliente in potenza?
A prescindere da quella che sarà la decisione della Corte, è indubbio che questo caso diverrà un precedente nel dibattito sulla proprietà degli account dei social network. Tale dibattito sarà di grande rilievo, visto e considerato che sempre più aziende usano social network come Twitter, Facebook o Google Plus per interagire con fan e clienti in Rete.
A chi appartiene un account Twitter?
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