L’identificabilità del soggetto passivo della diffamazione tramite Facebook

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1. In un recente arresto, la Corte di Cassazione ha fissato i canoni per determinare se la vittima di un’offesa, pur non nominata in un post su Facebook, possa considerarsi individuabile.

Come noto, l’indeterminatezza del soggetto passivo del reato di diffamazione rende non punibile il reato. Infatti, si è costantemente ritenuto che l’individuazione della persona offesa sia elemento costitutivo del delitto e che, in assenza di tale requisito, difetti un elemento della fattispecie.

Da tempo, i Giudici di legittimità avevano riconosciuto, per il reato di diffamazione con il mezzo della stampa, che: “l’individuazione dell’effettivo destinatario dell’offesa è condizione essenziale ed imprescindibile per attribuire ad essa una rilevanza giuridica-penale”.

 

2. Necessariamente dall’affermazione del principio generale, l’attenzione si è rivolta all’enucleazione degli indici necessari per ritenere identificabile l’offeso.

La sentenza che tratta di Facebook s’inserisce in un complesso iter processuale. Infatti, l’imputato, condannato dal Tribunale militare in primo grado a tre mesi di reclusione, venne poi assolto (proprio perché non aveva menzionato il nome della vittima) dalla Corte d’Appello militare; la Cassazione ha, invece, annullato con rinvio tale sentenza, dettando il principio di diritto da applicare.

Le contrastanti valutazioni, interne al procedimento, si spiegano per la particolarità della frase postata sul social network: “defenestrato a causa dell’arrivo di un collega raccomandato e leccaculo … ma me ne fotto per vendetta”.

Le questioni rilevanti paiono due; se “il collega” potesse essere individuato e da quale ambito di utenti.

Va rilevato che finora, infatti, era sufficientemente consolidata la massima secondo cui: “nel reato di diffamazione a mezzo stampa, la individuazione del soggetto passivo del reato, in mancanza di una indicazione specifica ovvero di riferimenti inequivoci a circostanze e fatti di notoria conoscenza attribuibili ad un determinato soggetto, deve essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione oggettiva dell’offesa. Tale criterio oggettivo, che si armonizza con la struttura ontologica del reato e con la ratio della sua previsione normativa, non è surrogabile con le intuizioni o con le soggettive congetture che possono insorgere in chi, per sua scienza diretta, può esser consapevole, di fronte alla genericità di un’accusa denigratoria, di poter essere uno dei destinatari, se dal contenuto della pubblicazione non emergono circostanze obiettivamente idonee alla rappresentazione di tale soggettivo coinvolgimento”.

Appariva assodato che la riconoscibilità dovesse derivare dallo stesso testo ed essere possibile per un numero indeterminato di persone.

3. La sentenza in commento travalica questo principio ed afferma, invece: “ai fini dell’integrazione del reato di diffamazione è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da un numero limitato di persone”.  Ed ancora: è sufficiente ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie “la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due”.

Nel caso, la Corte ha rilevato che il riferimento all’attualità della sostituzione potesse rendere identificabile “il collega” diffamato.

4. Il principio di diritto estende l’orbita della punibilità – sinora delineata –per il reato di diffamazione.

Sarà interessante seguire l’evoluzione giurisprudenziale sullo specifico tema.

Potrebbe infatti, prodursi una divaricazione tra i principi che regolano la identificabilità del soggetto passivo nel caso di offese commesso con il mezzo della stampa o tramite un social network. Viceversa, potrebbe intervenire un revirement in uno dei due settori e crearsi un allineamento dei canoni di giudizio.

In attesa di conoscere gli sviluppi, ritengo che sia condivisibile l’orientamento assunto per la stampa che collega l’individuazione della vittima al testo dell’articolo e la pretende diretta e diffusa da parte dei lettori. Tale principio è coerente con la specificità della stampa, estesa ad un pubblico indeterminato.

Diversamente, per Facebook ed altri social networks, la individuabilità, anche indiretta e ristretta, potrebbe trovare giustificazione nella interattività del mezzo e nella circostanza che il messaggio è spesso rivolto a persone conosciute anche virtualmente, più idonee ad orientarsi nell’ambiente cui si riferisce il commento offensivo (come nel caso trattato).

Va ricordato, inoltre, che in questo caso si applica la sola aggravante del mezzo di pubblicità e non quella, ben più severa, prevista per la stampa dall’art. 13 dell’omonima legge, che pretende di misurarsi con un pubblico indeterminato di lettori.

 

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