“Qual è la forma dell’acqua?”. “Ma l’acqua non ha forma!” dissi ridendo: “Piglia la forma che le viene data”
Andrea Camilleri, La forma dell’acqua, Sellerio, 1994.
La Dichiarazione dei diritti in Internet non è acqua.
Innanzitutto, perché, va detto, l’impegno profuso dalla Presidente della Camera e dai membri della Commissione dalla stessa istituita su di un tema così imprescindibile per la società in cui viviamo merita grande rispetto ed un doveroso riconoscimento.
Per contro, tuttavia, non può sottacersi che il principale limite della Dichiarazione sia rappresentato dalla sua assoluta mancanza di forma, mancanza a cui non è, né sarà, possibile sopperire a posteriori.
La questione è squisitamente giuridica, ma essenziale.
E pur parlandosi di forma, non è argomento meramente formale.
Vediamo perché.
Il nostro ordinamento giuridico, come ogni sistema di civil law, si fonda su di un rigoroso sistema di fonti del diritto, che si distinguono in fonti di produzione e fonti sulla produzione: con le prime si intendono gli atti idonei a produrre effetti giuridici, mentre le seconde definiscono i soggetti, le procedure ed i poteri che generano le fonti di produzione.
Le due categorie sono strettamente interconnesse.
Dal sistema delle fonti di diritto discendono due importanti corollari (cfr. G. Zagrebelsky, Diritto costituzionale, Il sistema delle fonti del diritto, UTET):
1) nessuna fonte può disporre della propria efficacia;
2) nessuna fonte può creare altre fonti aventi efficacia uguale o maggiore alla propria.
La Dichiarazione è carente sotto entrambi i punti di vista: non solo non è dato sapere se voglia assurgere a legge ordinaria, costituzionale o norma internazionale, ma neppure (soprattutto) non è definito quale sia la sua fonte sulla produzione di riferimento.
In sintesi, però, la Dichiarazione non può auto generarsi, né decidere essa stessa il valore della propria efficacia.
Non solo.
Sebbene molto spesso il nostro Legislatore abbia dato prova di pessime capacità tecniche nella stesura delle norme, il previo inquadramento di un atto nel sistema delle fonti di produzione ne determina la più confacente tecnica redazionale.
Infatti, è assai diverso scrivere una proposta di legge di revisione costituzionale da una proposta di legge ordinaria.
Nella prima ipotesi il testo sarà breve e conciso in quanto si tratterà precipuamente dell’enunciazione di principi generali, a cui sono sottesi dei diritti fondamentali: tale era, ad esempio, la proposta del prof. Rodotà di inserire nella nostra Carta fondamentale l’art.21 bis relativo al diritto di accesso ad Internet.
Nel secondo caso, invece, il testo sarà sicuramente più fluente ma dovrà necessariamente coordinarsi con le altre norme già in vigore: in tal senso, la Dichiarazione è sicuramente inidonea ad assumere tout court la veste di un disegno di legge sia per il linguaggio eccessivamente discorsivo utilizzato, sia perché gran parte dei diritti ivi enunciati, specie quelli in tema di tutela dei dati personali sono riproposizioni di concetti giuridici già presenti nel nostro ordinamento, in particolare nel D. Lgs. 196/03.
Il 25 novembre scorso, inaugurando l’Internet Governance Forum Italia 2014, la Presidente della Camera ha precisato che la Dichiarazione dei diritti in Internet è una dichiarazione di principi e non una legge, ma rappresenta comunque un documento fondamentale perché libertà, uguaglianza, dignità e diversità delle persone siano garantite anche in Internet ed ha auspicato che la stessa diventi una mozione che inviti il Governo a portare queste regole e questi principi in Europa e, magari, anche nella sede delle Nazioni Unite.
In merito all’aspirazione internazionale della Dichiarazione, due sono i profili critici.
In primo luogo, occorre rilevare che le raccomandazioni dell’ONU in materia di diritti dell’uomo, nel cui ambito possiamo immaginare si potrebbero inserire quelli proclamati dalla nostra Dichiarazione, sono atti non vincolanti per gli Stati contraenti, la cui rilevanza giuridica consiste principalmente nel c.d. effetto di liceità, per cui il comportamento di chi vi si conforma non può mai costituire una violazione del diritto internazionale (cfr. B. Conforti, Diritto internazionale, Editoriale Scientifica).
Dunque, salvo ipotizzare che la Dichiarazione confluisca in un vero e proprio trattato internazionale, si rimarrebbe comunque nell’ambito della soft law.
In secondo luogo, il contenuto della Dichiarazione pare poco compatibile con una dimensione giuridica sovra europea. Limiti in tal senso sono ravvisabili da un lato nel fatto che i principi richiamati nella Dichiarazione in tema di data protection rispecchiano fedelmente la matrice europea della materia (dal consenso della persona interessata al diritto all’oblio), matrice non condivisa da tanti altri Stati membri delle Nazioni Unite, dall’altro nel fatto che la Dichiarazione non prende minimamente in considerazione la libertà di espressione.
Quest’ultimo aspetto è sicuramente quello che più lascia il segno.
Anche a non voler accedere all’impostazione americana, in cui la libertà di parola protetta dal Primo Emendamento costituisce caposaldo attorno a cui gravita l’intero sistema paese, la libera manifestazione del pensiero è diritto umano fondamentale imprescindibile per ogni democrazia (dichiarata tale o effettiva).
Lo stesso Marco Civil da Internet, all’art.3, nell’elencare i principi a cui deve attenersi la disciplina dell’uso di Internet in Brasile, al primo posto individua la garanzia della libertà di espressione, comunicazione e manifestazione del pensiero.
Parimenti, la risoluzione 68/167 dell’Assemblea Generale della Nazioni Unite, titolata “The right to privacy in the digital age”, stabilisce non solo che il diritto alla privacy è importante per la realizzazione stessa del diritto alla libertà di espressione, ma sottolinea anche l’importanza del pieno rispetto dell’importanza del “full respect for the freedom to seek, receive and impart information, including the fundamental importance of access to information and democratic participation”.
Non menzionare la libertà di espressione in un mondo caratterizzato per metà da paesi totalitari e per l’altra metà da paesi democratici, ma che ricorrono senza indugi a mezzi di sorveglianza massiva è, a parere di chi scrive, il vulnus più grave, oltre alla forma, della Dichiarazione dei diritti in Internet.