Qualche riflessione sul branded content

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Con un incasso su base mondiale superiore ai 400 milioni di dollari, “The Lego Movie” è risultato uno dei maggiori successi del box office 2014. Prodotto da Warner Bros. – e non, come si potrebbe supporre, dalla società danese che commercializza le omonime costruzioni – l’opera ha portato al cinema, con enorme successo commerciale, un filone narrativo già ampiamente sviluppato, in precedenza, nel mercato videoludico: “Lego Batman”, “Lego Harry Potter”, “Lego Star Wars”, “Lego Pirati dei Caraibi” sono infatti soltanto alcuni dei prodotti che compongono la lunga saga di videogame che, a partire dal 2006, ha associato, con riscontri di critica e pubblico sempre crescenti, il marchio del noto produttore di giocattoli ad alcune delle proprietà intellettuali di maggior richiamo dell’industria dell’intrattenimento globale (appartenenti, per limitarsi ai soli esempi fatti, a gruppi quali Warner Bros e Disney).

A prescindere dagli specifici accordi commerciali sottostanti alle opere citate, appare di immediata evidenza come nella moderna industria culturale il confine tra i contenuti editoriali – anche di primaria qualità e, in taluni casi, di indiscusso pregio artistico – e i contenuti promozionali/pubblicitari si sia sfocato al punto da rendere difficile ogni discernimento.

Il “caso Lego” è soltanto un esempio, seppure tra i più rappresentativi, di tale realtà di fatto. Ma molte altre fattispecie potrebbero essere citate con riferimento anche al mercato italiano, sia cinematografico che, soprattutto, televisivo e radiofonico.

In quest’ottica è possibile affermare che l’industria audiovisiva contemporanea sta attraversando “l’era del branded content”, in cui il perseguimento di finalità promozionali di natura commerciale, espressione delle libertà garantite dall’art.41 Cost., diventa in molti casi una condicio sine qua non cui è subordinato il soddisfacimento di interessi artistici e narrativi, tutelati  dagli artt. 33 e 21 Cost. Non è infatti raro imbattersi in casi in cui – complice anche la crisi economica– il produttore debba scegliere tra realizzare un determinato programma TV come branded content, sulla base di fondi forniti o promessi anticipatamente dall’inserzionista, oppure non realizzarlo affatto.

Il ruolo del giurista sembra dover essere quello di prendere atto sia di tali tendenze, presenti e presumibilmente future, del mercato audiovisivo, sia dell’attuale assenza di strumenti normativi specifici che individuino un punto di equilibrio certo tra gli interessi che il branded content talora pone in contrapposizione (primi fra tutti, l’interesse pubblicitario delle aziende, da un lato, e la tutela del consumatore contro forme di pubblicità occulta, dall’altro) e infine, se possibile, individuare in via interpretativa la strada che conduca a tale equilibrio e che consenta una lecita diffusione dei contenuti.

 

Di cosa si parla quando si parla di branded content?

Le prime difficoltà nell’analisi giuridica del branded content cominciano a sorgere sin dalla definizione della fattispecie. Spesso persino tra i più qualificati operatori del settore, oltre che tra i giuristi esperti dei temi della comunicazione, non è infatti chiaro a cosa ci si riferisca esattamente quando si parla di branded content.

Alcuni studiosi delle scienze della comunicazione[1] hanno recentemente provato a definire il branded content marketing come un approccio commerciale incentrato sulla creazione di contenuti, informativi o di intrattenimento, digitali – e in quanto tali geneticamente idonei a una diffusione multi-piattaforma – finalizzata a suscitare l’interesse di specifici target di pubblico per stimolare azioni coerenti con gli obiettivi commerciali dell’impresa.

Il sociologo Paul Grainge[2] incentra invece la propria definizione di branded entertainment (concetto solo apparentemente analogo, ma in realtà più ristretto del generico branded content) sul rapporto di partnership creativa che si instaura tra l’inserzionista e il produttore di contenuti, la quale conduce a una commistione tra brand e tessuto narrativo del prodotto editoriale.

Simon e David Hudson offrono invece una descrizione della categoria del branded entertainment che sembra in parte sovrapporsi a quella di product placement e di altre fattispecie promozionali, e cioè: «the integration of advertising into entertainment content, whereby brands are embedded into storylines of a film, television program, or other entertainment medium. This involves co-creation and collaboration between entertainment, media and brands»[3].

In passato, l’Association of National Advertisers[4] statunitense ha definito a sua volta il branded content  come «the integration of a product within an appropriate context». Un approccio teorico simile è stato adottato anche in alcuni recenti studi della Branded Content Marketing Association britannica[5], secondo cui «branded content is any content that can be associated with a brand in the eye of the beholder». Si attribuisce così un’importanza centrale alle modalità attraverso cui, mediamente, i consumatori di audiovisivo percepiscono la caratura pubblicitaria di un contenuto. Corollario naturale di tale assunto è che la macro-categoria “branded content” sarebbe quindi idonea a racchiudere in sé fattispecie pubblicitarie molto diverse tra loro (o, potenzialmente, tutte le fattispecie): dal branded entertainment al native advertising, dal product placement alla sponsorizzazione, dall’advertiser funded programming alle più svariate forme di brand licensing, etc.

Non sarebbe certo difficile proseguire nella rassegna di opinioni, anche autorevoli, in materia: ciò contribuirebbe però ad aumentare l’incertezza definitoria, che sul piano giuridico – cioè sul piano delle regole che vanno applicate, qui e adesso, alla realizzazione e alla diffusione del branded content – comporta le principali criticità.

Infatti, proprio perché il rispetto delle regole giuridiche è condizione per la messa in onda del branded content, è senz’altro indispensabile, oltre che urgente, compiere lo sforzo di individuare le regole e gli eventuali vincoli che possano applicarsi a questo tipo di contenuti.

 

L’inquadramento giuridico

Il criterio definitorio dell’associazione tra un brand e un contenuto editoriale, che assai genericamente conduce a ritenere branded content qualunque contenuto audiovisivo o radiofonico che venga associato a un brand allo scopo di comunicare al pubblico un’immagine positiva del brand stesso, da un punto di vista giuridico è inservibile. Esso, infatti, non consente di identificare un unico schema – o un unico insieme di schemi – mediante il quale possa articolarsi la relazione tra contenuto editoriale, inserzionista e brand.

L’elemento del collegamento tra brand e contenuto, finalizzato a produrre un positivo effetto promozionale e, auspicabilmente per l’inserzionista, un conseguente comportamento di carattere economico, è infatti proprio di pressoché tutte le forme di comunicazione promozionale.

Ad esempio, la sponsorizzazione televisiva – concettualmente ben distinta dal branded content, se non altro perché esclude che lo sponsor possa comprimere la piena responsabilità e autonomia editoriale dell’emittente  – è una tipica modalità attraverso la quale si collega un marchio e un’azienda a un contenuto editoriale.

Ma anche i significati prodotti dall’accostamento tra uno spot tabellare e un determinato programma entro il quale esso sia inserito potrebbero rientrare, teoricamente, nell’astratta e generica definizione di cui sopra. A maggior ragione ciò risulta vero per le pubblicità in split screen o in forma di bumper, che prevedono la compresenza sullo schermo di pubblicità e contenuto editoriale.

Conviene quindi perimetrare la nozione di branded content su elementi più specifici e caratterizzanti.

Un possibile tentativo definitorio potrebbe quindi apparire il seguente: s’intende per branded content una forma di pubblicità nella quale l’inserzionista, terzo rispetto al produttore del contenuto, si qualifica come produttore o co-produttore del contenuto stesso, allo scopo di promuovere non soltanto il proprio brand ma anche i valori, i temi, i mondi di significato che la specifica politica di marketing da lui perseguita mira a veicolare ai consumatori.

Tale definizione sembra meglio inquadrare alcune importanti fattispecie di branded content e consente certamente di mettere in luce alcune tematiche di particolare rilievo giuridico, la principale tra le quali è appunto l’influenza esercitata dall’inserzionista in qualità di co-produttore sul contenuto editoriale.

Tuttavia, come evidenziato dal citato caso di “The Lego Movie”, non è detto che il titolare del brand che gode dell’effetto promozionale generato dal contenuto sia sempre produttore o co-produttore di quest’ultimo. L’introduzione di una simile qualificazione soggettiva nell’ipotizzata definizione di branded content rischia quindi di escludere alcuni degli esempi più rilevanti e caratterizzanti oggi esistenti sul mercato.

Si potrebbe allora ipotizzare la necessità di ricorrere a un criterio formale per distinguere il branded content dalle altre forme di contenuto pubblicitario. In base a tale approccio, in particolare, si avrebbe branded content in presenza di un contenuto che riporti un brand nel titolo.

In effetti, il mercato televisivo, non soltanto italiano, conosce numerosi esempi che suggeriscono come uno degli elementi caratteristici del branded content sia, molto spesso, proprio il titolo brandizzato: da “Il Divano Birra Moretti” a “CasaCoop – La Sit-com”, da “Havana Film Project” a “Il Mago di Esselunga”, etc.  Inoltre, sembra evidente che un titolo contenente un marchio o il nome di un’azienda comporti un apprezzabile innalzamento della caratura pubblicitaria del contenuto e, allo stesso tempo, anche della percepibilità di tale caratura da parte del pubblico. In altri termini, il brand nel titolo incrementa, allo stesso tempo, sia le potenzialità pubblicitarie del programma, sia il livello di consapevolezza dello spettatore, il quale viene avvertito sin dal titolo della natura palesemente pubblicitaria del contenuto di cui si trova a fruire. Ciò sembra far credere che il criterio definitorio in questione contenga in sé anche il germe dell’equilibrio tra le esigenze degli inserzionisti e quelle di tutela del pubblico dei consumatori.

Tuttavia, da un lato va notato che la presenza di un brand nel titolo non sembra di per sé sufficiente a individuare tutte le possibili forme di branded content (è noto, infatti, come vi siano tanti esempi di branded content che non contengono marchi nel titolo) e, dall’altro, che il titolo di qualsiasi branded content potrebbe essere mutato senza che ciò possa incida in maniera decisiva sulla natura del contenuto stesso (ad es. “Il Mago di Esselunga” non sarebbe divenuto qualcosa di sostanzialmente diverso se si fosse intitolato semplicemente “Il Mago”).

L’idea, infatti, che il nome di una cosa possa bastare a determinarne l’essenza profonda – ad esempio la natura e le finalità pubblicitarie, la genesi e il processo produttivo, l’equilibrio tra contenuto editoriale e contenuto pubblicitario – sembra più frutto di un’illusione logopoietica che di solide argomentazioni giuridiche.

 

Conclusioni

In conclusione, sembra che alcune domande sulla natura e sulle norme applicabili al branded content debbano per il momento restare aperte.

In assenza sia di una disciplina organica in tema di branded content, sia del suo stesso presupposto logico, cioè una definizione in grado di sussumere giuridicamente quantomeno le più diffuse manifestazioni promozionali ed editoriali che il mercato tende a riconoscere come branded content, appare necessario adattare ai dati dell’esperienza e alle tendenze correnti del business gli strumenti che il diritto europeo e italiano degli audiovisivi attualmente offre, valutando caso per caso le attività produttive con ottica giuridica nel tentativo di perseguire, per quanto possibile, una compliance by design.

Spetta infatti proprio ai pratici del diritto, in prima battuta, il compito di dedicare le proprie migliori capacità all’elaborazione di soluzioni giuridiche innovative, che non imbriglino la creatività dei professionisti, ma che al tempo stesso non espongano broadcaster e produttori a rischi legali insostenibili.

L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni è chiamata, dal canto suo, a esercitare anche in tema di branded content le proprie funzioni di vigilanza in maniera tale da porsi come guida per gli operatori di settore nell’interpretazione “intelligente” delle norme esistenti.

All’esecutivo spetterebbe poi aggiornare alcune disposizioni secondarie, come il regolamento ministeriale sulla sponsorizzazione, che ormai non appaiono più coordinate con un quadro normativo di settore che negli ultimi decenni si è completamente trasformato.

Tocca, in ultima istanza, al legislatore porsi il problema se sia il caso di approntare modifiche a un Testo unico dei servizi media audiovisivi e radiofonici che, quantomeno per ciò che concerne le più innovative forme di comunicazione commerciale, accusa già il peso degli anni.

 


[1] Cfr. R. P. Nelli, Branded content marketing. Un nuovo approccio alla creazione di valore, Milano 2012.

[2] Cfr. P. Grainge, Brand Hollywood. Selling Entertainment in a Global Media Age, New York/London, 2008.

[3] S. Hudson, D. Hudson, Branded Entertainment: A New Advertising Technique Or Product Placement In Disguise?, in «Journal of Marketing Management», 2006, 22, p. 492.

[4] http://www.warc.com/Content/News/Major_US_Marketers_Embrace_Branded_Entertainment_TV.content?ID=8ad66ac0-71d8-48bf-afc0-42f891612c1d&q=

[5] http://www.thebcma.info/wp-content/uploads/2014/04/BestofBrandedContentMarketing2014_Oxford_Brookes.pdf)

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