Google versus Vividown atto II: ecco le motivazioni

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Ieri sono state finalmente depositate le motivazioni della sentenza della corte d’Appello di Milano che ha chiuso in secondo grado il caso Google versus Vividown,  riformando la sentenza  di condanna di primo grado per trattamento illecito di dati personali ed assolvendo i dirigenti di Google coinvolti con formula piena, “perché il fatto non sussiste”.

Interessante l’osservazione generale dei giudici di secondo grado che precede l’articolazione dettagliata delle argomentazioni: “non vi è dubbio che, lungi dal “molto rumore per nulla”, secondo la citazione utilizzata dalla sentenza di primo grado, ci si trovi davanti ad una vicenda molto complessa….perchè attiene alla questione del governo di internet”.

Nel momento in cui è stato depositato il dispositivo si è provato in questa sede, correndo il rischio di essere smentiti, a prevedere quale sarebbe potuto essere l’iter argomentativo a supporto della decisione della corte d’Appello.  Fortunatamente, questa volta, ci è andata bene.

Effettivamente, ma non era cosi difficile pronosticarlo, i tre elementi che si erano identificati nel pezzo citato come possibili pilastri per la decisione di assoluzione costituiscono le colonne portanti, insieme ad una serie di  altri spunti interessanti che saranno sviluppati nella monografia sul tema in cantiere, del reasoning della corte d’Appello.

Con riguardo al primo elemento, il giudice d’appello esclude qualsiasi obbligo di controllo preventivo da parte dell’hosting provider sui contenuti immessi in rete. Questo in quanto “non può essere ravvisata la possibilità effettiva e concreta di esercitare un pieno ed efficace controllo sulla massa dei video caricati da terzi, visto l’enorme afflusso di dati”.  Possibilità effettiva e concreta di controllo che, fa capire la corte, sarebbe possibile soltanto attraverso l’attivazione di un filtro preventivo che, però, da una parte, allo stato, non può essere richiesta ai providers, dall’altra, nel caso in cui fosse legislativamente prevista e tecnicamente implementata sarebbe difficilmente ammissibile. Filtro che non può essere richiesto non solo perché è previsto il contrario dalla normativa europea rilevante, ma anche perché si tratta di una attivazione non esigibile “per la complessità tecnica di un controllo automatico. Filtro che non sarebbe ammissibile  perché avrebbe la conseguenza non accettabile di “alterare la funzionalità della rete”.  La corte conclude sul punto con una valutazione che fa emergere tutta la dimensione costituzionalistica dei termini della questione: “demandare a un internet provider un dovere-potere di verifica preventiva appare una scelta da valutare con particolare attenzione in quanto non scevra da rischi, poiché potrebbe finire per collidere contro forme di libera manifestazione del pensiero”. Continua a leggere su Diritto24.

Qui le motivazioni integrali della sentenza.

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