La condanna di Sallusti al carcere ha determinato una reazione prima seria, poi scomposta, da parte di alcune forze politiche. Il fatto era al centro dell’interesse dell’opinione pubblica.
Per evitare la detenzione, venne in origine presentato, il 28 settembre scorso un disegno di legge presentato il 28 settembre (due giorni dopo la sentenza di Cassazione). Il testo era breve e prevedeva: di escludere la reclusione (da uno a sei anni) per la diffamazione aggravata con il mezzo della stampa e sostituirla con una multa: “non inferiore a 5.000 Euro; di escludere parallelamente la reclusione la reclusione anche per l’ingiuria), la diffamazione semplice elevando le multe ora previste. Tanto era sufficiente per soddisfare le esigenze emergenziali. I proponenti tuttavia aggiungevano la modifica del reato di omesso controllo che occultava un aggravio per la libertà di opinione: estendeva la responsabilità del direttore – oltre che alla stampa tradizionale – anche alle testate telematiche ed a qualsiasi sito diretto ai sensi dell’art. 5 della legge sulla stampa. Ancor più severa l’altra ipotesi di imporre come minimo per la riparazione pecuniaria la somma (non indifferente) di 30.000 Euro.
Il disegno si esponeva a plurime censure: la prima concerneva l’opportunità di eliminare la reclusione per il reato di diffamazione (è questa l’unica pena che può colpire il giornalista, ad esempio autore di campagne calunniose), anche se l’attuale previsione è manifestamente eccessiva, superiore alle pene per la corruzione; la seconda riguardava l’aumento indiscriminato degli oneri economici, gravante sulla testata editoriale, anche per offese bagatellarie, che poteva porre a rischio l’esistenza di alcune pubblicazioni di minore rilievo; quindi, il disegno di legge non si era premurato di armonizzare il mutamento che voleva introdurre per la diffamazione, con la pena detentiva prevista da altri reati attuabili con il mezzo della stampa come, ad esempio, la violazione dell’art. 684 c.p. o della privacy, lo stesso oltraggio; infine, introduceva la responsabilità per le riviste telematiche, osteggiata dalla prevalente dottrina per la fluidità e rapidità di composizione e modifica dei testi e la conseguente inesigibilità di un effettivo controllo.
Il disegno è stato inviato all’aula, restituito in Commissione e rinviato in aula, in quanto intorno al testo si era creato un interesse antigarantista che superava gli originari propositi. Tra gli interventi additivi era presente una grave riforma in materia di rettifica. Questa, secondo l’emendamento, andava pubblicata a richiesta dell’interessato al quale erano attribuiti atti, pensieri, dichiarazioni da lui ritenuti lesivi della dignità o contrari a verità. La norma, improntata al soggettivismo della asserita vittima, dava luogo ad ipotesi inquietanti: l’occupazione di interre pagine di giornale mediante rettifiche incontrollate di qualsiasi notizia anche vera, purché ritenuta falsa dall’interessato e tutto escludendo ogni potere di commento del giornalista o del direttore. I lettori o i fruitori del web sarebbero risultati disinformati. In più l’omessa rettifica era sanzionata da una pecuniaria.
Altro emendamento proponeva che gli editori versassero al Dipartimento dell’editoria somme equivalenti all’addizione della multa, del risarcimento e della riparazione pecuniaria. Pagamenti elefantiaci, dunque, duplicati.
Fantasiosi emendamenti venivano aggiunti: dall’applicazione di quote all’editore per l’articolo diffamatorio, alla nullità della clausola contrattuale per la quale l’editore risponde delle condanne pecuniarie inflitte ai giornalisti. Questa proposta, se accolta, avrebbe inciso fortemente sulla libertà di stampa, non essendo – salvo eccezioni – i giornalisti una categoria dotata di ricchezze commisurabili ai risarcimenti ed annessi da pagare. Da ultimo, si intendeva introdurre la pena accessoria dell’interdizione dalla professione per colpire maggiormente tutta la categoria dei giornalisti senza considerazione della gravità dell’offesa.
In altri termini, una messe di emendamenti liberticidi, occultati dietro l’apparente garantismo dell’esclusione della pena detentiva.
Appare evidente che, dinanzi a tale situazione, non vi sia stata altra alternativa che la mancata approvazione del disegno di lege, intervenuta il 26 novembre, dopo uno sciopero della FNSI