Come scrivevamo qualche settimana fa su questo stesso sito, in tema di presupposti per l’applicazione del sequestro dell’informazione on-line, Vladimiro ed Estragone aspettano ancora che la Suprema Corte affronti la questione dal punto di vista che sembra più corretto: quello della estensibilità o meno delle garanzie previste dall’art. 21 comma 3 Cost. alle manifestazioni del pensiero diffuse via web. Ci limitavamo, in altri termini, a sperare che il dibattito sull’argomento si istradasse sui binari giusti, senza esprimere esplicite preferenze fra le due soluzioni possibili, di entrambe le quali si potevano segnalare alcuni pregi. Come spesso accade, però, mentre si filosofeggia, la vita non si ferma ma prosegue e anzi fornisce spunti alla riflessione. E infatti la magistratura, che sul territorio è stata chiamata ad occuparsi della questione, si è ingegnata a dare risposte e trovare rimedi e, lo vedremo subito, talvolta l’ha fatto con penna sottile, talvolta con un pennarello a punta grossa.
Torniamo al dibattito e sveliamo subito le nostre simpatie, che forse si potevano già intuire, per l’opzione che consente, a determinate condizioni che vedremo di qui a breve, di ampliare alla telematica le prerogative classicamente previste per la stampa. La scelta è dettata, oltre che da una precisa opzione culturale (non ci piace la polizia che, prima di un giudizio definitivo, si occupa di escludere una voce da un leale dibattito pubblico), anche dalla consapevolezza della particolare attenzione che la libertà di espressione ha goduto nell’ordinamento, da tradizione addirittura statutaria. Fin nel Regno sabaudo ci si era premurati di sancire che «la stampa sarà libera ma una legge ne reprime gli abusi» (art. 28 dello Statuto Albertino) e con il dettato costituzionale, quasi un secolo dopo, il principio si è ulteriormente raffinato, al punto che oggi si può ben dire che la disciplina di cui all’art. 21 Cost. e tutte le altre disposizioni ordinarie che da esso trovano o ispirazione o conferma lasciano intendere che gli illeciti a mezzo stampa vengono repressi e non prevenuti.
In più, in tema di garanzie, ovvero di norme di favore, ben può essere utilizzata l’analogia per trovare la regola più corretta in assenza di una disciplina specifica. A questo proposito, in un’interpretazione evolutiva di buon senso, la particolare tutela predisposta per la stampa – nel 1948 il principale mezzo di diffusione del pensiero – può ragionevolmente essere applicata anche ad internet che, proprio come strumento per la diffusione del pensiero si è affiancato alla stampa, in parte anche sostituendola in termini di popolarità.
Questa impostazione di massima, che trova ispirazione nel dettato costituzionale, ci sembra il migliore antidoto nei confronti di una certa tendenza della giurisprudenza a usare la “mano pesante” per i sequestri delle pagine web. Insomma, quando si tratta di manifestazione del proprio pensiero (ieri con il mezzo della stampa, oggi anche attraverso internet) la libertà deve essere la regola e il divieto l’eccezione. E va perciò rifiutata quella tendenza, manifestata proprio dalla Cassazione, a non riconoscere la peculiarità del mezzo con cui tale libertà viene esercitata (almeno quando esso non è cartaceo), e a ritenere quindi possibile il sequestro preventivo di una pagina web in presenza degli ordinari presupposti previsti dall’art. 321 c.p.p.
Proprio quest’ottica particolarmente garantista consente di giungere a conclusioni culturalmente e giuridicamente accettabili e, pur mantenendo un solido ancoramento costituzionale, non aderire ad alcune derive che, in nome di spesso poco composti appelli a un’anarcoide libertà di espressione che si pretenderebbe assoluta, finisce con l’impedire qualsiasi bilanciamento fra beni tutti di rilievo costituzionale.
Vediamo allora quali sono, a nostro avviso, le condizioni per tale estensione. Prendiamo le mosse dalla ratio e per dirla con il “testamento spirituale” di Ben Parker (lo zio dell’Uomo Ragno) al nipote Peter (l’Uomo Ragno): «da un grande potere derivano grandi responsabilità».
La libertà di espressione, quando si esprime attraverso la stampa, gode in effetti di grandi poteri: in determinati casi quello di ledere beni giuridici rilievo costituzionale senza che ciò comporti una pena o di una sanzione (la lesione della reputazione, facendo però applicazione dei requisiti del diritto di cronaca o di critica); in altri quello di sottrarsi alle regole comuni (non solo il caso del sequestro preventivo di cui stiamo parlando, ma anche quello della impossibilità di sottoporre la stampa ad autorizzazioni o censure).
A tali “poteri”, però, devono corrispondere responsabilità altrettanto grandi. E in caso di stampa la prima di tutte è quella di rendersi visibile e riconoscibile, senza che l’autorità giudiziaria o i privati siano costretti a faticose ricerche per identificare l’autore del messaggio che, se vuole godere di un regime di favore, si deve assumere con chiarezza la paternità del proprio pensiero, con i relativi oneri che ciò comporta.
Nell’art. 21 Cost. sono due i segnali che fanno comprendere che le garanzie ivi previste potrebbero non estendersi agli scritti anonimi: nel comma 1 la presenza dell’aggettivo «proprio» a qualificare il pensiero la cui libertà di espressione viene solennemente proclamata, sembra appunto escludere dall’ambito di applicazione della dichiarazione di principio le manifestazioni non firmate. Inoltre, una delle eccezioni che rendono la stampa sequestrabile alle condizioni ordinarie, è «la violazione delle norme che la legge […] prescriv[e]per l’indicazione dei responsabili».
L’interpretazione proposta trae ispirazione da uno dei valori più profondi che si possono cogliere in controluce nella trama delle disposizioni costituzionali, intimamente connesso alle regole della democrazia, ovvero quello secondo cui il libero dibattito delle idee deve svolgersi con il minor numero di vincoli e in campo aperto. Nella medesima ottica e ancora più in generale, uno dei principi dell’ordinamento, che trova poi numerose declinazioni di dettaglio, presuppone o meglio impone che in una democrazia pluralista chiunque svolge attività informativa e politica si disveli (oltre alle già menzionate disposizioni dell’art. 21, è facile trovare analoga matrice nel divieto di associazioni segrete sancito dall’18 Cost. e nella legge stampa).
Ecco allora la proposta concreta: che in tema di sequestro la pagina web abbia le medesime garanzie della stampa, purché – esattamente come accade per la stampa, in un’interpretazione evolutiva dell’art. 2 legge n. 47 del 1948 – venga reso esplicito l’autore del messaggio e il tempo di inserimento in rete.
Una simile soluzione consente di non gettarsi su ogni caso con l’animo del fanatico, ma di distinguere in base a parametri che trovano la loro ragionevolezza nella derivazione dalla Carta fondamentale e quindi se non altro paiono in sintonia con il sistema vigente.
Se fosse assistita da una simile motivazione, potremmo concordare con il provvedimento del giudice che ha deciso l’ultimo episodio che riferisce la cronaca recente. Un importante gruppo industriale veniva fatto oggetto di alcuni articoli ritenuti offensivi, non firmati e diffusi da un sito internet privo di registrazione, i cui server stanno all’estero e che ha, evidentemente, come propria “politica editoriale” quella di rendersi irreperibile per chiunque intenda chiedere ragione, anche in sede giudiziaria, dei contenuti pubblicati. Quest’ultima circostanza sembra essere “figlia” di una sorta di diffidenza sulla effettiva sussistenza di una concreta libertà di espressione nel nostro Paese.
In relazione a tale provvedimento, la reazione di molti più o meno improvvisati commentatori è stata nella maggior parte dei casi di sdegnosa protesta.
Tuttavia, proprio prendendo le mosse da un’interpretazione estensiva delle garanzie costituzionali, cui si è accennato all’inizio, non ci sentiamo di censurare la decisione in questione. Inoltre, leggendo la decisione del Gip, quest’ultimo sembra essere ben attento a limitare per quanto possibile l’ambito del proprio provvedimento ablativo.
Ancora un’annotazione: tra le rimostranze che ha suscitato il decreto vi è anche quella dei provider, a cui il provvedimento si rivolge, che annunciano la presentazione di una richiesta di riesame, lamentando, tra l’altro, di essere costretti a trasformarsi in “poliziotti della rete”. Indipendentemente dalla effettiva legittimazione attiva ad impugnare in capo a tali soggetti – tema che non si può qui approfondire, ma che non sembra potersi dare per pacifico – siano consentite sul tema almeno due osservazioni. Anzitutto, lo sviluppo dell’informatica dovrebbe essere volto a ridurre al massimo i “danni collaterali”, ovvero l’oscuramento di messaggi estranei a quelli “incriminati” e va considerato che comunque questi ultimi non saranno mai come quelli derivanti dal sequestro di stampati, in forza del quale l’intero “foglio” viene posto sotto cautela per una singola frase o foto. Inoltre, non si può tacere il fatto che se il gestore del sito eseguisse spontaneamente l’ordine dell’autorità, escludendo il “passo” sequestrato, il “danno collaterale” menzionato sarebbe nullo.
Infine, vale forse la pena di considerare quale sarebbe l’alternativa: allo stato, infatti, un articolo palesemente offensivo, qualora pubblicato su un sito in grado di mantenere l’anonimato (impresa non così ardua), potrebbe non avere alcuna possibilità di essere né sequestrato né sanzionato successivamente.
Questo, però, ci si passi lo slogan, non è libertà, è arbitrio. E, con il candore di un quinquenne, sono i cattivi a commettere arbitri, non i supereroi.