Mentre mi apprestavo a scrivere questo nuovo post sulla questione redditi online nell’intento di fare un pò di chiarezza vista la confusione con la quale è stato trattato l’argomento, leggo che la Commissione Bilancio del Senato, su proposta del governo, avrebbe modificato in extremis il testo che passa ora all’esame dell’Aula, prvedendo che la pubblicazione delle dichiarazioni dei redditi su Internet da parte dei Comuni ci sarà, ma senza nomi e cognomi dei contribuenti e, quindi, solamente per aggregati e categorie.
Se così è, significa che anche questa misura, con un ulteriore salto mortale all’indietro sulla manovra da parte del governo, è stata completamente svuotata di ogni significato.
In realtà, nei giorni scorsi si era già vociferato che probabilmente la misura sarebbe stata ritirata dopo che il Garante Privacy aveva reso note le sue perplessità in materia, problemi in termini di privacy e non solo erano stati sollevati in vario modo anche dagli amici Stefano Quintarelli e Guido Scorza. Al contrario, come avevo già accennato personalmente avrei visto con favore l’approvazione di tale misura se fatta bene, e messa in pratica questa volta in maniera meno raffazzonata e con una tecnologia più adeguata rispetto a quanto era stato fatto dal precedente governo.
Una cosa va detta con molta tranquillità, la questione è evidentemente tutta politica, si può essere favorevoli o contrari e sussistono argomentazioni apprezzabili sia da parte di chi la pensa in un modo che da parte di chi la pensa nell’altro, ma non si può dire che non rientri nelle disponibilità del Legislatore il poter modificare la disciplina di settore, anche per quanto concerne la privacy, al fine di consentire la pubblicazione online dei redditi degli italiani.
A dire il vero, occorre ricordare che è stato poprio l’attuale governo Berlusconi, poco dopo essere entrato in carica, ad apportate modifiche sostanziali, per mezzo dell’art. 42 del Decreto Legge 25 giugno 2008, n. 112, al regime di pubblicità dei dati sui redditi dettato dall’art. 69 del D.P.R. 600/1973, modifiche che ne precludono ora in modo quasi assoluto la comunicazione e la diffusione, non solo online, ma anche nelle forme tradizionali presso i comuni e gli uffici delle imposte.
Tali dati, infatti, non sono più consultabili da chiunque, anzi, ne è ora solo «ammessa la visione e l’estrazione di copia nei modi e con i limiti stabiliti dalla disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi di cui agli articoli 22 e seguenti della Legge 7 agosto 1990, n. 241». Il che, fuori dal legalese, significa che l’accesso ai dati sui redditi dei contribuenti è ora permesso solo a chi può dimostrare di essere portatore di un legittimo e
diretto interesse.
Una scelta drastica, dunque, quella fatta nel 2008 dal governo Berlusconi che – in netta controtendenza rispetto alla per vero rocambolesca iniziativa del Viceministro Visco intrapresa dal precedente governo quando era già ampiamente dimissionario – aveva portato a far pendere il necessario bilanciamento tra trasparenza e riservatezza tutto verso questo secondo lato, con buona pace dell’apporto che il controllo diffuso avrebbe invece potuto conferire alla lotta all’evasione fiscale.
Personalmente davo, pertanto, per scontato che se il governo – come ampiamente annunciato nei giorni scorsi – voleva ora veramente introdurre nella manovra una misura per mettere online i redditi degli italiani avrebbe dovuto quindi riportare l’art. 69 del DPR 600/73 alla versione precedente alla modifica intervenuta, peraltro sempre per mano di Tremonti con il suddetto DL 112/2008, cosa che era ed è ampiamente nelle sue disponibilità.
Secondo la legislazione precedente, infatti, non solo rendere disponibili i dati dei redditi su Internet non poteva ritenersi illegittimo ma, al contrario, era doveroso. È proprio in tal senso che, in una delle più illuminate analisi giuridiche della complessa vicenda che nel 2008, a seguito della messa online dei redditi degli Italiani, aveva visto aprirsi un contrasto tra l’Agenzia delle Entrate e il Garante Privacy, gli Autori sulla base del combinato disposto degli artt. 69 del DPR 600/1973 e 1, lett. n) del Codice dell’Amministrazione Digitale così concludevano:
Difficile, in tale contesto normativo, non nutrire almeno il sospetto che la disposizione contenuta nel sesto comma dell’art.69 del D.P.R. 600/1973, secondo cui gli elenchi dei dati vanno depositati presso i Comuni interessati, debba intendersi riferita anche ai siti internet di tali Comuni.
3.La conclusione cui si perviene seguendo tale ragionamento è che, allo stato, non sembra possibile considerare tout court illegittima la pubblicazione online degli elenchi dei redditi dei contribuenti italiani che, anzi, appare – almeno laddove operata dai singoli Comuni e dagli uffici territoriali dell’Agenzia delle Entrate – un atto dovuto al quale la pubblica amministrazione non può sottrarsi.
Si potrà – ed anzi si dovrà, come opportunamente ricorda il Garante – semmai discutere delle modalità più idonee per evitare eventuali trattamenti di tali dati eccedenti i limiti di conoscibilità fissati dall’art. 69 del D.P.R. 600/1973 (pubblicazione dei dati tramite formati elettronici non manipolabili, esclusione delle funzioni di stampa e di salvataggio su PC, necessità di identificazione del cittadino italiano tramite codice fiscale o carta d’identità elettronica) ma non si può obiettare nulla circa l’esistenza di un diritto alla conoscibilità di tali dati e men che mai, nell’era della comunicazione digitale, all’utilizzo di Internet quale canale privilegiato di diffusione delle comunicazioni e di dati pubblici, ferma restando, semmai, solo la sanzionabilità di un uso illecito degli stessi.
Nel plaudire, dunque, al Garante per la tempestività dell’intervento e per aver, una volta di più, ricordato la centralità del diritto alla privacy nel nostro Ordinamento, non ci si può sottrarre dal manifestare preoccupazione per il rischio che i principi generali sanciti nel provvedimento di questa mattina finiscano – unitamente all’iniziativa azzardata e caratterizzata da inscusabile leggerezza dell’Agenzia delle Entrate – con lo svuotare di significato le norme attraverso le quali il Codice dell’Amministrazione Digitale ha inteso, finalmente, riconoscere ai cittadini il pieno ed effettivo diritto all’accesso dei dati pubblici detenuti dalla Pubblica amministrazione.
Il CAD non interviene sul regime di pubblicità dei dati della PA ma, più semplicemente, impone a quest’ultima di utilizzare anche le nuove tecnologie per consentire ai cittadini di accedere a dati già dichiarati pubblici dalla disciplina vigente.
L’auspicio – espresso in termini non provocatori ma reali – è che “passata la bufera” il Garante detti, a tutti i Comuni ed agli uffici dell’Agenzia delle Entrate sul territorio, regole e direttive per rendere accessibili online gli elenchi della discordia nel rispetto, ovviamente, della privacy.
Non servono, infatti, nuove norme ma solo una puntuale e prudente applicazione di quelle vigenti.
Detto questo per quanto concerne gli aspetti strettamente giuridici che solleva la diffusione dei redditi online, rimane il nodo essenziale e più politico della questione, ovvero se sia giusto e opportuno aggiungere un ulteriore tassello, quello della trasparenza e della consapevolezza diffusa, nella lotta sacrosanta all’evasione fiscale che, per le dimensioni preoccupanti raggiunte da tempo nel nostro Paese, determina un elevato differenziale tra pressione fiscale apparente e pressione fiscale effettiva: quella sostenuta solo da chi effettivamente paga le tasse.
Personalmente rimango dell’opinione che un regime di trasparenza più effettiva e reale dei dati fiscali rappresenterebbe uno strumento fondamentale per garantire, attraverso un controllo diffuso, che tale obbligo sia equamente ripartito tra tutti i consociati. Sebbene scontato, non sembra inutile ribadire che chi evade il fisco, oltre a violare la legge, lede direttamente gli interessi di tutti gli altri consociati. Di conseguenza ogni strumento utile a scardinare quell’atteggiamento miope e illogico, ma diffusissimo, che consiste nella scarsa disapprovazione sociale che circonda gli evasori e ad affiancare al controllo verticale esercitato dall’Autorità statale, una dimensione di controllo sociale orizzontale deve ritenersi utile e ben accetta.
E’ vero che questo comporterebbe una parziale compressione della privacy ma pare, infine, opportuno richiamare in merito l’opinione espressa da Stefano Rodotà, padre della disciplina italiana sulla privacy, di cui notoriamente ha sempre fornito un’interpretazione rigorosa ed estensiva spesso prevalente rispetto ad altri interessi pur garantiti dall’Ordinamento che, nel 2008 intervenendo in merito alla diatriba innescata dalla messa online dei redditi degli Italiani da parte dell’Agenzia delle Entrate, abbastanza inaspettatamente, faceva lo sforzo di rammentare un po’ a tutti (e, forse, anche al suo successore alla presidenza dell’Autorità Garante) che i redditi diffusi online, quali dati economici, non erano da considerarsi sensibili e pertanto non dovevano ritenersi meritevoli, ai sensi del Codice privacy, di particolari ed eccessive tutele e attenzioni.