La lunga ed aspra polemica che ha segnato negli ultimi mesi il confronto tra autorità iberiche, artisti e autori da un lato e cybernauti dall’altro ha vissuto un momento di svolta nella giornata dello scorso 20 dicembre, quando la famigerata Ley Sinde (dal nome del Ministro della cultura del governo Zapatero) si è vista respingere l’approvazione dalla commissione per gli affari economici del Congresso per effetto del voto contrario di venti deputati contro diciotto.
Le misure che vanno sotto il nome della Ley Sinde erano destinate a divenire parte (a titolo di disposiciòn final segunda) della Legge di stabilità economica, ma la loro elaborazione risale sin dai tempi dell’investitura dell’attuale ministro, avvenuta nel marzo del 2009, allorché venne annunciata una lotta senza quartiere al file sharing e ad ogni altra forma di violazione dei diritti di proprietà intellettuale. Il progetto di legge passerà ora all’esame del Senato depurato dalle disposizioni stralciate, anche se la maggioranza socialista ha già annunciato per i prossimi mesi un nuovo tentativo di ottenerne l’approvazione.
Già l’impostazione dogmatica sottesa a questo disegno di legge, per vero, non aveva mancato di suscitare riserve, che si appuntavano anzitutto sull’implicita e comunque opinabile inclusione della proprietà intellettuale nel catalogo dei diritti fondamentali. Alcune perplessità originavano anche dall’ambigua norma programmatica (la disposiciòn adicional quinta della legge sulla proprietà intellettuale, Decreto Regio n. 1 del 12 aprile 1996) che avrebbe affidato al Ministro della cultura il compito di vigilare, pur nell’ambito delle sue competenze, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale da parte dei prestatori di servizi della società dell’informazione.
Passando al merito, questo progetto di riforma si segnalava, differenziando il modello spagnolo rispetto ad altre esperienze (e in particolar modo dalla legislazione francese), per l’intento di colpire non già gli utenti collegati a piattaforme peer-to-peer, sibbene i relativi gestori.
Il meccanismo delineato dalla legge si fondava sull’iniziativa di quei soggetti che, una volta accertata una lesione dei propri diritti, avrebbero dovuto promuovere un’istanza avanti ad un’apposita Commissione della Proprietà Intellettuale (la cui istituzione era prevista dalla stessa Ley Sinde, e che avrebbe ricevuto disciplina dal nuovo art. 158 del R.D. 1/1996), un organo collegiale a composizione mista. Alla seconda sezione di questa Commissione la legge intendeva conferire una funzione di salvaguardia dei diritti di proprietà intellettuale, che si sarebbe estrinsecata nell’esercizio del potere di interrompere la prestazione di alcuni servizi della società dell’informazione ovvero ritirare quei contenuti che concretizzassero una violazione di detti diritti da parte di un operatore avente scopo di lucro o che fosse causa (anche solo potenzialmente) di un danno patrimoniale. Tali attribuzioni presupponevano, a loro volta, il potere dell’amministrazione di esigere dai fornitori dei servizi di connettività la comunicazione dei dati che permettessero l’identificazione dell’utente autore di atti di pirateria (in tal senso la Ley progettava una modifica dell’art. 8, p. 2, della Legge 34 dell’11 luglio 2002 in materia di e-commerce e servizi della società dell’informazione).
Tuttavia, l’esecuzione degli atti adottati dalla Commissione, determinando una limitazione della libertà di espressione sancita dall’articolo 20 della Costituzione spagnola, richiedeva un preventivo provvedimento dell’autorità giurisdizionale, in ossequio alla riserva stabilita al c. 5 della medesima disposizione.
Allo scopo di agevolare l’attuazione di tali misure, la Ley Sinde mirava ad introdurre, in seno alla legge regolatrice del contenzioso amministrativo (Legge n. 29 del 13 aprile 1998), una norma ad hoc (l’articolo 122 bis) volta a disciplinare un rito speciale informato ai principi di sommarietà e celerità; inoltre, a tale scopo era radicata la giurisdizione esclusiva dell’Audiencia Nacional. L’art. 122 bis, nello specifico, stabiliva che entro il termine di quattro giorni dalla notifica dell’atto il giudice, convocati i rappresentanti dell’Amministrazione e i titolari dei diritti interessati dal provvedimento, avrebbe dovuto concedere o negare l’esecuzione del provvedimento, restando precluso ogni apprezzamento discrezionale circa la sua congruità.
Pare inutile evidenziare come l’approvazione di un simile testo avrebbe determinato uno stretto giro di vite sulla circolazione di contenuti multimediali attraverso la rete. Non a caso, moltissime erano risultate le proteste dei cybernauti, che avevano dato vita, nei mesi antecedenti, ad una vera e propria mobilitazione del web, culminata in un oscuramento collettivo volontario da parte di diversi siti che hanno esposto in home page la bandiera spagnola vestita a lutto.
Va parimenti sottolineato come in Spagna la forte opposizione suscitata dal progetto di legge in commento sia stata frutto anche di una peculiare predisposizione culturale degli utenti. Non solo, infatti, la percezione dell’illiceità degli atti di pirateria informatica si arresta a livelli ridotti; gli utenti interpretano il download illegale di contenuti multimediali, assai diffuso in Spagna, alla stregua di una sorta di rivalsa verso l’industria dell’intrattenimento, ritenuta favorita da una serie di misure invece osteggiate dai consumatori (basti citare una tassa antipirateria applicata sulla vendita di prodotti audio-video, dalla quale traspare una considerazione obiettivamente impropria dell’utente come potenziale infringer del diritto d’autore).
Inutile negare, altresì, come il popolo della rete abbia accolto il voto negativo come un vero e proprio trionfo, mentre, all’opposto, case produttrici ed autori abbiano sollevato pesanti critiche alla scelta delle forze politiche prevalenti.
La vicenda tocca un nervo scoperto nella struttura giuridica della società dell’informazione: il contrasto tra la libertà di espressione e la necessità di preservare il significato autentico e genetico del diritto d’autore quale remunerazione dello sforzo creativo. Non può essere disconosciuto, a parere di chi scrive, come l’opzione normativa verso cui la Spagna intendeva orientarsi non fosse certamente immune da incertezze; riserve che non riguardano tanto il bilanciamento tra freedom of speech e copyright, operazione sulla quale si esercita l’irripetibile discrezionalità che compete ai legislatori, ma piuttosto i tratti di un procedimento i cui caratteri di sommarietà e celerità sembrerebbero poter importare un eccessivo sacrificio delle garanzie non solo procedimentali, ma anche di una ponderata valutazione degli interessi.
Ancora una volta, ritorna in gioco un interrogativo di grande momento: quali soggetti, quali poteri e responsabilità nel governare la rete? Tra il pericolo di affidare il funzionamento del web ad un controllo statale e quello di condannarlo all’uso e al consumo degli internet service provider, esso permane un dilemma non ancora sciolto né probabilmente (ad ora) risolubile.