A seguito dell’adozione dei regolamenti 2022/1925 e 2022/2065 sembra aprirsi la strada per un mutamento di paradigma in punto di regolazione delle piattaforme digitali, superando l’idea dell’autosufficienza della regolazione di carattere antitrust. Al contrario, la direzione intrapresa pare suggerire l’avvio di una stagione caratterizzata da una più forte regolazione pubblica, diminuendo così gli spazi di auto-regolazione. Se questa tendenza sembra da salutare con favore, anche e soprattutto al fine di contenere i forti poteri privati digitali, si pone l’esigenza, costituzionalmente imposta, affinché tutto ciò non si traduca in una restrizione della sfera della libertà di espressione. Pertanto, è necessario ragionare sui caratteri di tale nuova forma di regolazione, sul presupposto che ogni riflessione in merito non possa prescindere dalla consapevolezza che il “punto logico di partenza” è la libertà dell’individuo, nelle sue molteplici accezioni, a partire da quella di espressione.
Following the adoption of regulations 2022/1925 and 2022/2065, the way seems to be opening up for a paradigm shift in terms of the regulation of digital platforms, going beyond the idea of the self-sufficiency of antitrust regulation. On the contrary, the direction taken seems to suggest the start of a season characterised by stronger public regulation, thus diminishing the spaces for self-regulation. While this trend appears to be positive, also and above all in terms of containing strong private digital powers, there is a constitutional need to ensure that it does not translate into a restriction of the sphere of freedom of expression. It is therefore necessary to reflect on the characteristics of this new form of regulation, on the assumption that any analysis on the matter cannot disregard the awareness that the “logical starting point” is the freedom of the individual in its multiple meanings, starting with that of expression.
Sommario: 1. Premessa introduttiva. – 2. Il potere pubblico (e la sua “democraticità”) vs il potere privato (e la sua “autoritarietà”) e lo spostamento della “autoritarietà” dal primo al secondo: andata e (rischio di) ritorno. – 3. La (auto)regolazione digitale di tipo tradizionale. – 4. I due regolamenti del 2022: verso un nuovo modello di regolazione. – 5. La co-regolazione: sì, ma quale? – 6. Regolazione forte delle piattaforme digitali e ruolo della concorrenza. – 7. La libertà di manifestazione del pensiero in rete ed i suoi aspetti problematici: in particolare, il caso delle fake news e del hate speech. – 8. I rischi da evitare: una regolazione censoria della libertà di manifestazione del pensiero. – 9. Questioni insolute e (possibili) prospettive future. – 10. A mo’ di conclusione.
- Premessa introduttiva
Il tema delle piattaforme digitali riveste sempre più importanza nel dibattito giuridico. È noto, infatti, che larga parte della vita degli esseri umani (almeno con riferimento ai paesi sviluppati) si svolga in “rete” e da essa sia fortemente condizionata.
In questa sede interessa, in particolare, riflettere attorno al tema della regolazione di tali piattaforme, anche e soprattutto alla luce di taluni interventi piuttosto recenti del legislatore europeo che hanno posto l’attenzione sul profilo della necessità di regolare le piattaforme digitali e porre, dunque, un freno ai poteri privati[1] che di tali piattaforme sono i proprietari o, come è stato detto, i “padroni”[2]. Si tratta di poteri particolarmente forti che, proprio in ragione della loro forza e rilevanza, non possono che essere attenzionati e, quindi, regolati, dal diritto, anche e soprattutto per la loro rilevanza per così dire “sociale”. Invero, tali poteri finiscono per incidere su una serie di diritti e libertà fondamentali di ciascun individuo, oltre a rivestire un potere di mercato così forte da condizionare la politica e, dunque, di fatto, l’intera società.
La tendenza alla quale si assiste è quella di una sempre maggiore attenzione, da parte dei pubblici poteri, nei confronti delle piattaforme digitali, i quali sembrano ormai concordi circa la necessità di regolare tale settore della società e di ridimensionare, di conseguenza, il relativo potere privato. Se ciò appare positivo non sono, tuttavia, da sottovalutare i rischi che si potrebbero verificare e che si identificano qui nella possibile riduzione della libertà di manifestazione del pensiero in rete, la quale già non è sempre pienamente tutelata dalle piattaforme e non può certo correre il rischio di sopportare ulteriori limitazioni da quegli stessi soggetti che, in teoria, dovrebbero, viceversa, tutelarla: ossia i pubblici poteri.
Pertanto, dopo una parte iniziale in cui si dedicherà l’attenzione al modello di regolazione che sembra emergere a livello europeo[3] – non prima di aver rapidamente ricostruito la fase precedente dell’auto-regolazione ed aver, inoltre, cercato di mettere in luce le criticità della c.d. regolazione antitrust –, l’analisi si soffermerà sull’ipotesi di una “regolazione forte” delle piattaforme digitali come risposta necessaria allo strapotere dei colossi del digitale[4], sottolineando tuttavia l’esigenza che tale regolazione sia anche flessibile, tentando, quindi, di mettere in evidenza le caratteristiche del modello di regolazione qui prospettato.
Infine, si rifletterà sulle possibili implicazioni del nuovo potenziale modello regolatorio sulla libertà di manifestazione del pensiero, cercando di mettere in luce, da un lato, l’effetto positivo che una regolazione di questo tipo può comportare rispetto a tale libertà e, dall’altro, i rischi ad essa connessi, che sono quelli di una censura uguale o, addirittura, maggiore di quella che già viene talvolta posta in essere dalle piattaforme private.
Sulla sfondo, taluni possibili aspetti problematici, sia sul fronte del modello di “regolazione forte” in funzione limitativa dello strapotere delle piattaforme digitali, che su quello della necessità di una tutela piena ed effettiva del contenuto sotteso alla libertà di manifestazione del pensiero in rete.
Il punto dal quale non si può in alcun modo prescindere, e che costituisce, dunque, il prius di qualsiasi discorso, è che il fine ultimo di ogni ordinamento giuridico sia sempre e comunque la tutela dei diritti e delle libertà dell’individuo, coerentemente con il carattere personalista che informa l’ordinamento europeo e la quasi totalità delle Costituzioni che ne fanno parte.
- Il potere pubblico (e la sua “democraticità”) vs il potere privato (e la sua “autoritarietà”) e lo spostamento della “autoritarietà” dal primo al secondo: andata e (rischio di) ritorno
Preme ora sottolineare come, nel corso degli ultimi decenni, con particolare riferimento al mondo del digitale, si sia assistito ad una crescita dei poteri privati che, a tratti, è sembrata (e continua ad apparire) inarrestabile, con un ridimensionamento di quelli pubblici; di conseguenza, pare utile riflettere sulle due differenti tipologie di potere, anche e soprattutto per chiarire meglio i caratteri della regolazione che si va configurando ed i rischi, attuali e futuri, che tutto ciò tende a produrre. Infatti, tale tendenza, anche alla luce del DMA e del DSA[5], sembra delineare un mutamento del rapporto fra potere pubblico[6] e privato[7] caratterizzato da un maggior protagonismo del primo, e se ciò è da salutare con favore, in termini generali, è comunque opportuno sottolineare i rischi che ne potrebbero derivare, per evitare così la riedizione di situazioni del passato contrassegnate da una indiscussa (e, a tratti, ingiustificata) supremazia del primo (cioè del potere pubblico) sul secondo (ossia sul potere dei privati, non solo imprese ma, anche e soprattutto, cittadini).
L’autoritarietà del potere giuridico, da intendere come capacità di esso di incidere nella sfera giuridica altrui anche in assenza del relativo consenso (producendo, quindi, effetti giuridici di tipo costitutivo, modificativo ed estintivo, con un esito che, per il destinatario, può essere favorevole ovvero sfavorevole), ha rappresentato per decenni un carattere distintivo dei pubblici poteri, un dato che ne qualificava, cioè, la natura dei soggetti titolari (che, appunto, erano pubblici in quanto dotati del potere autoritativo) e che segnava la differenza di status con i soggetti privati, contribuendo in maniera decisa a ravvalorarne la posizione di supremazia di cui il potere autoritativo rappresentava, appunto, la manifestazione principale, con una condizione di specialità (che sovente si traduceva in una condizione di privilegio) rispetto a tutti gli altri soggetti dell’ordinamento.
L’idea del pubblico come soggetto “dominante” e del privato quale “dominato”, un rapporto, cioè, contrassegnato da una disparità (di partenza), ossia da una posizione di supremazia del primo, è senz’altro ancora attuale ma si è negli ultimi decenni fortemente ridimensionata[8], essendo ormai riferibile solo a determinati ambiti, e con ciò si sono proporzionalmente ridotte le “sacche” di privilegio, pur continuando a sussistere in talune circostanze[9]. Il problema di tale riduzione dell’autoritarietà del pubblico non si è tradotta – come era invece auspicato ed auspicabile – in una maggiore libertà dei cittadini ma è andata a tutto vantaggio di pochi soggetti privati. Su questo la scienza giuridica deve interrogarsi e sembra che – sia pur con non incolpevole ritardo – stia cominciando a farlo.
Con riferimento a quanto si è verificato negli ultimi decenni, invero, non sembra azzardato affermare che il potere (per come inteso sopra), nei fatti, abbia finito per non essere più elemento esclusivo dei pubblici poteri, essendo, ormai, divenuto strumento in mano anche a taluni soggetti privati, per esempio, appunto, ai colossi del digitale. Il mondo del digitale, in altre parole, costituisce l’esempio emblematico della formazione di un potere assai simile a quello pubblico, rispetto al quale si utilizza qui il termine di “autoritarietà” proprio per metterne in luce tale vicinanza rappresentata, in ultima analisi, dalla idoneità di questo potere di incidere nella sfera giuridica di un numero assai elevato di cittadini in assenza, di fatto, del loro consenso, oltre che nella capacità di produrre effetti nei confronti dei tradizionali poteri pubblici, potendo condizionarne le scelte sotto la minaccia del possibile ricatto realizzabile in una molteplicità di modi (in ragione, prevalentemente, delle elevatissime disponibilità economiche e digitali da tali soggetti generalmente possedute).
L’autoritarietà dei privati, dunque, consiste in questo: nella possibilità, cioè, di imporre ad altri soggetti, pubblici poteri compresi, le proprie scelte mediante lo (stra)potere, economico e digitale, di cui godono[10], con una differenza di non poco conto rispetto a quanto accadeva (e continua accadere, specialmente in altri settori) allorché erano i pubblici poteri ad imporre le proprie scelte. Invero, in questi casi, si trattava (e continua a trattarsi) di un’imposizione comunque motivata – in ultima analisi ed al di là di tutto – da un’esigenza di soddisfare bisogni e interessi riferibili ad una collettività, e non di perseguire il legittimo interesse egoistico all’accumulazione – spesso indiscriminata – di ricchezza ed appagare la “sete di controllo” (della società digitale[11]).
Il principale profilo problematico di quella che si è qui definito nei termini di “autoritarietà”, con riferimento alle piattaforme digitali, è che essa non deriva dalla legge, bensì dalle dinamiche della realtà caratterizzate per decenni – come già visto – da una tendenziale assenza dell’etero-regolazione pubblica. Dove non c’è, quindi, il diritto – o, comunque, la sua presenza è assai limitata –, un ambito, cioè, sprovvisto di regolazione, si hanno dinamiche “spontanee” che sono però caratterizzate da differenti rapporti di forza, dove sono i più forti a prevalere (in tal caso i poteri privati digitali)[12]. L’idea della libertà come spazio dove regna l’autonomia dei soggetti è un’idea senz’altro condivisibile in teoria ma presenta evidenti criticità sul piano pratico perché spesso, è noto, si traduce – come è avvenuto nel caso di specie – nel dominio del “più forte” sul “più debole”.
Nel mondo del digitale vi sono pochi “forti” (i colossi del digitale) e tanti “deboli”, sia pur con diversa intensità, debolezza che opera tanto con riferimento ai pubblici poteri[13], quanto in relazione ai privati, imprese e consumatori[14], salvo non voler continuare ad assumere lo schema del passato, ormai tramontato, per cui sono i poteri pubblici i “forti” ed è dal loro potere che è sempre e comunque necessario difendersi[15]. In questo senso, si è dinanzi ad una autoritarietà dei privati che, non discendendo dalla legge, non può rinvenire in essa la propria fonte legittimante e, dunque, la sua legittimazione[16] democratica, richiamando così alla mente l’insegnamento di Max Weber per cui l’unico potere legittimo è quello pubblico, il quale, appunto – a differenza di quello privato – è democratico (o, almeno, tale dovrebbe essere)[17].
Il potere privato si caratterizza, in negativo, rispetto al potere pubblico, per una serie di elementi che in questa sede possono essere solamente oggetto di un rapido richiamo. Per esempio, il potere privato è un potere ontologicamente più difficilmente controllabile poiché tende a sfuggire dal sentiero tracciato dalla legge, a differenza di quello pubblico, rispetto al quale non solo vi è la legge che ne funzionalizza l’esercizio (verso il perseguimento dell’interesse pubblico) ma sussiste, ormai, un apparato costituzionale che, rafforzandone i limiti, aumenta così le garanzie dei destinatari. Il tema del controllo è, poi, strettamente legato al profilo concernente la trasparenza per le stesse ragioni, di fatto, per cui è di più difficile controllo; non è un caso che in dottrina, con riferimento ai poteri privati, in specie quelli digitali, si sia di recente parlato di “poteri opachi”[18]. Inoltre, vi è un ulteriore elemento che ne segna in maniera evidente la differenza dal potere pubblico, ossia il profilo della sua giustiziabilità. Mentre dinanzi alle decisioni dei pubblici poteri sono esperibili rimedi tanto stragiudiziali (si pensi alle autorità indipendenti e, più in generale, agli ulteriori meccanismi di risoluzione stragiudiziale delle controversie previsti dalla legge, come le conciliazioni) quanto rimedi di ordine giudiziale, rispetto alle decisioni assunte dai poteri privati spesso le piattaforme digitali creano “consessi”, a loro evidentemente favorevoli, dove (fingere di) fare giustizia (si pensi, giusto a titolo di esempio, al Facebook Oversight Board).
Lo schema tradizionale del diritto pubblico, dunque, quello cioè imperniato sul conflitto fra “autorità” e “libertà”, deve essere rivisto in quanto l’autorità non si identifica più solo nei pubblici poteri ma anche ed in taluni casi (come, per esempio, nel caso in esame) nei poteri privati[19], dando luogo ad un autorità a tratti ben più pericolosa di quella del passato[20] (per le solite ragioni di cui sopra: strapotere finanziario, difficoltà di controllo, trasparenza, ecc.), e ciò che un tempo era il nemico da cui proteggersi (i pubblici poteri) parrebbe ora rappresentare l’amico a cui aggrapparsi, lo “strumento” a cui riattribuire poteri per configurare uno spazio caratterizzato da un riequilibrio nei rapporti di forza, dove lo strapotere privato dei potenti gruppi tecnologici incontra il baluardo insuperabile della sovranità popolare rappresentato, anzitutto, dallo Stato e dalla sua sovranità (la sovranità statale) che dalla prima e nella prima rinviene la propria legittimazione democratica.
Si assiste ormai, come noto, ad un ad un governo privato del cyberspazio rispetto al quale risulta assai condivisibile l’osservazione secondo cui «la libertà di espressione e le libertà economiche [sono]minacciate – quanto meno nelle moderne democrazie occidentali – non tanto dai poteri pubblici tradizionalmente considerati, ma dalle posizioni oligopolistiche di potere privato delle grandi società dell’economia digitale, la cui neutralità è un mito che è stato definitivamente superato»[21]. Tuttavia, il ciberspazio e, dunque, il mondo digitale sono, a tutti gli effetti, fenomeni sociali al pari di ogni altro e, di conseguenza – in special modo allorché in esso assumano rilievo diritti e libertà –, necessitano di una qualche regolazione pubblica al fine, in ultima analisi, di garantire il rispetto e l’effettività di quegli stessi diritti e di quelle medesime libertà.
Ciò detto, è da registrare, come già anticipato, una parziale inversione di rotta – ancora in pieno corso – tesa a ridimensionare il potere privato nel settore del digitale, con una (ri)comparsa di quello pubblico. Si tratta di una prospettiva assolutamente necessaria che, tuttavia, non deve, però, tradursi in una restrizione delle libertà, come, per esempio, in una lesione della libertà di manifestazione del pensiero, la quale rappresenta una delle libertà che più rischiano di essere messe in discussione da questo processo di riequilibrio dei rapporti di forza, come si vedrà più avanti.
- La (auto)regolazione digitale di tipo tradizionale
Il profilo della regolazione del mondo digitale ha, come noto, attraversato una serie di fasi diverse fra loro caratterizzate da un differente approccio del regolatore pubblico – differenza, in larga parte, derivante anche dal contesto in cui tale regolazione si collocava – sulla base di due approcci fra loro concettualmente distinti: quello statunitense e quello europeo.
Inizialmente, il “digitale” e, quindi, il fenomeno di Internet, erano considerati come ambiti in grado di autoregolarsi; anzi, l’intervento regolatorio dei pubblici poteri avrebbe potuto significare una riduzione, financo una compressione, delle libertà economiche dei relativi operatori e, soprattutto, della libertà degli utenti. Il mondo digitale doveva essere quanto più libero possibile, anche e soprattutto dal diritto[22], dove il diritto non arrivava – se non eccezionalmente e, dunque, in funzione meramente sussidiaria – e dove i singoli operatori si sarebbero dotati delle regole necessarie allo svolgimento della loro attività, sul presupposto (anche) del fatto che fossero loro i conoscitori della “materia”, a differenza dei pubblici poteri, sprovvisti delle conoscenze tecnico-scientifiche necessarie a regolare fenomeni così complessi e, in particolare, nuovi. Ciò avrebbe altresì significato, dal lato degli utenti, un ampliamento della loro libertà, anzitutto di quella di manifestazione del pensiero: il mondo digitale come ampliamento della sfera di libertà di operatori e utenti e, di conseguenza, non sussisteva alcun motivo, per i pubblici poteri, di intervenire. Insomma, un mondo praticamente perfetto, dove regnavano autonomia (da…) e libertà (di…) e dove Internet era considerato quale «mezzo anarchico per natura, che la società degli uomini fatica a imbrigliare all’interno di una regolazione giuridica»[23]; una rete, dunque, caratterizzata da una «genetica vocazione libertaria» nonché diffidente dalle «forme di regolazione di tipo istituzionale»[24].
L’idea della necessità di un mondo digitale libero, da difendere dal potere (anzitutto pubblico), si inseriva in una fase storica contrassegnata dalla volontà di configurare uno spazio di libertà non sottoposto a restrizioni da parte degli stessi poteri pubblici e/o da altre autorità; di conseguenza, si tentava, anzitutto, di difendersi da una possibile ingerenza ad opera del legislatore. Inoltre, in quella medesima fase, soffiava forte il vento della retorica dei diritti (a discapito dei doveri) e, di conseguenza, l’ottica era quella di configurare un sistema di diritti e libertà intangibili per il potere pubblico che rappresentasse, cioè, una sorta di “carta dei diritti”[25]. Il nemico, per intendersi, era rappresentato dai pubblici poteri e dal nemico, si sa, è necessario difendersi, senza considerare che, in quella stessa fase – con riferimento al contesto europeo –, pur resistendo ancora retaggi non irrilevanti della visione organicistica[26], essa andava comunque lentamente sgretolandosi, assumendo, viceversa, sempre più vigore la persona come uti singulus, coerentemente con l’impostazione antropocentrica delle Carte costituzionali che, dopo decenni di non sempre piena attuazione sul fronte delle libertà, potevano ora vedere (o, almeno, questa era la speranza) la conquista di uno spazio di libertà pressoché assoluto, al riparo da ogni tipo di condizionamento esterno.
In una situazione come questa, quindi, era (e tende a continuare ad essere) il mercato che precede il regolatore[27], il quale non si limita a ciò poiché lo tiene anche “alla distanza”, se così si può dire, intravedendo in quest’ultimo un’“entità” di cui non si ha necessità alcuna, considerazione questa condivisa, nei fatti, anche dallo stesso legislatore che non manifestava certo particolare interesse nell’intervenire nella regolamentazione del settore in esame.
Tuttavia, come ormai noto e ampiamente dimostrato dalle condotte dei vari legislatori e, quindi, dai diversi atti normativi adottati negli ultimi anni, il mito dell’auto-regolazione è inesorabilmente naufragato e più nessuno ripete il mantra della sufficienza della sola regolamentazione privata[28], con buona pace, dunque, dell’idea stessa delle capacità benefiche, quasi “salvifiche”, dell’auto-regolazione. Questo approccio, almeno con riferimento al contesto europeo, costituiva una peculiarità in quanto si presentava come eccezione all’idea della necessità di regolare il mercato, assunto che riposa sull’esigenza di una regolazione pubblica per assicurare il gioco della concorrenza e creare così il mercato (potenzialmente) perfetto, quello, cioè, concorrenziale, il quale, così organizzato, assicurerebbe di conseguenza il benessere sociale, coerentemente con l’idea, di marca ordoliberale, riassunta nella nota formula dell’economia sociale di mercato fortemente competitiva (art. 3, par. 3, TUE) che è a fondamento della stessa costruzione dell’ordinamento europeo.
Questo approccio di tendenziale indifferenza nei confronti del mondo digitale e, in particolare, del relativo mercato, ha condotto ad una situazione caratterizzata dalla rapida formazione prima ed ascesa poi di veri e propri colossi del digitale, pochi ma assai potenti, in grado di condizionare arbitrariamente l’intero mercato, così come capaci di incidere unilateralmente sui pubblici poteri nonché sugli utenti-consumatori.
Questi soggetti hanno, dunque, finito per godere di quella che – da più parti e ormai comunemente – si definisce nei termini di “sovranità digitale”, una sorta, cioè, di condizione di supremazia nel mondo digitale che porta questi stessi soggetti ad essere i decisori, di fatto indiscussi, delle sorti stesse del mercato e, più in generale, della vita digitale di ciascun individuo.
L’abnorme concentrazione di potere (privato) nelle mani di pochi soggetti che si è così determinata ha reso, quindi, evidente ed ineludibile l’esigenza di apprestare un sistema (sia di regole che di limiti) per far fronte ad un potere, quello privato, munito della capacità di rendersi indipendente ed autonomo da ogni qualsivoglia tipologia di potere, a cominciare da quello pubblico e, per questo, potenzialmente assai pericoloso, anzitutto e soprattutto avuto riguardo ai diritti ed alle libertà fondamentali che, a vario titolo, vengono in rilievo nel mondo digitale e che ben possono essere da esso messe in discussione.
La sovranità digitale di questi poteri fa sì che essi tendano ad assumere «i tratti tipici di un ordinamento giuridico, autonomo dall’ordinamento generale»[29] ed il rischio che si cela dietro tale fenomeno è quello per cui «siano proprio le piattaforme, dopo aver invocato la libertà di espressione come giustificazione per l’assenza di eteroregolazione, ad assumere misure che possono incidere significativamente sulle libertà fondamentali, senza che siano previsti rimedi o correttivi idonei»[30].
Ovviamente, non si può omettere di ricordare i numerosi benefici che, in termini generali, la diffusione del web ha comportato per l’intera collettività; invero, la rapida e costante crescita di quest’ultimo «come strumento di comunicazione ha determinato, in senso positivo, un ampliamento degli spazi entro cui gli individui svolgono la propria personalità»[31]. Tuttavia, esso, come noto, «ha altresì ha parallelamente allargato, in senso negativo, la sfera dei comportamenti lesivi delle libertà altrui»[32] ed è per questo che è necessario un intervento dei pubblici poteri in funzione tanto regolamentare quanto regolatoria.
La priorità dei pubblici poteri, dunque – come è stato anche di recente osservato –, (dovrebbe) consiste(re) nel tentativo di «rompere i monopoli dei grandi gatekeepers e assicurare una regolamentazione pubblicistica delle nuove tecnologie digitali che sia in grado di contenere l’espansione illimitata di gruppi tecnologici privati a cui ha condotto il laissez-faire americano»[33].
Per quanto concerne, quindi, il rapporto fra auto-regolazione ed etero-regolazione, si può rilevare che l’auto-regolazione non si limita solamente ad arrivare sempre prima della seconda ma è onnipresente in quanto «consustanziale all’ideazione e alla fabbricazione di un prodotto o di un servizio»[34]. Di conseguenza, la regolazione pubblica «può solo inseguire ma scontando non solo il deficit iniziale di conoscenze specialistiche quanto, in realtà, un’asimmetria continua di informazioni e di saperi tecnici per via anche dei frequenti aggiornamenti che l’utilizzo di questi strumenti comporta»[35]. Ciò detto, rimane da capire se l’etero-regolazione sia in grado di recuperare tale svantaggio poiché, pur arrivando dopo, potrebbe, comunque, servirsi delle conoscenze tecniche dell’auto-regolazione e imporsi nei suoi confronti. Il fatto, poi, che quella regola tecnica (pro)venga originariamente da un soggetto privato, mettendo così in discussione l’eteronomia della fonte regolatoria, non rappresenta certo un problema insormontabile; invero, nel momento in cui interviene la regolazione pubblica si sopperisce a quel possibile aspetto problematico della derivazione privatistica della norma ed il vulnus alla tenuta del sistema democratico (che si fonda su una norma posta in essere dai pubblici poteri) è, così, agilmente risolto.
Chiarita l’esigenza di una regolazione pubblica, è opportuno mettere in luce rapidamente le ragioni del perché la regolazione antitrust, da sola, non sembra rispondere a tale esigenza[36]. Infatti, essa si basa sulla teoria del prezzo ma, in tali casi, essendo assente il prezzo – dato che la maggior parte delle piattaforme digitali non prevede né un costo di accesso né un costo circa il relativo utilizzo –, è evidente che la sua applicazione ponga più di un problema; detto altrimenti, non essendovi il prezzo viene quindi meno il presupposto stesso alla base del paradigma su cui si fonda la tradizionale regolazione di carattere antimonopolistico. Ecco, dunque, che si pone, anzitutto, la questione circa l’applicabilità – e, eventualmente, anche il profilo dell’effettività – di una regolazione di questo tipo. Il tema che allora si pone attiene all’esigenza di rivedere il concetto di concorrenza ed il suo contenuto[37], abbracciando l’idea di una regolazione concorrenziale che non si esaurisca nell’obiettivo di assicurare il “mercato perfetto” ma che, viceversa, contempli altri ed ulteriori interessi, come, ad esempio, quello relativo alla privacy, come già osservato in dottrina[38], ovvero quello alla libertà di manifestazione del pensiero, su cui si tornerà più diffusamente nel prosieguo.
- I due regolamenti del 2022: verso un nuovo modello di regolazione
Il legislatore europeo con l’intervento del 2022 in materia di mercati digitali (c.d. Digital Markets Act, da ora DMA)[39], muovendo dal presupposto per cui la tendenza all’auto-regolamentazione delle piattaforme digitali non abbia portato alla creazione di un mercato concorrenziale, quanto esattamente al suo opposto, ha deciso di intervenire per innestare la concorrenza in un mercato dove si può affermare che, di fatto, ve ne fosse ben poca traccia. Anche il regolamento sui servizi digitali (Digital Services Act, DSA), di poco successivo[40], pur avendo altro oggetto, si pone in linea di continuità con quello appena menzionato ed entrambi sembrano offrire significativi spunti di riflessione in ordine al modello regolatorio delle piattaforme digitali che appare andarsi configurando. Di conseguenza, saranno ambedue oggetto di esame, con particolare attenzione agli aspetti più rilevanti ai fini del presente contributo.
Il duplice intervento normativo così realizzatosi segna l’abbandono – con non poco ritardo – della precedente disciplina, quella, cioè, dei primi anni del secolo in materia di commercio elettronico[41], non più evidentemente attuale, essendo stata pensata per tutt’altro contesto, assai diverso da quello odierno caratterizzato da una ramificazione ben più estesa delle tecnologie digitali nonché da un loro più sofisticato e sviluppato avanzamento scientifico.
Per quanto concerne il primo, il DMA, esso si inserisce in un quadro regolatorio destinato a mutare a livello europeo anche per effetto di taluni interventi nazionali ad esso precedenti, come, ad esempio, quello del Parlamento tedesco che, agli inizi del 2021, ha adottato il decimo emendamento al Gesetz gegen Wettbewerbsbeschrankungen (GWB), in base al quale si è attribuito al Bundeskartellamt il potere di proibire una serie di differenti condotte poste in essere da quelle imprese più rilevanti nel mercato digitale, senza dover previamente rinvenire una violazione, da parte loro, dell’apparato normativo a difesa della concorrenza[42] o, ancora, quello dell’autorità inglese (Competition and Market Autority) che, nell’aprile dello stesso anno, ha deciso di istituire una Digital Market Unit (DMU) al fine di attuare un nuovo sistema di regolazione pensato per le piattaforme digitali dotate del c.d. strategic market status.
Gli obiettivi di tale intervento possono essere sintetizzati, da un lato, nella volontà di assicurare e, prima ancora, promuovere, condizioni di equità all’interno dei mercati digitali ove operano i c.d. gatekeeper e, dall’altro, assicurare in questi stessi mercati la loro contendibilità (messa a repentaglio dagli stessi gatekeeper). Infatti, in relazione al primo obiettivo, il regolamento prende in considerazione la circostanza (assai probabile) per cui, in ragione di una serie di loro caratteristiche[43], esse arrechino gravi squilibri a livello anzitutto di potere negoziale, con ciò che ne deriva in punto di pratiche sleali nonché condizioni inique, sia rispetto ai c.d. utenti commerciali che avuto riguardo agli utenti finali dei servizi di piattaforma somministrati dai gatekeeper. Tutto ciò, è evidente, si traduce, per esempio, in un potenziale aumento dei prezzi, così come in un possibile deterioramento della qualità dei relativi servizi[44].
Questa situazione, osserva il legislatore, fa sì che, sovente, i processi di mercato non siano in concreto in grado di garantire risultati economici equi rispetto ai servizi di piattaforma di base. Nonostante le previsioni di cui agli articoli 101 e 102 del TFUE si applichino, in teoria, anche al comportamento dei gatekeeper, il loro ambito di operatività è, comunque, limitato a talune tipologie di c.d. potere di mercato (come, a titolo di esempio, una posizione dominante in mercati specifici) e di comportamento ritenuto contrario al principio concorrenziale e, soprattutto, la loro applicazione avviene ex post, oltre a richiedere un’indagine approfondita, caso per caso, di fatti che, spesso, sono molto complessi da provare in concreto. In aggiunta, si deve considerare che il diritto vigente dell’UE non affronta – o, comunque, lo fa in maniera poco efficace – i problemi concernenti l’efficiente funzionamento del mercato interno, problemi che sono, per lo più, imputabili al comportamento dei gatekeeper, la cui posizione, ai fini del diritto della concorrenza, non sempre rileva in termini di posizione dominante.
Per quanto attiene, al contrario, al secondo obiettivo, il legislatore ricorda innanzitutto l’impatto significativo dei gatekeeper sul mercato in quanto forniscono i c.d. gateway (ossia punti di accesso) ad un numero assai elevato di utenti commerciali al fine di raggiungere così gli utenti finali in tutta l’UE. In ragione sia delle pratiche sleali sempre più frequenti nonché della assai scarsa contendibilità dei servizi di piattaforma di base parte dei legislatori nazionali, come noto, l’UE e, quindi, i singoli Stati, si sono trovati costretti ad intervenire; del resto, tali pratiche causavano problemi al funzionamento del mercato, determinando una serie di ripercussioni negative, tanto a livello economico quanto sociale. Gli interventi normativi a livello statale così realizzati, tuttavia, hanno contribuito a frammentare il mercato unico, accrescendo così il rischio di un aumento generalizzato dei costi in ragione dei differenti requisiti richiesti a livello nazionale ai vari gatekeeper[45].
Pertanto, si pone l’esigenza di operare un riavvicinamento delle diverse legislazioni; solamente in questo modo sarà possibile rimuovere gli ostacoli che impediscono una condizione di libertà sotto il profilo della fornitura dei servizi digitali e avere di conseguenza la possibilità di poterne usufruire con maggiore facilità. Dunque, il legislatore intende configurare, a livello europeo, taluni obblighi al fine di garantire che i mercati digitali siano effettivamente equi e contendibili, dove la presenza dei gateekeeper non è ostacolata ma, diversamente, configurata in maniera tale da risultare vantaggiosa per l’intera economia europea e, quindi, per gli stessi consumatori finali[46]. Sotto questo profilo, è coerente la previsione per cui «gli Stati membri non impongono ulteriori obblighi ai gatekeeper per mezzo di leggi, regolamenti o misure amministrative allo scopo di garantire l’equità e la contendibilità dei mercati»[47].
In relazione alla questione concernente il tipo di regolazione che il legislatore ha voluto adottare attraverso il presente regolamento, è opportuno sottolineare che con tale disciplina si intende integrare il quadro normativo in materia di concorrenza. Invero, l’introduzione di questa normativa non dovrebbe comportare il venir meno dell’applicazione (una sorta, cioè, di abrogazione implicita) delle disposizioni di cui agli articoli 101 e 102 TFUE, così come, allo stesso modo, delle relative discipline a livello nazionale in materia di concorrenza nonché delle altre norme (sempre a livello nazionale) in materia di concorrenza che prendono in considerazione quei comportamenti unilaterali basati su una valutazione, caso per caso, delle posizioni nonché dei comportamenti di mercato, oltre che quelle relative al controllo delle concentrazioni[48]. Pur non volendo superare la tradizionale disciplina concorrenziale, si tratta, in ogni caso, di un intervento che non può essere inquadrato al suo interno, nel senso, cioè, che si è in presenza di una regolazione apposita per tale mercato e che, come noto, si rivolge solo ad alcuni determinati soggetti che in tale mercato operano (e di cui sono, di fatto, i padroni indiscussi). Non a caso, si afferma espressamente che, se con gli articoli 101 e 102 TFUE e con le altre normative nazionali in materia l’obiettivo è quello di assicurare «la protezione della concorrenza non falsata sul mercato»[49], con il presente regolamento, al contrario, si vuole perseguire un obiettivo che è sì complementare ma che è, comunque, distinto dalla «protezione della concorrenza non falsata su un dato mercato, quale definita in termini di diritto della concorrenza»[50]. Tale obiettivo, prosegue il legislatore, «consiste nel garantire che i mercati in cui sono presenti gatekeeper siano e rimangano equi e contendibili, indipendentemente dagli effetti reali, potenziali o presunti sulla concorrenza in un dato mercato derivanti dal comportamento di un dato gatekeeper contemplato dal presente regolamento»[51]. Di conseguenza, il regolamento in esame si preoccupa di proteggere un interesse giuridico differente rispetto a quello protetto dalle disposizioni che compongono l’apparato tradizionale della normativa concorrenziale e, dunque, «dovrebbe applicarsi senza pregiudicare l’applicazione di queste ultime»[52].
Si tratta di un intervento che attribuisce un ruolo centrale e di particolare rilievo alla Commissione, tanto nell’individuazione dei gatekeeper quanto con riferimento agli obblighi alla cui osservanza tali soggetti sono tenuti. Del resto, le caratteristiche che determinano la qualificazione in termini di gatekeeper, per come configurate, lasciano inevitabilmente un apprezzabile margine di valutazione alla Commissione circa l’attribuzione o meno di suddetta qualifica. Ai fini dell’applicazione del regolamento in esame si fa, infatti, riferimento a soggetti che hanno «un impatto significativo sul mercato interno» ovvero che forniscono «un servizio di piattaforma di base che costituisce un punto di accesso (gateway) importante affinché gli utenti commerciali raggiungano gli utenti finali» e, infine, che detengono «una posizione consolidata e duratura, nell’ambito delle proprie attività, o è prevedibile che acquisisca siffatta posizione nel prossimo futuro»[53]. È evidente come queste caratteristiche si prestino a diverse interpretazioni e gli indici presuntivi ivi previsti, pur riducendo senza dubbio tale ampio margine di apprezzamento, non sono certo in grado di annullarlo o, comunque, di ridurlo significativamente.
Per quanto riguarda, invece, gli obblighi imposti ai gatekeeper, essi si possono dividere in due categorie: una prima che è composta da obblighi già compiutamente definiti (che costituiscono, cioè, una sorta di numerus clausus) e che non necessitano di alcuna specificazione da parte della Commissione (art. 5), e quelli che, viceversa, sono suscettibili un intervento ad opera di quest’ultima, rispetto ai quali il potere della stessa Commissione è evidentemente maggiore (art. 6).
In relazione alla violazione di tali obblighi, con l’aggiunta di quello specifico relativo all’interoperabilità dei servizi di comunicazione interpersonale indipendenti dal numero (art. 7), si prevede che la Commissione – a seguito di un’indagine di mercato della durata massima di 12 mesi – possa adottare un atto di esecuzione che imponga a tali gatekeeper «qualsiasi rimedio comportamentale o strutturale proporzionato e necessario per garantire l’effettivo rispetto del presente regolamento»[54]. Si tratta di un potere configurato in termini particolarmente generici che, probabilmente, consentirà l’assunzione, da parte della Commissione, di una serie di misure fra loro fortemente eterogenee. Sicuramente si è dinanzi ad un potere sanzionatorio che offre una pluralità – potenzialmente assai numerosa – di possibili misure da adottare e che, come tale, è altresì caratterizzato da una evidente dose di flessibilità.
Da tale regolamento sembra, quindi, profilarsi un nuovo modello regolatorio che si basa su tre differenti elementi: i) un ruolo centrale della Commissione, ii) la predeterminazione delle misure e iii) un ampio margine di libertà, in capo alla stessa Commissione – sotto il profilo dell’individuazione dei gatekeeper – della specificazione degli obblighi e, da ultimo, delle misure sanzionatorie.
Tutto ciò fa sì che il modello regolatorio che appare emergere possa essere qualificato nei termini di una regolazione c.d. ex ante[55] – a differenza di quella tradizionale antitrust che, all’opposto, si fonda su misure ex post – e, soprattutto, flessibile, come si avrà modo di osservare meglio più avanti.
L’altro regolamento, il DSA, si pone in linea di continuità con il DMA. Invero, attraverso tale intervento il legislatore mira ad apprestare una regolamentazione dei servizi digitali, prevedendo una serie di obblighi al fine di tutelare e migliorare il funzionamento del mercato interno, dettando le condizioni necessarie per lo sviluppo nonché l’espansione di servizi digitali innovativi nel mercato interno. Ad avviso del legislatore, uniformare le singole misure nazionali di regolamentazione in materia di obblighi per i prestatori di servizi intermediari costituisce un punto essenziale per risolvere ed evitare la frammentazione del mercato interno e garantire la certezza del diritto, riducendo, così, l’incertezza per gli sviluppatori, da un lato, e promuovendo l’interoperabilità, dall’altro. Inoltre, il fatto di ricorrere a prescrizioni tecnologicamente di carattere neutro dovrebbe determinare uno stimolo in punto di innovazione[56].
È, infatti, fondamentale un intervento armonizzante a livello europeo allo scopo di offrire alle imprese la possibilità di fare ingresso in nuovi mercati ed avere l’opportunità di sfruttare i vantaggi derivanti dallo stesso mercato interno, consentendo, al contempo, ai consumatori ed agli altri destinatari dei servizi la possibilità di disporre di una scelta più vasta[57].
Attraverso tale regolamento si tenta di assicurare un comportamento, da parte dei prestatori di servizi intermediari, improntato alla responsabilità ed alla diligenza, comportamento ritenuto dal legislatore essenziale per poter godere di un ambiente online sicuro, che sia prevedibile ed affidabile e, inoltre, per poter consentire ai cittadini di esercitare i loro diritti garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a partire dalla libertà di espressione e di informazione[58], così come la libertà di impresa ed il diritto alla non discriminazione, nella prospettiva di conseguire un livello elevato di protezione degli stessi consumatori[59].
Ciò osservato, preme, ad ogni modo, sottolineare che il DSA non offra, in realtà, particolari indicazioni circa il modello di regolazione prescelto da legislatore europeo, occupandosi, infatti, in particolare, di questioni procedurali più che sostanziali. Ciò non significa, tuttavia, che sia del tutto assente una disciplina regolatoria, avendo questa – o, comunque, potendo avere – una marcata valenza procedurale[60]; al contrario, significa negare, da questo punto di vista, l’opzione, da parte del legislatore, per un modello specifico di regolazione.
Pertanto, sembra possibile affermare – avuto particolare riguardo al DMA, per le ragioni già dette – che l’impianto regolatorio che ne deriva sia il frutto, per così dire, di una combinazione di diversi modelli regolatori, ascrivibili tanto alla classica regolazione pro-concorrenziale quanto ad un tipo di regolazione che risponde ai caratteri della regolazione ex ante, ossia una regolazione che ha una funzione preventiva, che tenta, cioè, di guidare l’oggetto da essa regolato, provando, per quanto possibile, ad anticipare fatti e condotte, anziché essere da essi travolta e trovarsi, quindi, sempre in ritardo rispetto all’emersione di nuovi fenomeni o, comunque, dei mutamenti ad essi connessi ovvero conseguenti.
- La co-regolazione: sì, ma quale?
Il settore delle piattaforme digitali è, come ormai noto, caratterizzato da quel fenomeno di produzione normativa che si è soliti definire nei termini di “co-determinazione”, ove pubblico e privato si fondono nella direzione (da taluni auspicata) di un superamento della distinzione fra diritto pubblico e diritto privato[61]. Si assiste ad un fenomeno che, per certi versi, non è del tutto nuovo: basti pensare – come di recente osservato in dottrina[62] e con riferimento al diritto interno – al settore del diritto del lavoro e a come lo strumento della legge, da un lato, e quello contrattuale, dall’altro, abbiano per così dire cooperato (e continuino a farlo) nella disciplina e nella regolazione, ad esempio, dei rapporti di lavoro, compreso – e, per certi versi, soprattutto con riferimento a – quello pubblico privatizzato.
Posta la necessità di configurare una regolazione delle piattaforme digitali, anche alla luce di quanto disposto dai regolamenti da ultimo analizzati – con la conseguenza di abbandonare definitivamente la stagione dell’auto-regolazione –, si tratta di capire quale tipo di regolazione meglio si presta al governo del mondo digitale. In altri termini, si pone l’esigenza di comprendere come e quanto regolare, il sé (ossia la necessità di una sua regolazione) lo si dà per presupposto.
Alla tradizionale macro-distinzione fra auto-regolazione privata, da una parte, ed etero-normazione pubblica, dall’altra – che si tende a tradurre in una vera e propria polarizzazione fra le due[63] –, sembra possibile enucleare, come già osservato in dottrina[64], una terza forma di regolazione, quella che si è soliti definire nei termini di “co-regolazione”. Si tratta di una terza via di regolazione che tenta di riprendere gli aspetti postivi delle altre due tipologie di regolazione, accantonando, invece, quei profili che si sono rivelati essere a tutti gli effetti punti di debolezza che non permettono, quindi, di configurare una regolazione efficace ed effettiva di un mondo, quello delle tecnologie digitali, che – per ragioni note ed in parte già viste e per altre che si analizzeranno più avanti –, rappresenta un ambito a sé che necessita di una regolazione ad hoc, come, non a caso, fa il DMA. Quest’ultimo, del resto, sembra proprio accedere ad un tipo di regolazione che è riconducibile al modello della co-regolazione. Tuttavia, rimane da capire come debba essere articolato tale modello e, soprattutto, quale rapporto instaurare fra i pubblici poteri, da una parte, e le piattaforme, dall’altra, e, dunque, quale sia il punto di equilibrio più coerente con il ruolo che l’ordinamento riconosce ad entrambi o, meglio – in termini più ampi–, quello più coerente con l’ordinamento stesso nel suo complesso, a partire dal delicato profilo della legittimità delle relative scelte assunte.
La co-regolazione, come noto, implica un ruolo attivo tanto dei pubblici poteri quanto di quelli privati[65] e riposa sull’idea di una loro stretta cooperazione nella regolazione di un dato fenomeno.
Essa, dal punto di vista dell’ordinamento europeo, sembra rinvenire la propria legittimazione nell’ambito della Strategia sulla qualità della regolazione che l’UE porta avanti da, ormai, quasi un quarto di secolo e che, più di recente, ha visto un ulteriore ed importante sviluppo. Infatti, nell’aprile del 2021, la Commissione[66] ha presentato una strategia per fare il punto della situazione rispetto al tema del “legiferare meglio”, mettendo in luce i punti di forza di tale approccio ma anche quelli di debolezza che si sono verificati nel corso degli anni. In essa si ricorda un elemento centrale della Better regulation Strategy, vale a dire il coinvolgimento, nel processo decisionale, (anche) della c.d. società civile e, quindi, di cittadini e imprese (ai cui interessi la presente comunicazione è particolarmente attenta). Sotto questo profilo, come ricordato di recente in dottrina[67], utili indicazioni derivano dal manuale di istruzioni per il c.d. drafting, scritto anzitutto per fornire indicazioni ai funzionari dell’UE; nell’ultima versione di tale manuale, invero, fra i possibili strumenti cui ricorrere per una migliore regolazione si richiama proprio quello della co-regolazione, strumento che rientra nelle misure di soft regulation.
Si tratta, quindi, di un modello di regolazione dove i compiti fra il pubblico ed il privato sono così ripartiti: ai pubblici poteri spetta di stabilire e definire quelli che sono i principi e gli obiettivi che si intende conseguire, mentre ai privati, sempre assieme ai primi (con i quali sono tenuti a collaborare), compete di dettare le disposizioni di carattere esecutivo-attuativo. La ragione di tale assetto è presto detta: mentre la presenza dei pubblici poteri serve in quanto si assicura così una forma di regolazione pubblica, dove, cioè, i pubblici poteri hanno un ruolo di primo piano[68], la presenza dei privati, invece, serve per poter sfruttare le loro conoscenze, il know-how di cui godono, senza il quale la regolazione non potrebbe essere efficace.
Ciò, dunque, offre una serie di indicazioni rispetto al profilo che si metteva in luce in precedenza, ossia il rapporto che si instaura fra pubblico e privato; in ogni caso, è comunque opportuno proseguire su questo punto al fine di sottolineare come, benché vi sia una stretta cooperazione, il rapporto non sia e non possa essere “alla pari”, e la risposta di ciò è da ricercarsi, in ultima analisi, nel concetto stesso di interesse pubblico.
La co-regolazione non implica affatto di dover porre sul medesimo identico piano i poteri pubblici e i poteri privati; differente, infatti, è, anzitutto e soprattutto, il fine da essi perseguito: mentre i primi sono istituzionalmente preordinati a curare l’interesse pubblico (cura che costituisce, al fondo, l’essenza e la giustificazione della loro stessa istituzione), i secondi sono legittimamente dediti al conseguimento del proprio interesse egoistico. Pertanto, ritenere equiparabili questi due diversi poteri, in tali casi, finisce per rischiare di sfociare nella messa in discussione del presupposto su cui si fondono le democrazie liberali, le quali, diversamente, si reggono sull’assunto per cui l’interesse pubblico è predeterminato dai pubblici poteri in qualità di rappresentanti dei cittadini e non, invece, oggetto di una contrattazione con i poteri privati, contrattazione che è, inevitabilmente, al ribasso in ragione dell’asimmetria informativa che sussiste fra i due e, più in generale, a causa del forte potere economico di questi ultimi[69]. Una determinazione dell’interesse da perseguire che, se avvenisse sulla base di una contrattazione fra pubblico e privato, farebbe sì che il suo contenuto non sarebbe più quello tradizionale, risolvendo in termini negativi il quesito circa la possibilità di poter ancora parlare, in tali fattispecie, di interesse pubblico. Si tratterebbe, in altri termini, di un interesse compromesso poiché avrebbe alla sua base un vizio di origine: quello di dover rappresentare non tanto e non solo gli interessi della collettività di riferimento, bensì anche e soprattutto interessi che con essi – non essendo stati selezionati dai pubblici poteri – difficilmente sarebbero collimanti; anzi, probabilmente risulterebbero spesso contrastanti con questi stessi interessi, snaturando la funzione propria dei pubblici poteri, con la conseguenza di assoggettarli ad una condizione servente dei forti poteri privati (con tutto ciò che ne deriva in termini di possibili ricatti) e dei loro interessi economici.
La co-regolazione, presupponendo un ruolo rilevante dei privati, deve, tuttavia, necessariamente concedere loro qualcosa, non è pensabile che soggetti privati collaborino o cooperino senza trarre da tale attività alcun vantaggio[70]. L’idea di un apporto dei privati che si traduce unicamente in un “do” senza implicare anche un “des” è un’idea che pecca di ottimismo, a tratti ingenua, smentita, a più riprese, dalla realtà delle cose.
Qual è, quindi, il vantaggio per i privati, posto che non possa non esservi un vantaggio se si vuole la loro collaborazione? Un esempio è rappresentato dall’art. 45 del DSA, in base al quale la «Commissione ed il comitato incoraggiano e agevolano l’elaborazione di codici di condotta volontari a livello di Unione per contribuire alla corretta applicazione del presente regolamento, tenendo conto in particolare delle sfide specifiche connesse alla lotta ai diversi tipi di contenuti illegali e ai rischi sistemici, conformemente al diritto dell’Unione». Tale disposizione, come già rilevato, «legittima sul piano positivo l’assunzione da parte delle big tech di inediti compiti para-normativi»[71] e ciò potrebbe rappresentare un aspetto problematico. Tuttavia, è opportuno considerare che questa previsione risponde all’esigenza di cui si diceva prima, ossia quella di dover inevitabilmente riconoscere qualcosa ai privati (in questo caso contribuire alla formazione dei codici di condotta)[72]. Inoltre, è la dimostrazione della necessità dei privati ai fini della regolazione; non è un caso, invero, che la giustificazione di tale spinta ad adottare codici di condotta risieda nell’esigenza di una corretta applicazione del presente regolamento.
La presenza dei privati nella regolazione del mondo digitale sembra, dunque, rappresentare un “sacrificio” che non pare possibile evitare dato che non solo essa è di particolare importanza ma, al momento, è anche imprescindibile in ogni qualsivoglia regolazione della materia in ragione delle conoscenze tecniche che costituiscono, di fatto, patrimonio (in buona parte) esclusivo di tali soggetti, conosciuto solo in termini superficiali e parziali da parte dei pubblici poteri.
Alla luce di quanto osservato, sembra, quindi, possibile svolgere qualche considerazione conclusiva circa il modello di co-regolazione, per tentare di offrire taluni spunti in ordine alla domanda avente ad oggetto il tipo di co-regolazione. Essa appare costruirsi sulla base di tre elementi che ruotano attorno: i) al rapporto fra pubblico e privato (ovvero, se si preferisce, fra pubblici poteri e poteri privati digitali), ii) alla combinazione fra hard-regulation e soft-regulation e, infine, iii) all’importanza del coordinamento.
In ordine al primo, pur essendo inevitabile la presenza dei poteri privati, essi non sono e non devono essere posti sul medesimo piano dei pubblici poteri per le ragioni già dette e che possono essere riassunte nell’assenza della loro legittimazione democratica e nella necessità che il contenuto dell’interesse pubblico da perseguire in concreto sia il risultato di una scelta ascrivibile (almeno con riferimento al suo contenuto di ordine generale) agli stessi pubblici poteri che godono, appunto, della legittimazione democratica necessaria ad effettuare le scelte (e, quindi, anche i sacrifici, allorché necessari) che il perseguimento dell’interesse pubblico inevitabilmente richiede di assumere.
Rispetto, invece, al rapporto tra hard regulation e soft regulation, sembra possibile osservare che il modello di co-regolazione che emerge dai due regolamenti – e che, come visto, è da ascrivere a quest’ultima –, in realtà, sia caratterizzato anche da qualche elemento tipico dell’hard regulation che appare, al fondo, necessario in ragione dell’esigenza di una regolazione che, comunque, deve (e sembra voglia essere) incisiva per far fronte allo (stra)potere dei colossi digitali. Invero, tale co-regolazione riprende parte dei tratti tipici delle misure di hard-regulation, vale a dire quelle regole dotate del carattere della vincolatività. Si pensi, per esempio, agli obblighi – taluni particolarmente stringenti – che sia il DMA che il DSA impongono alle piattaforme digitali, ovvero alle misure che la Commissione può adottare allorché dovesse manifestare una violazione di tali obblighi.
Si tratta, dunque, di un tipo di regolazione che combina elementi tipici della hard-regulation (per quanto attiene alla vincolatezza ed all’intensità forte della regolazione), con quelli tipici della soft-regulation, ossia la flessibilità delle previsioni, non da intendere come derogabilità delle stesse bensì come capacità di mutare la regolazione e adattarla alle nuove esigenze, flessibilità testimoniata dal fatto che – come osservato – buona parte delle disposizioni dei regolamenti attribuiscono un ampio margine di valutazione e, quindi, di intervento, alla Commissione, la quale può calibrare diversamente le singole misure da adottare a seconda delle varie esigenze e dei diversi profili problematici che si trova a dover affrontare.
Infine, con riferimento al terzo elemento, appare evidente la centralità del coordinamento anzitutto fra i due attori della co-regolazione e, più in generale, fra i vari soggetti che sono chiamati alla regolazione delle piattaforme digitali. Ciò è coerente col fatto che all’interno della categoria della self-regulation, la casa, cioè, di origine della co-regolazione, è ricompreso il c.d. metodo aperto di coordinamento e l’esigenza del coordinamento è il naturale completamento del profilo della cooperazione – di cui si diceva poc’anzi –, la quale costituisce il presupposto di tale modello regolatorio. Il DMA, sotto questo profilo, dedica, non a caso, due articoli alla «cooperazione con le autorità nazionali» (art. 37) ed alla «cooperazione e coordinamento con le autorità nazionali competenti che applicano le norme in materia di concorrenza» (art. 38), senza dimenticare che l’esigenza di cooperazione, alla base del coordinamento, riveste importanza anche in relazione agli organi giurisdizionali nazionali (art. 39).
La co-regolazione flessibile si pone, dunque, in rotta di collisione con l’idea, di derivazione statunitense, per cui l’auto-regolazione sarebbe «sempre preferibile all’eteroregolazione, anche in ragione della flessibilità della prima rispetto alla rigidità della seconda»[73], smentendo l’assunto in forza del quale ove ci sia regolazione pubblica non possa esservi flessibilità della stessa: dipende da come la si configura.
La co-regolazione, quindi, come opzione non ideologica (di cui, talvolta, sono ammantate le ricostruzioni in termini di auto-regolazione ovvero di etero-regolazione) bensì quale modello regolatorio razionale ed anche di buon senso, per una serie di ragioni che si è cercato di delineare e che sono legate, sia pur a vario titolo, alla constatazione per cui – in ultima istanza e come già anticipato – la tecnologia digitale è «caratterizzata da un mix tale di complessità specialistica e rapidità evolutiva che in molti casi solo i destinatari stessi delle norme sono in possesso delle conoscenze necessarie a svolgere il compito normativo»[74] e che rendono, di conseguenza, insopprimibile la loro presenza, sia pur guidata e limitata dai pubblici poteri, i quali mantengono (devono mantenere) il potere circa la decisione finale e, dunque, l’assetto definitivo da attribuire agli interessi in gioco.
- Regolazione forte delle piattaforme digitali e ruolo della concorrenza
Nelle pagine precedenti si è visto come la regolazione antitrust non si attagli al mondo delle piattaforme digitali, o meglio, il tradizionale modello di regolazione antitrust non sia, da solo, sufficiente a regolare un ambito delicato come quello delle piattaforme digitali, caratterizzato da pochi ma potenti “colossi”. In questo senso, infatti, si muovono gli interventi del legislatore europeo che, di recente, ha configurato una regolamentazione, attraverso il DMA e il DSA, la quale, partendo proprio dal presupposto dell’insufficienza della regolazione antitrust – testimoniata dall’assenza, di fatto, nel settore digitale di un mercato concorrenziale, assistendo, viceversa, ad un mercato oligopolistico – ha introdotto una specifica regolazione che tenta di contrastare lo strapotere delle piattaforme per mezzo dell’introduzione di regole tese ad instaurare un regime concorrenziale.
Sotto questo profilo, assume particolare rilievo il concetto di “servizio di piattaforma di base” fatto proprio dal DMA[75]. Si tratta di un concetto che serve per tentare di configurare un sistema di monitoraggio della quota di controllo del mercato digitale da parte dei pochi ma potenti poteri privati in qualità di oligopolisti. Al momento, la Commissione, dopo aver individuato sei gatekeeper (lphabet, Amazon, Apple, ByteDance, Meta e Microsoft), ha designato ben ventidue servizi di base forniti dagli stessi gatekeeper, ed altri ancora se ne potrebbero aggiungere in futuro. Si va dai social network (TikTok, Facebook, Instagram e LinkedIn), ai browser (Safari e Chrome), ai sistemi operativi (Google Android, iOs e Windows Pc Os), ai software per spazi pubblicitari (Google, Amazon e Meta), fino ai servizi di intermediazione (Google Maps, Google Play, Google Shopping, Amazon Marketplace, App Store e Meta Marketplace) nonché a quelli di messaggistica (WhatsApp e Messenger), senza considerare che vi rientrano altresì piattaforme quali Google Search (in qualità di motore di ricerca) e YouTube (nella veste di piattaforma abilitata alla condivisione di video).
Si assiste, quindi, ad un passaggio da un sistema basato sulle autorità antitrust ad uno dove i pubblici poteri, in particolare la Commissione, rivestono un ruolo centrale. Un modello, cioè, di regolazione che – con tutti i limiti del caso ed al netto di una serie di criticità, come si avrà modo di osservare – va verso uno spostamento del potere decisionale: da una regolazione antitrust (e, quindi, in teoria neutrale), infatti, ad una politica, segnando un’inversione di rotta rispetto a quanto accaduto negli ultimi decenni, i quali hanno visto ampliare il raggio di azione delle autorità indipendenti (nelle loro molteplici differenti forme). Invero, sulla base di una tendenziale maggiore efficacia della logica tecnocratica – che accampa la pretesa di informare di neutralità ciò che non sempre lo può essere dal punto di vista ontologico poiché, talvolta, implica inevitabilmente una scelta a fronte di più opzioni allo stesso modo scientificamente fondate e, dunque, sotto questo profilo, valide[76] –, si riteneva che un soggetto indipendente come le autorità fosse meglio in grado di regolare materie dall’alto tasso di tecnicismo e dove sono in gioco interessi sensibili, a discapito così dell’etero-regolazione che ha tradizionalmente nei pubblici poteri il centro propulsore della propria azione.
Il ruolo centrale della Commissione è, inoltre, testimoniato dal potere che le è attribuito al fine di evitare le c.d. killer acquisition, vale a dire le acquisizioni (da parte delle aziende dominatrici del mercato digitale) delle società emergenti in quel mercato, per impedire con ciò – è evidente – un’elusione della normativa[77] in questione finalizzata alla riacquisizione della quota di mercato perduta, il che condurrebbe le piattaforme digitali a riacquisire quel forte potere che il legislatore aveva, invece, tentato di ridimensionare o, comunque, contenere.
Il modello di regolazione che sembra, dunque, emergere e che appare richiesto dall’attuale assetto sbilanciato a tutto favore delle piattaforme digitali è, come visto, un modello che risponde al prototipo della co-regolazione, dotato di una non irrilevante dose di flessibilità, la quale è assolutamente necessaria e dalla quale non pare si possa in alcun modo prescindere. La regolazione, in questo settore, se non è flessibile, rischia di configurare un quadro di regole che, in un lasso di tempo piuttosto breve, è assai probabile che si riveli antiquato e non più “al passo con i tempi”, ingenerando confusione e incertezza fra gli operatori e, di conseguenza, fra gli stessi consumatori-utenti.
La regolazione ex ante mira, quindi, anche a prevenire i possibili – anzi, constatando la realtà di fatto degli ultimi anni, verrebbe da dire assai probabili – fallimenti del mercato.
La precarietà della norma tecnica pubblica[78] può essere un punto di forza del modello della regolazione flessibile, la quale, è chiaro, rende possibile – ed in ciò rinviene buona parte delle ragioni della sua stessa configurazione in termini di flessibilità – quel continuo e puntuale aggiornamento che si pone come necessario per tentare di governare, e quindi in parte anche anticipare, le evoluzioni tecnologiche.
Si tratta, dunque, di una regolazione che si potrebbe definire – anche alla luce di quanto osservato circa i rapporti fra pubblico e privato – come “co-regolazione flessibile non paritaria” che interviene in funzione preventiva per regolare ed orientare il fenomeno del digitale.
È, tuttavia, auspicabile che tale regolazione non sia solamente flessibile ma anche “forte”. Si intende con ciò sottolineare la necessità di una regolazione forte non – come si potrebbe in un primo momento ritenere – nel senso di una regolazione preordinata alla contrazione dello spazio (di autonomia) dei privati sulla base di un generale (e da taluni auspicato) ritorno sulla scena dei poteri pubblici in funzione, quindi, anti-mercato, bensì l’esatto opposto: una regolazione che si traduce in un intervento teso ad attuare il regime concorrenziale, ossia una regolazione che si muove entro la logica del mercato e coerente – da questo punto di vista – con l’idea di fondo su cui si regge lo stesso ordinamento europeo, ossia quella che fa capo al(l’economia sociale di mercato) fortemente competitiva (art. 3, par. 3, TUE).
La regolazione attuale che emerge, in particolare, dai più recenti interventi legislativi a livello europeo, è flessibile ma non ancora del tutto forte poiché mira a conseguire gli obiettivi senza tendenzialmente individuare gli strumenti e le modalità per conseguirli, mentre, all’opposto, è necessario che l’orizzonte della riflessione si concentri anche su questo profilo, ossia quello dell’esigenza di più regole prescrittive e di una maggiore predeterminazione dei comportamenti da sanzionare. Un mix, cioè, di flessibilità (da intendere come capacità di adattamento della regolazione ai mutamenti della realtà) ed incisività (da declinare nel senso di più regole prescrittive ed un potere pubblico più forte, sia in funzione preventiva che repressiva).
Per esempio, il sistema di sanzioni configurato dal legislatore europeo attraverso il DMA, sembra peccare di coraggio, dando luogo ad una serie di sanzioni affette da quella che si potrebbe definire nei termini di “timidezza legislativa”. Le ammende del 10% (art. 30, par. 1) e del 20 % (art. 30, par. 2) – la cui percentuale è da calcolare avuto riguardo al fatturato totale del gatekeeper realizzato a livello mondiale nel corso del precedente esercizio finanziario – sono condivisibili ma avrebbero ben potuto prevedere ulteriori e più alte percentuali, da parametrare, ovviamente, in rapporto alla gravità della condotta tenuta ed al tipo di obbligo violato (in linea, così, al criterio di proporzionalità che assiste in generale le sanzioni), dato che l’efficacia deterrente di una sanzione, come noto, si misura sulla base della ricchezza posseduta (colpita in quanto detenuta) o, come in tal caso, sul fatturato (colpito in quanto generato).
In altre parole, la percentuale, di per sé, dice poco circa la capacità di una sanzione di impedire quel determinato comportamento poiché ciò che, al fondo, effettivamente rileva, è quanto incide quella specifica misura sul soggetto in questione, senza considerare che quella determinata percentuale non ha lo stesso peso per tutte le imprese. Pertanto, in generale, è preferibile ricorrere ad una differenziazione, prevedendo più ammende e, quindi, diverse percentuali proporzionate alla gravità dell’infrazione commessa. Inoltre, nel caso di specie, essendo sanzioni applicabili ad imprese di grandi dimensioni e dagli elevati fatturati, si sarebbe potuto auspicare maggiore coraggio dal legislatore, magari prevedendone di ulteriori, dato che le due previste – per quanto possano tradursi in ingenti quantità economiche – costituiscono, comunque, una parte residuale del fatturato e, perciò, rispetto ad esse, appare lecito dubitare della relativa forza deterrente.
In tutto ciò, prima di concludere, preme sottolineare il valore che la concorrenza sembrerebbe destinata a (dover) rivestire. Essa, in questi casi, serve per recedere lo strapotere e la connessa condizione di oligopolio in cui tali poteri agiscono liberi ed indisturbati. Una concorrenza, quindi, non come “fine” o, comunque, come strumentale unicamente alla tutela del mercato in sé, ma, diversamente, quale strumento che ha di mira, in ultima istanza, sempre gli operatori economici e, dunque, i consumatori-utenti. Una concorrenza, in altre parole, come strumento di riequilibrio fra le differenti posizioni di forza, al fine di ricondurre esse ad una situazione di maggiore uguaglianza, una concorrenza che, in ultimissima analisi, si prefigge (anche) di assolvere compiti che – utilizzando un’espressione a cui si fa sempre meno ricorso – un tempo rientravano nella finalità di assicurare la giustizia sociale, alla cui attuazione il diritto più in generale dovrebbe tendere: lo impongono, del resto, le stesse Carte costituzionali degli ordinamenti europei, le quali hanno l’ambizione di tenere assieme libertà individuale, da un lato, e giustizia sociale, dall’altro, l’una (quest’ultima) come precondizione per assicurare l’effettiva realizzazione dell’altra (la prima) e, quindi, del pieno sviluppo della personalità di ciascun essere umano, rispetto al quale una componente fondamentale che viene in rilievo nel settore digitale è – come già anticipato – la libertà di manifestazione del pensiero.
- La libertà di manifestazione del pensiero in rete ed i suoi aspetti problematici: in particolare, il caso delle fake news e del hate speech
La prima premessa da cui partire – benché a tutti nota – è che la libertà di manifestazione del pensiero rappresenta un diritto fondamentale riconosciuto e tutelato tanto sul piano internazionale quanto su quello interno. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo afferma che ciascun «individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione» (art. 19). Tale diritto è, poi, ribadito e specificato dal Patto internazionale sui diritti civili e politici laddove si osserva che ogni individuo «ha diritto alla libertà di espressione», specificando che tale diritto «comprende la libertà di cercare, riceve e diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza riguardo a frontiere, oralmente, per iscritto, attraverso la stampa, in forma artistica o attraverso qualsiasi altro mezzo di sua scelta» (art. 19). Anche la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) afferma tale libertà, ribandendo come questo diritto includa «la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera» (art. 10)[79].
A livello interno, invece, la disposizione di riferimento è rappresentata dall’art. 21 Cost.[80], a detta del quale tutti «hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».
La seconda premessa da cui muovere è che Internet ha completamente rivoluzionato il modo attraverso il quale le persone comunicano e condividono le loro idee, mutando così le stesse forme di espressione della libertà di manifestazione del pensiero[81]; del resto, «il mondo virtuale non è altro che una proiezione di quello reale»[82], riflette quest’ultimo ed in taluni casi, come quello in esame, ne rappresenta una estensione. La rete, infatti, offre una piattaforma globale per la manifestazione del pensiero, consentendo, potenzialmente a chiunque, di esprimere le proprie opinioni, oltre che di diffondere nonché accedere ad una quantità, di fatto illimitata, di informazioni di ogni tipo[83].
È evidente, quindi, come tale libertà comporti anche nuove sfide per il diritto[84]. La diffusione di contenuti online, invero, può creare – come, in effetti, ha creato – fenomeni di disinformazione[85], nuove e più agguerrite forme di incitamento all’odio[86], oltre che una maggiore condivisione di informazioni personali da parte di ciascun utente, aprendo così la strada ad inedite forme di violazione della privacy degli individui[87].
La (supposta) libertà in rete[88] è predominio delle piattaforme digitali[89]. Sono esse, infatti, che detengono il controllo della libertà di manifestazione del pensiero e, spesso, anche delle controversie che hanno ad oggetto la sua presunta violazione. Ciò pone una serie evidente di aspetti problematici, a partire dalla legittimazione delle piattaforme digitali di incidere su una libertà fondamentale quale quella in esame. Si tratta di problemi noti e che determinano una serie di implicazioni di ordine generale, tanto a livello teorico quanto a livello pratico. L’interesse di tali piattaforme ad un controllo su questa libertà è particolarmente forte poiché, si sa, attraverso di essa si può incidere sull’opinione pubblica e condizionarla (in diverse direzioni e per distinte finalità).
La libertà di manifestazione del pensiero rappresenta, poi, un aspetto particolarmente rilevante poiché essa è strettamente legata alla democraticità del sistema ove la si intende esercitare e sulla base della tutela ad essa riconosciuta si può, dunque, misurare il grado di democraticità di quello stesso sistema[90], in tal caso della rete[91].
L’idea di Internet e della rete come luogo di libertà ove quest’ultima regnava sovrana, essendo, per definizione, uno spazio privo di ogni forma di controllo e limitazione[92], dando così luogo ad una società libertà ed aperta[93], si è rivelata – come già osservato – una mera illusione. Invero, la libertà che i poteri privati che gestiscono le piattaforme generalmente assicurano, tende ad arrestarsi nel momento in cui il pensiero espresso non sia in linea con il verbo dominante e dietro la giustificazione della rimozione di alcuni contenuti in quanto non veritieri (le c.d. fake news[94])[95] ovvero offensivi (hate speech)[96], talvolta, si celano valutazioni di tutt’altra natura, rispetto alle quali è difficile non scorgere interessi che, in ultima analisi, sono di natura economica. Infatti, se, da una parte, è vero che «i social media, e più in generale la rete, consentono alla libertà di manifestazione del pensiero di essere esercitata con una facilità che non si era mai vista prima», è altrettanto vero, dall’altra, che in tale spazio vengono consentite «forme di controllo del pensiero e di sorveglianza dei cittadini che, egualmente, non si erano mai viste»[97].
Si pensi, giusto a titolo di esempio – e lungi dal voler assumere posizione sul merito di una questione assai delicata troppo spesso strumentalizzata per bieche finalità propagandistiche –, a quanto avvenuto, di recente, a proposito del sanguinoso conflitto fra Israele e Palestina. Uno dei gatekepeer, Meta, su alcune piattaforme da essa gestite (come Instagram, Facebook, WhatsApp e Messanger), ha adottato una serie di misure – dalla cancellazione di contenuti alla rimozione dei profili – nei confronti di quelle manifestazioni tese a divulgare contenuti aventi ad oggetto la Palestina ed il suo popolo.
Si tratta, dunque, di forme di controllo e sorveglianza che si traducono anche in scelte del tutto arbitrarie di rimozione di determinati contenuti, senza possibilità di reale appello per chi quel contenuto si vede rimosso. Alla “privatizzazione del potere” – che rappresenta, sotto questo profilo, la causa – ne consegue la privatizzazione della censura, alla quale si lega una privatizzazione della stessa possibilità di difendersi, con un accentramento in capo a chi ha deciso (la censura) del potere di dirimere la controversia in ordine a quella stessa decisione precedentemente adottata[98]. Come è stato osservato, una siffatta privatizzazione della censura[99] è da considerarsi «irragionevole sul piano dei principi costituzionali: non solo la censura è costituzionalmente inconcepibile se non in casi limitatissimi, negli schemi del diritto costituzionale d’occidente, e oggetto di una riserva di legge e di una riserva di giurisdizione, ma immaginare che si possa affidare la censura a organizzazioni private secondo modelli che ricordano lo scandirsi orizzontale del principio di sussidiarietà appare impossibile»[100].
Due sono i profili in proposito su cui si intende, sia pur rapidamente, soffermare l’attenzione, ricorrendo a due esempi: quello che appare, a tutti gli effetti, una limitazione della libertà di manifestazione del pensiero e quello che rappresenta una disparità di trattamento fra lo schieramento pro-Palestina e quello pro-Israele. Si tratta di due profili che si distinguono solamente per sviluppare meglio il discorso (essendo, infatti, assai correlati): anche quello relativo alla disparità di trattamento si manifesta, al fondo, come una limitazione della libertà di (manifestazione del) pensiero.
Per essere più chiari, la decisione di Meta non è stata quella di bandire ogni contenuto avente ad oggetto il conflitto israeliano-palestinese, scelta che avrebbe anch’essa senz’altro rappresentato una lesione alla libertà di manifestazione del pensiero ma, almeno, non avrebbe realizzato una condotta che, per il tramite della disparità di trattamento, ha finito per tradursi in una lesione del principio di uguaglianza. Ciò, inoltre, è la riprova di quanto si sottolineava poc’anzi: dietro le scelte di tali piattaforme vi sono interessi di natura economica, i quali hanno fatto sì che fossero considerati come “leciti” quei contenuti pro-Israele e, invece, illeciti o, comunque, in qualche modo offensivi, quelli pro-Palestina.
Un discorso analogo, che si lega, tuttavia, più al profilo dell’incitamento all’odio, potrebbe essere sviluppato a proposito della guerra fra Russia ed Ucraina[101]. Come, infatti, si ricorderà, nel marzo del 2022, Meta ha deciso di allentare la propria politica di contrasto all’odio rispetto a quei post che avevano, come contenuto, forme di violenza verbale nei confronti dei soldati russi. Invero, Meta ha reso possibile, per gli iscritti di Facebook ed Instagram, postare contenuti offensivi[102] e/o di incitamento alla violenza nei riguardi dell’esercito russo. Tale scelta è stata assunta sulla base della volontà, espressamente manifestata, di concedere, temporaneamente, forme di espressione politica che sarebbero, di regola, vietate in quanto contrarie alle regole stabilite da Meta. Per esempio, sono stati consentiti post violenti che avevano ad oggetto l’invocare la “morte agli invasori russi”, specificando, tuttavia, il divieto di estendere siffatti contenuti nei riguardi dei civili russi.
È chiaro che questo ponga una serie di criticità ed apra taluni interrogativi come, ad esempio, la domanda circa sulla scorta di quale legittimazione le piattaforme dei social decidono di rimuovere determinati contenuti, legittimazione che, se non si ragiona sulla base della “logica proprietaria” – ossia in considerazione del fatto che sono loro i proprietari di quelle stesse piattaforme –, sembra difficile da trovare. Inoltre, la circolazione delle idee e delle opinioni e, quindi, la stessa libertà di manifestazione del pensiero, non costituisce certo lo scopo principale della rete, il quale, piuttosto, è quello di «produrre traffico di qualità che può essere convertito in un valore commerciale attraverso la pubblicità»[103]. Ciò, di conseguenza, rende ancora più forte il rischio di una lesione della libertà di manifestazione del pensiero e rende ancor più indispensabile una regolazione pubblica, con la precisazione e, soprattutto, l’auspicio – come ora meglio si dirà –, che essa non finisca per tradursi nella medesima situazione la cui esistenza ne ha legittimato (e reso necessario) l’intervento: ossia quella di sfociare, a sua volta, in una fonte di restrizione della libertà in esame.
- I rischi da evitare: una regolazione censoria della libertà di manifestazione del pensiero
Tutto ciò si traduce nella necessità di un controllo pubblico anche, e soprattutto, per garantire l’effettività dei diritti e delle libertà come, per esempio, quella in questione. Ciò, allo stesso tempo, però, non deve significare che il controllo pubblico e, più in generale, il maggior intervento dei pubblici poteri mediante una regolazione più forte ed incisiva delle piattaforme, si traduca in una situazione analoga a quella attuale o, peggio ancora, in una ulteriore restrizione alla libertà di manifestazione del pensiero, opzione non scartabile a priori, anzi, teoricamente possibile, per non dire probabile. È necessario che il controllo in rete sia supervisionato – se così si può dire – dai pubblici poteri ma non ciò non può e non deve tradursi in una diminuzione dello spazio di libertà, altrimenti il problema non sarebbe risolto e la libertà di manifestazione del pensiero continuerebbe a subire ingiustificate lesioni. Si tratta, quindi, di assicurare un controllo pubblico per fronteggiare l’arbitrarietà dei poteri digitali, senza, però, diminuire lo spazio di libertà: la questione, è chiaro, risulta particolarmente complessa; tale rischio, invero, sussiste eccome[104].
L’intervento regolatorio del legislatore, con riferimento al DSA, presenta, sotto questo profilo, talune criticità. Il DSA, come accennato, ha fra i suoi obiettivi anche quello di tutelare la libertà di espressione e di informazione[105]. Invero, benché l’obiettivo del legislatore europeo attraverso tale intervento (e lo stesso si può sostenere avuto riguardo al DMA) sia quello di garantire il buon funzionamento del mercato[106], coerentemente con la centralità che quest’ultimo riveste nell’ordinamento europeo (a partire dall’art. 3, par. 3, TUE), egli si (pre)occupa anche di disciplinare taluni aspetti afferenti al diritto in questione[107]. Infatti, si fa riferimento all’onere, per i prestatori dei servizi, di agire immediatamente per rimuovere le attività illegali (o i contenuti illegali), ovvero per disabilitare l’accesso agli stessi, non appena ne vengano effettivamente a conoscenza (o ne divengano consapevoli), per poter, così, beneficiare dell’esenzione dalla responsabilità per i servizi di memorizzazione di informazioni. Tale rimozione dei contenuti[108], si legge, dovrebbe essere effettuata nel rispetto dei diritti fondamentali dei destinatari del servizio stesso, a muovere da quello alla libertà di espressione e di informazione[109].
Si prevede, poi, che nel progettare, applicare e far rispettare tali restrizioni, i prestatori di servizi intermediari dovrebbero agire in modo non arbitrario e non discriminatorio, oltre a dover tener conto dei diritti e degli interessi legittimi dei destinatari del servizio, compresi i diritti fondamentali sanciti dalla Carta. A titolo di esempio, i fornitori di piattaforme online di dimensioni molto grandi dovrebbero in particolare tenere debitamente conto della libertà di espressione e di informazione, compresi la libertà ed il pluralismo dei media[110], aspetto, quest’ultimo, particolarmente importante[111] nell’ottica di garantire un’informazione libera e quanto più completa possibile, corollario, in un certo qual senso, della democraticità del sistema[112] e del più generale principio pluralista su cui gli stessi sistemi democratici si fondano[113], alla cui salvaguardia – con riferimento, nel caso di specie, in particolare, della rete – può senz’altro contribuire lo strumento concorrenziale.
In questo senso, assumono particolare rilevanza le disposizioni di cui agli artt. 15 e 16, rispettivamente in tema di “Obblighi in materia di relazioni di trasparenza per i prestatori di servizi intermediari” e di “Meccanismi di segnalazione e azione”.
Con la prima disposizione si sancisce l’obbligo, per i prestatori di servizi intermediari, di mettere a diposizione del pubblico, secondo un formato che sia leggibile meccanicamente ed in modo che ne risulti facile il relativo accesso, almeno una volta l’anno, relazioni chiare e di agevole comprensibilità sulle attività di moderazione dei contenuti svolte durante il periodo di riferimento. La norma prevede, poi, un elenco delle informazioni che tali relazioni devono contenere e che variano a seconda dei casi.
Attraverso l’art. 16, invece, si prevede la predisposizioni di taluni meccanismi, ad opera dei prestatori di servizi di memorizzazione di informazioni, in grado di consentire a qualsiasi persona (o a enti) di notificare loro la presenza nel servizio da loro stessi offerto di informazioni specifiche che si ritengono portatrici di contenuti di carattere illegale. Il legislatore elenca, quindi, le misure necessarie che i prestatori di servizi di memorizzazione di informazione devono adottare per poter così consentire nonché facilitare la presentazione delle relative segnalazioni.
Il rischio sotteso ad una impostazione di questo tipo è, in particolare, quello di un utilizzo censorio delle piattaforme giustificato dalla necessità di contrastare il fenomeno delle fake news[114] e dei contenuti offensivi e/o illeciti[115], con l’avallo, in tal caso, del legislatore europeo, il quale sembra risolvere in maniera – per così dire – in parte eccessivamente frettolosa ed anche semplicistica, una questione assai delicata, informando di giuridicità (con la conseguenza di rendere lecito) il potere delle piattaforme di rimuovere contenuti[116] che potrebbero non essere, in realtà, falsi[117] ovvero illeciti ma, semplicemente, sgraditi alla narrazione in quel dato momento storico dominante. Ciò, infatti, potrebbe condurre ad una sorta di co-censura: privata e pubblica. Alle ipotesi di censura da parte delle piattaforme, si aggiungono quelle che derivano da una segnalazione ad opera dei pubblici poteri, aumentando così le ipotesi di rimozione dei contenuti digitali. Se questa prospettiva comporta indubbiamente un rafforzamento sul piano del contrasto alle notizie false ed ai contenuti offensivi e/o illeciti – oltre a poter essere supportata dal rinvenimento di un dovere in tal senso in capo agli stessi pubblici poteri, in particolare con riferimento alle prime[118] –, determina, tuttavia, al contempo, un aumento del rischio di un maggior ricorso a misure di rimozione, le quali, se non opportunamente valutate e calibrate, rischiano, appunto, di tradursi in una restrizione degli stessi spazi di operatività della libertà di manifestazione del pensiero.
Un illustre giurista affermava qualche anno fa che «vi è oggi un oggetto del desiderio degli Stati è esattamente Internet, con interventi molto pesanti, continui, tanto negli Stati autoritari che in quelli democratici. Si può, dunque, comprendere una resistenza volta a garantire il carattere libertario, persino anarchico, di Internet»[119]. Queste parole parrebbero tornare di attualità. Al momento, lo si ripete, è un rischio solamente potenziale che, tuttavia, deve essere scongiurato, evitando di configurare una regolazione eccessivamente intrusiva che comprima di conseguenza lo spazio di libertà, a partire da quella di manifestazione del pensiero. Non è un caso che si tratti di un’osservazione di dieci anni fa quando i poteri privati digitali, pur esistenti e già forti, non avevano ancora acquisito lo strapotere che hanno acquisito più di recente (in termini, anzitutto, di fatturato e di controllo del mercato); in ogni caso, l’affermazione conserva attualità poiché indica un pericolo possibile da tenere ben presente affinché si adottino le contromisure necessarie per evitare che si verifichi in concreto.
Da questo punto di vista, si tratta, dunque, di prospettare talune possibili soluzioni acciocché la maggiore regolazione del digitale non comporti una diminuzione di quello che è un diritto fondamentale, il quale, da una situazione di limitazione ad opera dei poteri privati, potrebbe attraversare una fase dove quella stessa limitazione è perpetrata o, comunque, in qualche modo agevolata, anche dai pubblici poteri, con la conseguenza di addivenire al medesimo risultato: la restrizione di una libertà che costituisce – e che deve continuare a costituire – uno dei pilastri delle attuali democrazie liberali, la cui tutela è proporzionalmente legata al grado di democraticità dello stesso ordinamento.
- Questioni insolute e (possibili) prospettive future
Il fenomeno del digitale presenta una serie di aspetti problematici. Ciò detto, conviene anzitutto – anche alla luce di quanto osservato nelle pagine precedenti – impostare il discorso su due piani distinti. Il primo concerne il profilo relativo alla regolazione, il secondo quello, ad esso connesso, che ha ad oggetto la libertà di manifestazione del pensiero.
In ordine al primo, nelle pagine che precedono si è tentato di mettere in luce la necessità di superare il tradizionale modello regolatorio, pena il rischio di “Achille e la tartaruga”. I forti poteri privati digitali, infatti, grazie al loro potere economico, sono in grado di dotarsi di tecnologie all’avanguardia ed il diritto con la sua regolazione poco intrusiva, che risente della evidente nonché marcata asimmetria informativa (chi dovrebbe regolare, cioè i pubblici poteri, spesso non hanno in realtà idea di che cosa dovrebbero in concreto fare), finisce per trovarsi perennemente costretto ad inseguire le novità, lasciando alle piattaforme digitali un potere assai ampio nonché pericoloso poiché, come visto, è da esso che, talvolta, dipende, in concreto, la garanzia e l’effettività di una serie di diritti fondamentali, a partire da quello di manifestazione del pensiero. Tuttavia, ciò non è comunque sufficiente. Il problema, invero, è sempre lo stesso: come rendere applicabili le regole e, quindi, in tal caso, come configurare un’etero-regolazione pubblica realmente effettiva.
Il principale aspetto problematico, come noto, è, e continua ad essere, quello che ruota attorno alla forte attenuazione del vincolo territoriale a favore della a-territorialità[120] che caratterizza la rete e, con essa, della capacità regolatoria dei singoli poteri pubblici, a partire dagli Stati[121]. Si tratta di una questione complessa che necessita di soluzioni che debbono inevitabilmente essere pensate su scala globale in quanto – pur essendo essenziali le regolazioni regionali tipo quella da ultimo adottata dal legislatore europeo con il DMA ed il DSA –, in ragione proprio del labile vincolo territoriale che caratterizza le piattaforme digitali, esse potrebbero comunque eludere parte delle prescrizioni attraverso una serie di escamotage volti a far risultare quel vincolo territoriale esistente rispetto ad un Paese che offre una regolamentazione più favorevole per i loro interessi (configurando un fenomeno analogo a quello dell’elusione fiscale). Solamente mediante una serie di accordi e convenzioni internazionali si può pensare di apprestare una regolazione pubblica delle piattaforme digitali in grado di attenuare il loro strapotere e conformando in senso concorrenziale i relativi mercati, attualmente a carattere oligopolistico.
Per quanto riguarda, viceversa, il secondo piano del discorso, l’attenzione si sposta sulla libertà di manifestazione del pensiero nonché sul problema di renderne effettivo il suo contenuto. Il rischio – lo si è già detto – è che l’aumento di regolazione pubblica non risolva il problema attualmente esistente circa il non sempre pieno rispetto di questa libertà in ragione del potere censorio esercitato spesso in maniera arbitraria dai “padroni” del digitale. Il problema, però, è come evitare tale rischio.
Una soluzione potrebbe, forse, essere quella di creare delle commissioni formate da personalità (come, per esempio, giuristi) esperte della rete e dei c.d. diritti digitali, dotata del necessario tasso di autonomia ed indipendenza, fatta sempre salva la possibilità di adire il giudice. La facoltà di ciascun soggetto di adire il giudice a difesa di una propria situazione giuridicamente rilevante che si ritiene essere stata violata, costituisce un altro pilastro fondamentale sul quale si reggono le democrazie liberali e che non può trovare limitazione alcuna, a partire dalla rete, la quale – come già ricordato – è il luogo ove più si esercita ormai tale diritto di libertà. Del resto, è la stessa Carta costituzionale a riconoscere il diritto di azione laddove afferma che tutti «possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi» (art. 24 Cost.).
È vero che le piattaforme digitali sono a tutti gli effetti società private e, dunque, hanno la libertà di cancellare tutti i contenuti che credono ma, essendo ormai evidente come anche e soprattutto in rete si svolga la libertà di manifestazione del pensiero (e, quindi, si esprima la personalità di un numero elevatissimo di persone), non pare affatto azzardato richiedere un intervento dei pubblici poteri volto a configurare dei meccanismi per rendere più effettivo tale diritto e, soprattutto, per renderne effettiva la possibilità di una sua tutela allorquando si ritiene che vi sia stata una sua violazione. Si potrebbe dire – anche qui utilizzando una tradizionale dizione non più particolarmente frequente – che la rete finisce per rivestire anche una “funzione sociale” che, come tale, non può essere estranea al diritto ed alla sua regolazione e, dunque, l’intervento pubblico è giustificato dall’esigenza di proteggere e tutelare le libertà individuali ed è in quelle stesse libertà (come quella di manifestazione del pensiero) che rinviene, al tempo stesso, sia la fonte legittimante il suo intervento che il suo limite.
La regolazione pubblica, dunque, dovrebbe preoccuparsi anche di come tutelare i diritti e le libertà in rete e assicurare meccanismi giurisdizionali o simil-giurisdizionali per risolvere le relative controversie, non essendo tollerabile in un ordinamento che si fonda sul concetto di “Stato di diritto” che il contenuto, i limiti e, quindi, più in generale, l’effettività di libertà così centrali nella vita di ciascuna persona, come ad esempio quella che fa capo alla manifestazione del pensiero, finisca per essere rimessa a valutazioni di soggetti estranei alla giurisdizione, i quali tendono a risolvere le controversie non mediante l’applicazione di principi e regole giuridiche bensì sulla base valutazioni al cui fondamento vi sono, il più delle volte, interessi di natura economica o, comunque, valutazioni di mera egoistica opportunità. Anche in tal caso, è evidente come le soluzioni vadano ricercate avendo quale orizzonte la prospettiva globale.
La regolazione, inoltre, incontra ulteriori problemi che possono in questa sede essere solamente elencati e che rispetto ai quali, di nuovo, le soluzioni da intraprendere debbono inevitabilmente collocarsi sul piano di una regolazione a carattere globale. Per esempio, assume rilievo il tema di una tassazione più elevata dei colossi del digitale, la quale, tuttavia, per poter essere effettiva, deve essere uniforme su scala, appunto, globale, altrimenti si verificheranno fenomeni conosciuti come quello della migrazione verso i ben noti (e sempre più numerosi) “paradisi fiscali”; ciò presuppone, quindi, anche in tal caso, la stipulazione di una serie di accordi internazionali.
Inoltre, la sola regolazione delle piattaforme digitali non è sufficiente a contrastare i forti poteri privati[122], rendendosi pertanto necessaria anche una massiccia produzione, da parte degli Stati, di tecnologie (una sorta di “Stato produttore di tecnologia”), con significativi investimenti pubblici finalizzati alla riduzione della dipendenza che i pubblici poteri hanno nei riguardi dei privati, con ciò che ne consegue in punto di possibilità di essere in qualche modo ricattabili e, in ogni caso, non autonomi.
- A mo’ di conclusione
Si è avuto modo di osservare come l’auto-regolazione delle piattaforme digitali e, quindi, più in generale, del mondo digitale, sia insufficiente per una serie di ragioni e, soprattutto, determini un accentramento del potere di mercato nelle mani di pochi poteri privati, dando luogo ad un sistema di mercato oligopolistico, contrario per definizione al regime concorrenziale su cui si fonda, invece, l’ordinamento europeo.
Del resto, l’auto-regolazione favorisce l’emersione del diritto privato, il quale, tuttavia, funziona ed è in grado di regolare i rapporti[123] fra le parti quando vi è una parità (di partenza) delle stesse, nel momento in cui, cioè, sussiste una consustanziale autodeterminazione delle parti in gioco, poiché tale autodeterminazione è presupposta dallo stesso mondo privatistico, il quale, prefiggendosi di regolare rapporti inter pares, non è più adatto – o, comunque, di per sé sufficiente – allorché fra le parti non sussista una parità bensì una disparità e, sotto questo profilo, poco importa se il soggetto più forte non è quello pubblico quanto quello privato, cambia l’aggettivo ma non il sostantivo e la disparità si ha in presenza del primo (del sostantivo, ossia del “potere”), non del secondo (dell’aggettivo, “pubblico” o “privato” che sia). Da questo punto di vista, è necessario abbandonare l’idea per cui il privato sia sinonimo di “libertà” ed il pubblico di “autorità”; invero, quest’ultimo non è solo e necessariamente “autorità” ed il primo non è sempre e comunque equivalente di “libertà”.
Tuttavia, anche il modello tradizionale di regolazione del mercato – alternativo a quello dell’auto-regolazione – che si è andato configurando a livello europeo (ma, mutatis mutandis, il discorso, in linea generale, vale anche per quello di marca statunitense) tende ad essere costruito attorno ad una regolazione ex post, che interviene dopo aver preso atto, nella realtà fattuale, del verificarsi di fenomeni incompatibili, in concreto o in potenza, con la necessità di un mercato concorrenziale. Fra le varie ragioni per cui questo modello non è pienamente esportabile nel mercato digitale, vi è quella per cui esso non è in grado di far fronte ad un problema centrale di tale ambito, che consiste in un progresso tecnologico così veloce e sofisticato che, a maggior ragione, necessita più di altri settori di mercato di una regolazione che intervenga anche e, possibilmente, soprattutto, ex ante, una sorta cioè di “regolazione anticipante” anzitutto i rischi ed i pericoli che tale innovazione tecnologica determina in punto di tutela di diritti fondamentali (dai dati personali alla libertà di manifestazione del pensiero), di quegli stessi diritti fondamentali e di quelle medesime libertà che la storia del costituzionalismo liberale si è sempre preoccupata di riconoscere e, dunque, tutelare[124].
Il diritto antitrust – rispetto al quale i poteri privati digitali mostrano una certa insofferenza poiché «più che competere nel mercato, fanno concorrenza al mercato, ponendosi «cioè essi stessi come mercato, come infrastruttura tecnologica all’infuori della quale non ci può essere concorrenza»[125] – ha, inoltre (in special modo quello di stampo americano), una pericolosa vocazione protesa alla protezione, più che dei concorrenti e/o dei consumatori, della concorrenza in sé[126], presentando tratti che non sempre appaiono pienamente conformi a quell’idea della persona come centro da cui muovere, dove il diritto è «al servizio dell’uomo»[127], e non viceversa.
La regolazione che sembra emergere e che appare auspicabile, si è detto, è una co-regolazione flessibile (assolutamente necessaria) ed ex ante, che sembra trovare – quantomeno in buona parte – fondamento nel DMA, il quale si prefigge di introdurre una serie di criteri oggettivi volti a definire le piattaforme online di grandi dimensioni che esercitano una funzione di controllo dell’accesso al mercato (gatekeeper), con una serie di obblighi nonché di vincoli che possano garantire agli innovatori del “domani” di trovare un proprio spazio e di poter, quindi, competere fra loro liberamente.
È una regolazione anche “forte”, incisiva, che è strutturata inevitabilmente nei termini di una regolazione multilivello, dove si è vista l’importanza della cooperazione e, dunque, l’esigenza del coordinamento fra i vari soggetti (pubblici e privati) deputati alla regolazione del fenomeno digitale.
In tale modello si è, altresì, tentato di riflettere attorno alla concorrenza ed al ruolo che essa dovrebbe assumere, la quale non dovrebbe (più) rappresentare il contenuto dell’interesse pubblico (quale valore in sé o, comunque, teso ad identificarsi nell’efficienza del mercato) ma uno strumento per perseguire altri interessi, come la protezione dei dati personali e la libertà di manifestazione del pensiero, i quali, nel modello di regolazione qui avanzato, dovrebbero, dunque, costituire il contenuto dell’interesse pubblico (primario) di partenza o – se si preferisce utilizzare una dizione più tradizionale – del c.d. “interesse pubblico in astratto”[128]. Inoltre, la concorrenza può rivestire particolare importanza nell’ottica di assicurare quel pluralismo informativo di cui si è detto e dal quale non si può certo prescindere, rappresentando un valore da salvaguardare poiché strettamente legato alla democrazia stessa della rete.
Sempre ponendo particolare attenzione al rischio che la maggiore regolazione pubblica determini una contrazione dello spazio della libertà di espressione[129] – la quale rileva anche come limite alla forza del modello di regolazione qui prospettato –, per mezzo, cioè, di un controllo autoritario da parte pubblici poteri in funzione liberticida, è comunque necessario configurare un governo del fenomeno digitale dove, quindi, un ruolo centrale è destinato ad essere assunto dagli stessi pubblici poteri in qualità di rappresentanti democratici della volontà popolare, con una funzionalizzazione del potere pubblico verso la difesa dei diritti[130] e delle libertà che vengono in rilievo nel mondo digitale e, per questo, legittimo. Del resto, «vuoto concetto sarebbe la sovranità popolare, se venisse spogliata della potestà di determinare, per mezzo dei propri rappresentanti democraticamente eletti, l’indirizzo politico generale»[131], il quale contempla anche e soprattutto l’ambito del digitale, che rappresenta, a tutti gli effetti, una delle proiezioni dello sviluppo della personalità di ciascun essere umano, la quale trova in tale ambito un luogo di ulteriore emancipazione e confronto, dove dare avvio ad una libera e sana “battaglia delle idee”, linfa vitale per il progresso individuale e collettivo.
Una maggiore regolazione pubblica è, dunque, auspicabile e, si potrebbe aggiungere, doverosa in quanto strumentale ad un governo pubblico (e non privato) dei fenomeni della società e necessario per l’effettiva attuazione ed affermazione dei diritti individuali, coerentemente con il carattere personalista fondamento dell’ordinamento europeo e, più in generale, del diritto liberale alla base delle attuali democrazie. Un diritto, dunque, «non come infrastruttura nelle mani di pochi, ma come scienza legata ai valori e ai diritti di una rule of law capace di incidere sulla forza del capitale e delle imprese»[132], al fine di salvaguardare, in ogni ambito, la persona, la cui tutela costituisce il fine ultimo di ogni ordinamento giuridico.
[1] Sul rapporto fra poteri privati e regolazione cfr. G. Resta, Poteri privati e regolazione, in Enc. dir., I tematici, Potere e Costituzione, Milano, 2023, 1023 ss. Sui poteri privati, nella prospettiva del diritto pubblico, cfr. il terzo numero del 2021 della rivista Diritto pubblico, oltre che il libro di M.R. Ferrarese, Poteri nuovi. Privati, penetranti, opachi, Bologna, 2022, ed il contributo di E. Bruti Liberati, Poteri privati e nuova regolazione, in Diritto pubblico 1, 2023, 285 ss. Sui poteri pubblici e privati nel mondo digitale cfr. L Torchia, Poteri pubblici e poteri privati nel mondo digitale, in Il Mulino, 1, 2024, 14 ss. Della stessa A. cfr. anche Lo Stato digitale. Una introduzione, Bologna, 2023.
[2] Sul punto cfr. M. Betzu, I baroni del digitale, Napoli, 2022, passim. In proposito cfr. anche F. Paruzzo, I sovrani della rete. Piattaforme digitali e limiti costituzionali al potere privato, Napoli, 2022.
[3] In proposito, per un inquadramento piuttosto recente, cfr. F. Donati, Verso una nuova regolazione delle piattaforme digitali, in Rivista della regolazione dei mercati, 2, 2021, 238 ss.
[4] Sui poteri digitali cfr. O. Pollicino, Potere digitale, in Enc. dir., I tematici, Potere e Costituzione, Milano, 2023, 410 ss. In tema cfr. anche A. Simoncini, Sovranità e potere nell’era digitale, in O. Pollicino-T.E. Frosini-E. Apa-M. Bassini (a cura di), Diritti e libertà in internet, Milano, 2017,19 ss.
[5] Tali due regolamenti, assieme a quello sull’Artificial Intelligence Act, compongono quella che è stata definita in dottrina come «trilogia regolamentare dell’UE per l’ecosistema digitale», G. Gardini, Le regole dell’informazione. Pluralismo e libertà nell’era dell’intelligenza artificiale, VI ediz., Torino, 2024, 300 ss. Con particolare riferimento al DMA, in dottrina cfr. M. Libertini, Il regolamento europeo sui mercati digitali e le norme generali in materia di concorrenza, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 4, 2022, 1069 ss.; M. Orofino, Il Digital Market Act: una regolazione asimmetrica a cavallo tra diritto della protezione dei dati e diritto antitrust, in Aa.Vv., La regolazione europea della società digitale, Torino, 2024, 175 ss. Con specifico riferimento agli obblighi dei gatekeeper cfr. G. Afferni, Gli obblighi dei gatekeeper, in L. Bolognini-E. Pelino-M. Scialdone (a cura di), Digital Services Act e Digital Markets Act. Definizioni e prime applicazioni dei nuovi regolamenti europei, Milano, 2023, 315 ss. Sul DSA cfr. invece S. Del Gatto, Il Digital Services Act: un’introduzione, 724 ss.; G. Finocchiaro, Responsabilità delle piattaforme e tutela dei consumatori, 730 ss.; E. Longo, Libertà di informazione e lotta alla disinformazione nel Digital Services Act, 737 ss.; G. Sgueo, L’architettura istituzionale del Digital Services Act, 746 ss., tutti in Giorn. dir. amm., 6, 2023; M. Orofino, Il Digital Service Act tra continuità (solo apparente) ed innovazione, in Aa.Vv., La regolazione europea della società digitale, cit., 134 ss. Avuto riguardo all’AIA, benché non oggetto di trattazione nella presente sede, cfr. A. Iannuzzi-F. Laviola, I diritti fondamentali nella transizione digitale fra libertà e uguaglianza, in Diritto costituzionale. Rivista quadrimestrale, 1, 2023, 9 ss.; A. Simoncini, Il linguaggio dell’intelligenza artificiale e la tutela costituzionale dei diritti, in Rivista AIC, 2, 2023, 1 ss.; M. Bassini, Intelligenza Artificiale generativa: alcune questioni problematiche, in questa Rivista, 2, 2023, 391 ss.; E. Longo, La disciplina del «rischio digitale», Aa.Vv., La regolazione europea della società digitale, cit., 53 ss.
[6] Sul potere pubblico cfr. G. Di Gaspare, Il potere nel diritto pubblico, Padova, 1992. Più di recente cfr. A. Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo, I, Situazioni giuridiche soggettive e modello procedurale di accertamento (Premesse allo studio dell’oggetto del processo amministrativo), Torino, 2020.
[7] Di recente, sul potere, tra pubblico e privato, riflette M. Ruotolo, Il potere, tra pubblico e privato. Tracce per un dialogo tra civilisti e costituzionalisti, in Costituzionalismo.it, 3, 2024, 46 ss. Sul punto cfr. anche R. Spagnuolo Vigorita, Potere amministrativo, poteri e interessi privati, in CERIDAP, 2, 2024, 133 ss.
[8] Si pensi all’ambito del diritto amministrativo, un tempo contrassegnato dal potere autoritativo dell’amministrazione, tratto distintivo e caratteristico della tradizionale teorica del provvedimento (il c.d. potere di imperio). In tale ambito, tuttavia, si assiste, ormai da decenni, ad un processo di forte riduzione dei contenuti autoritativi del potere, incentivando sempre più strumenti “paritari” come gli accordi (art. 11, legge 7 agosto 1990, n. 241) e, più in generale, moduli negoziali, e anche laddove sussistono ancora strumenti autoritativi (tipo, appunto, il provvedimento) si tratta, comunque, di strumenti per così dire “democraticizzati”, dove si ha un potere che, per ricorrere ad una figura dalla valenza meramente descrittiva, è dialogante con il privato, il quale ha visto rafforzare i suoi diritti partecipativi e, più in generale, le garanzie previste dalla legge sul procedimento. Inoltre, a seguito del codice del processo amministrativo del 2010, si è assistito anche ad un rafforzamento sul versante degli strumenti processuali, grazie anche al meccanismo di tendenziale atipicità della tutela.
[9] Il riferimento è, per esempio, ad un trattamento non sempre paritario fra amministrazione e cittadino allorché sussista fra di essi una controversia.
[10] È stato osservato, E. Cremona, L’erompere dei poteri privati nei mercati digitali e le incertezze della regolazione antitrust, in Osservatorio sulle fonti, 2, 2021, 881, che tali poteri privati «detengono posizioni di ‘potere’, nel senso dell’attitudine che essi hanno ad incidere unilateralmente – nell’ambiente digitale – sulla sfera giuridica dei soggetti che con essi entrano in contatto».
[11] Sulla società digitale, di recente, cfr. E. di Carpegna Brivio, Pari dignità sociale e Reputation scoring. Per una lettura costituzionale della società digitale, Torino, 2024. In proposito cfr. anche A. Celotto, “Sudditi”. Diritti e cittadinanza nella società digitale, Milano, 2023.
[12] È risaputo che dove non c’è il diritto a prevalere è il potere del più forte, come noto ed anche fisiologico, e, non a caso, il diritto nasce anche per questo, per limitare il potere del più forte (si pensi al principio di legalità ed al ruolo che esso ha storicamente rivestito).
[13] Dove ora sono questi ultimi al fondo della scala gerarchica, e non più al vertice.
[14] Anch’essi sempre al fondo, perché non si può certo parlare di rapporti orizzontali fra questi soggetti per il sol fatto che appartengono entrambi all’emisfero privato.
[15] Si tratta di uno schema teorico che senz’altro ben descriveva l’assetto del passato ma che ora necessita di essere ripensato poiché il dato empirico ha mostrato come vi siano poteri ben più forti di quelli privati, rispetto ai quali non è sufficiente affermarne l’illegittimità perché tanto essi continuano ad operare nella realtà fattuale, che è quella della quale il diritto (e con esso i giuristi) deve (dovrebbe) occuparsi, ripensando e ridefinendo gli schemi teorici allorché essi non siano più in grado di descrivere compiutamente la realtà sociale di quel determinato periodo storico.
[16] Sul potere pubblico e privato nell’ottica della relativa legittimazione non si prescinda da A. Romano Tassone, A proposito del potere pubblico e privato e della sua legittimazione, in Diritto amministrativo, 4, 2013, 559 ss.
[17] Ricorda O. Pollicino, L’“autunno caldo” della Corte di giustizia in tema di tutela dei diritti fondamentali in rete e le sfide del costituzionalismo alle prese con i nuovi poteri privati in ambito digitale, in Federalismi.it, 19, 2019, 12, che una premessa fondamentale del diritto pubblico è proprio quella per cui l’unico potere legittimo è il potere pubblico.
[18] Il riferimento è al lavoro di M.R. Ferrarese, Poteri nuovi, cit., passim.
[19] Sul punto cfr. M. Betzu, I baroni del digitale, cit., passim.
[20] Sul rapporto fra potere privato e diritti fondamentali, anche in prospettiva evolutiva, cfr. il lavoro monografico di G. Lombardi, Potere privato e diritti fondamentali, Torino, 1970.
[21] Così M. Betzu, Poteri pubblici e poteri privati nel mondo digitale, in La Rivista del Gruppo di Pisa, 2, 2021, 172. Sul punto cfr. anche M. Cuniberti, Potere e libertà nella rete, in questa Rivista, 3, 2018, 51 ss., in chiave critica rispetto, in particolare, alla presunta neutralità dei provider.
[22] M. Betzu, Poteri pubblici e poteri privati, cit., 166.
[23] Aa.Vv., Il futuro del diritto pubblico. Il tempo e le sfide, in Diritto pubblico, 1, 2024, 99 ss. Sul punto cfr. anche P. Costanzo, La democrazia digitale (precauzioni per l’uso), in Diritto pubblico, 1, 2019, 80, il quale parla di Internet quale ambito «refrattario a interventi regolatori».
[24] P. Costanzo, La democrazia digitale, cit., 86. Sul rapporto fra Internet e democrazia cfr. A. Randazzo, Internet e democrazia: prime note su tre possibili svolgimenti di un rapporto complesso, in Consulta online-Liber amicorum per Pasquale Costanzo, 2020, 1 ss.
[25] In proposito, per tutti, cfr. S. Rodotà, Una Costituzione per Internet?, in Politica del diritto, 3, 2010, 342.
[26] Cfr. A. Orsi Battaglini, «L’astratta e infeconda idea». Disavventure dell’individuo nella cultura giuspubblicistica (A proposito di tre libri di storia del pensiero giuridico), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 17, 1988, 569 ss., ora anche in La necessaria discontinuità. Immagini del diritto pubblico (Quaderni di San Martino), Bologna, 1990, 11 ss., nonché in Id., Scritti giuridici, Milano, 2007, 1309 ss. Con particolare attenzione alla giuspubblicistica tedesca M. Fioravanti, Giuristi e costituzione politica nell’ottocento tedesco, Milano, 1979.
[27] E. Cremona, L’erompere dei poteri privati nei mercati digitali, cit., 880 ss.
[28] Sul punto cfr. M. Manetti, Regolare Internet, in questa Rivista, 2, 2020, 36.
[29] L. Torchia, I poteri di vigilanza, controllo e sanzionatori nella regolazione europea della trasformazione digitale, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 4, 2022, 1104.
[30] Ibid.
[31] Aa.Vv., Il futuro del diritto pubblico, cit., 101.
[32] Ibid.
[33] Ivi, 104 ss.
[34] A. Iannuzzi, Paradigmi normativi per la disciplina della tecnologia: auto-regolazione, co-regolazione ed etero-regolazione, in Bilancio Comunità e Persona, 2, 2023, 98.
[35] Ibid.
[36] Sul punto, fra i tanti, cfr. G. Vettori, Sui poteri privati. Interazioni e contaminazioni, in Diritto pubblico, 3, 2022, 829 e ss., oltre che M. Betzu, Poteri pubblici e poteri privati, cit., 166 ss., e E. Cremona, L’erompere dei poteri privati nei mercati digitali, cit., 880 ss.
[37] Sui cui cfr. almeno L. Buffoni, La “tutela della concorrenza” dopo la riforma del Titolo V: il fondamento costituzionale ed il riparto di competenze legislative, in Istituzioni del federalismo, 2, 2003, 348 ss.; M. Libertini, La tutela della concorrenza nella Costituzione italiana, in Giurisprudenza costituzionale, 2, 2005, 1429 ss.; Id., voce Concorrenza, in Enc. dir., Ann. III, 2010, 195 ss.; F. Trimarchi Banfi, Il «principio di concorrenza»: proprietà e fondamento, in Diritto amministrativo, 1-2, 2013, 15 ss.; M. Manetti, I fondamenti costituzionali della concorrenza, in Quaderni costituzionali, 2, 2019, 315 ss.; M. Ramajoli, Concorrenza (tutela della), in Funzioni amministrative, diretto da B. Mattarella, M. Ramajoli, I tematici dell’Enciclopedia del diritto, vol. III, cit., 292 ss.; C. Buzzacchi, Tutela della concorrenza, in L. Cuocolo, E. Mostacci (a cura di), Il riparto di competenze tra Stato e Regioni. Vent’anni di giurisprudenza costituzionale sul Titolo V, Pisa, 2023, 53 ss.
[38] M. Betzu, Poteri pubblici e poteri privati, cit., 184 ss.
[39] Regolamento (UE) 2022/1925.
[40] Regolamento (UE) 2022/2065.
[41] Il riferimento è, ovviamente, alla direttiva (CE) 2000/31, benché il DSA affermi espressamente che il «presente regolamento non pregiudica l’applicazione della direttiva 2000/31/CE» (art. 2, par. 3).
[42] Art. 19(a) GWB.
[43] Come, per esempio, il comune denominatore rappresentato dal considerevole potere economico di cui godono che consente a talune piattaforme di avere la capacità di connettere molti utenti commerciali con altrettanti utenti finali mediante i loro servizi, con la conseguenza, così, di poter sfruttare i vantaggi acquisiti in un settore di attività (quali l’accesso a grandi quantità di dati) in un altro settore, ovvero il fatto che esse esercitano un controllo su interi ecosistemi, causando, con ciò, una notevole difficoltà, a livello competitivo, per gli operatori di mercato esistenti o nuovi, indipendentemente dal livello di innovazione o efficienza di tali operatori. Si veda in proposito il punto 3 dei Considerando.
[44] Punto 4 dei Considerando.
[45] Punto 6 dei Considerando.
[46] Punto 8 dei Considerando.
[47] Art. 1, par. 5.
[48] Cfr. punto 10 dei Considerando.
[49] Cfr. punto 11 dei Considerando.
[50] Ibid.
[51] Ibid.
[52] Ibid.
[53] Art. 3.
[54] Art. 18, par. 1.
[55] Per l’idea di una regolazione ex ante nei mercati digitali, cfr. A.P. Massaro, The Rising Market Power Issue and the Need to Regulate Competition: a Comparative Perspective between the European Union, Germany, and Italy, in Concorrenza e Mercato, 2022, 13 ss.
[56] Cfr. punto 4 dei Considerando.
[57] Punto 2 dei Considerando.
[58] Per un inquadramento generale e recente sul tema cfr. Aa.Vv., Diritto dell’informazione e dei media, II ediz.,Torino, 2022; P. Caretti-A. Cardone, Il diritto dell’informazione e della comunicazione nell’era dell’intelligenza artificiale, II ediz., Bologna, 2024; G. Gardini, Le regole dell’informazione, cit.
[59] Punto 3 dei Considerando.
[60] Cfr. in proposito E. Chiti, La disciplina procedurale della regolazione, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 3, 2004, 679 ss., ove si sottolinea altresì la rilevanza del principio di proporzionalità (su cui cfr. anche G. Napolitano, Servizi pubblici e rapporti di utenza, Padova, 2001, 664 ss.). Più in generale, sul rapporto fra regolazione e mercato, cfr. M. Antonioli, Mercato e regolazione, Milano, 2001, 75 ss.; A. Zito, voce Mercati (regolazione dei), in Enc. dir., ann. III, 2010, 805 ss.; B. Tonoletti, Il mercato come oggetto della regolazione, in Rivista della regolazione dei mercati, 1, 2014, 5 ss.; E. Bruti Liberati, La regolazione indipendente dei mercati. Tecnica, politica e democrazia, Torino, 2019.; M. Clarich, Alle radici del paradigma regolatorio dei mercati, in Rivista della regolazione dei mercati, 2, 2020, 230 ss.
[61] Sul rapporto fra “diritto pubblico” e “diritto privato”, ossia la tradizionale macro-distinzione del jure, cfr. B. Sordi, Diritto pubblico e diritto privato. Una genealogia storica, Bologna, 2020. In proposito cfr. anche il secondo numero del 2024 della Rivista Antologia di diritto pubblico.
[62] Aa.Vv., Il futuro del diritto pubblico, cit., 38 ss.
[63] Sul punto, più in generale, con riferimento, cioè, alle strategie in materia di intelligenza artificiale, con considerazioni, comunque, di più ampio respiro valide anche ai presenti fini, cfr. E. Chiti-B. Marchetti, Divergenti? Le strategie di Unione europea e Stati Uniti in materia di intelligenza artificiale, in Rivista della regolazione dei mercati, 1, 2020, 29 ss. Con riferimento, in particolare, alla regolazione della rete cfr. M. Manetti, Regolare Internet, cit., 36, la quale sottolinea il parziale superamento di tale polarizzazione laddove osserva «che oggi in tutto il mondo, e non da ultimo negli Stati Uniti, si discute accanitamente non più sulla necessità, ma sui modi con i quali regolare efficacemente l’uso di Internet».
[64] A. Simoncini, La co-regolazione delle piattaforme digitali, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 4, 2022, 1031 ss. Sul punto cfr., più di recente, G. Pistorio, La co-regolazione nell’ecosistema digitale tra etero-regolazione e auto-regolazione. Questioni definitorie, in Osservatorio sulle fonti, 1, 2024, 138 ss.
[65] In merito, di recente, cfr. E. Catelani, Modelli di co-regolazione fra diritto interno e UE: l’influenza dei cittadini, delle associazioni, degli stakeholder, in Osservatorio sulle fonti, 1, 2024, 220 ss.
[66] COM (2021) 219.
[67] A. Simoncini, La co-regolazione, cit., 1033 ss.
[68] In questo modo si evita di prestare il fianco alla critica di un atteggiamento di totale indifferenza da parte loro, a tutto vantaggio dei forti poteri privati che sarebbero, altrimenti, controllori e controllati allo stesso tempo (facendo il buono ed il cattivo gioco di un settore sempre più cruciale nell’attuale società).
[69] E. Cremona, L’erompere dei poteri privati nei mercati digitali, cit., 903, il quale parla di «compromesso al ribasso» fra le esigenze del mercato, da un lato, e quelle di protezione dei diritti fondamentali, dall’altro, compromesso che finisce spesso per essere in danno del consumatore; tale danno, a detta dell’A., nel mondo digitale, sarebbe perpetrato per mezzo della «“captazione” del consenso al trattamento dei dati personali, che – nell’ambiente online – non è che un simulacro di una consapevole manifestazione di volontà».
[70] Cosa, questa, del resto, fisiologica ed anche comprensibile.
[71] M. Betzu, Poteri pubblici e poteri privati, cit., 180.
[72] Sui codici di condotta, nella prospettiva del contrasto alla disinformazione, cfr. O. Pollicino, I codici di condotta tra self-regulation e hard law: esiste davvero una terza via per la regolazione digitale? Il caso della strategia europea contro la disinformazione online, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 4, 2022, 1051 ss.
[73] L. Torchia, I poteri di vigilanza, controllo e sanzionatori, cit., 1103.
[74] Così A. Simoncini, La co-regolazione, cit., 1032.
[75] Art. 2, par. 2.
[76] Si tratta, quindi, di una scelta che rientra, a tutti gli effetti, nell’attività discrezionale, più precisamente nell’ambito della discrezionalità politico-amministrativa dove vi è, quindi, per definizione, un potere di scelta; cfr. D. Sorace-S. Torricelli, Diritto delle amministrazioni pubbliche. Una introduzione, Bologna, 2023, 285 ss.
[77] Cfr. il punto 70 del Considerando del DMA.
[78] A. Iannuzzi, Paradigmi normativi per la disciplina della tecnologia, cit., 100.
[79] Sul punto cfr. la prospettiva di A. Cardone, L’incidenza della libertà di espressione garantita dall’art. C.e.d.u. nell’ordinamento costituzionale italiano, in Osservatorio sulle fonti, 3, 2012, 1 ss. Sulla libertà di espressione, più in generale, cfr. l’approfondito contributo di M. Luciani, La libertà di espressione, una prospettiva di diritto comparato -Italia, in Studio per il Servizio Ricerca del Parlamento europeo, PE, 2019.
[80] Su cui non si prescinda da C. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958.
[81] Sul punto, per un inquadramento generale, cfr. G. Cassano-A. Contaldo, Internet e tutela della libertà di espressione, Milano, 2009; M. Betzu, Regolare Internet. Le libertà di informazione e di comunicazione nell’era digitale, Torino, 2012.
[82] Aa.Vv., Il futuro del diritto pubblico, cit., p. 100.
[83] «Fin dall’inizio si è invero constatato che la Rete, a differenza dell’etere, non presenta limiti di utilizzo, potendo anzi diffondere una quantità di informazioni infinitamente superiore alla capacità dell’essere umano di prenderne visione», così M. Manetti, Internet e i nuovi pericoli per la libertà di informazione, in Quaderni costituzionali, 3, 2023, 537.
[84] In merito cfr. G. Pitruzzella, La libertà di informazione nell’era di Internet, in questa Rivista, 1, 2018, 4.
[85] In proposito, con specifica attenzione alle misure di contrasto di tale fenomeno a livello internazionale, cfr. F. Sciacchitano-A. Panza, Fake news e disinformazione online: misure internazionali, in questa Rivista, 1, 2020, 102 ss. Sul punto cfr. anche M. Monti, Fake news e social network: la verità ai tempi di Facebook, in questa Rivista, 1, 2017, 79 ss. Più in generale, sulla disinformazione cfr. M. Cuniberti, Il contrasto alla disinformazione in rete tra logiche del mercato e (vecchie e nuove) velleità di controllo, in questa Rivista, 1, 2017, 26 ss.; S. Sassi, Disinformazione contro costituzionalismo, Napoli, 2021 (della stessa A. cfr. anche L’Unione Europea e la lotta alla disinformazione, in Federalismi.it, 15, 2023, 183 ss.); C. Hassan-C. Pinelli, Disinformazione e democrazia. Populismo, rete e regolazione, Venezia, 2022. In proposito, con particolare riferimento all’intelligenza artificiale, di recente, cfr. O. Pollicino-P. Dunn, Intelligenza artificiale e democrazia. Opportunità e rischi di disinformazione e discriminazione, Milano, 2024.
[86] Sul punto cfr. P. Falletta, Controlli e responsabilità dei social network sui discorsi d’odio online, in questa Rivista, 1, 2020, 146 ss. In proposito anche M. Manetti, Regolare Internet, cit., 40 ss.
[87] Più in generale, come è stato di recente osservato, l’aumento «dell’utilizzo del web come strumento di comunicazione ha determinato, in senso positivo, un ampliamento degli spazi entro cui gli individui svolgono la propria personalità, ma ha parallelamente allargato, in senso negativo, la sfera dei comportamenti lesivi delle libertà altrui», Aa.Vv., Il futuro del diritto pubblico, cit., 101.
[88] In proposito, dove si riflette sulla libera dalla rete e sulla libertà in rete, cfr. G. De Minico, Libertà in Rete. Libertà dalla Rete, Torino, 2020, passim.
[89] Sul punto, con particolare riguardo al rapporto che intercorre tra utenti, intermediari e gestori delle piattaforme, da un lato, e potere pubblico, dall’altro, cfr. M. Cuniberti, Potere e libertà nella rete, cit., 39 ss.
[90] La libertà di manifestazione del pensiero, non a caso, è stata – come noto – definita dalla Corte costituzionale quale «pietra angolare dell’ordine democratico», Corte cost., 2 aprile 1969, n. 84, punto 5 del Considerato in diritto. Sul punto, di recente, cfr. L. Buffoni, Sulle libertà. Contro le dicotomie, in Osservatorio sulle fonti, n. 3, 2024, 35, la quale, muovendo dal modello discorsivo di Carta costituzionale prospettato da Habermas «ove il principio del discorso […] poggia sulla co-originarietà di autonomia pubblica e privata, perché “l’autonomia pubblica dei cittadini dello Stato non è immaginabile a prescindere dalla autonomia privata dei membri della società, e viceversa. Entrambe le autonomie si presuppongono reciprocamente”, dove “pubblico e privato, potere e libertà, sono, dunque, uniti, intrecciati», e l’esercizio in concreto dei diritti di libertà rileva quale «condizione essenziale della “democrazia pluralista” e della partecipazione del popolo sovrano alla “elaborazione dell’indirizzo politico” e viceversa», osserva che è lo stesso «sostrato teorico che fa della libertà individuale di manifestazione del pensiero e del di ritto all’informazione «la pietra angolare del sistema democratico», nella nota decisione costituzionale n. 84 del 1969».
[91] In proposito cfr. L. Califano, La libertà di manifestazione del pensiero… in rete; nuove frontiere di esercizio di un diritto antico. Fake news, hate speech e profili di responsabilità dei social network, in Federalismi.it, n. 26, 2021, 2. Con particolare riferimento ai social network ove si riflette, altresì, sulla relativa loro qualificazione giuridica, cfr. M. Bassini, Libertà di espressione e social network, tra nuovi “spazi pubblici” e “poteri privati”. Spunti di comparazione, in questa Rivista, 2, 2021, 67 ss.
[92] Dove, per esempio, la libertà di manifestazione del pensiero si sarebbe realizzata compiutamente più che in ogni altro contesto ed in ogni altra forma possibile in ragione dell’assenza, giustappunto, di un controllo esterno.
[93] «Un mondo, quello dei social media che, in realtà, tutto è meno che una società aperta; la promessa di libertà, di disintermediazione, di autonomia che internet sembrava promettere, risulta compromessa da una terra virtuale proprietà di un nuovo sovrano che deve portarci a riflettere, senza peraltro incorrere nel rischio della proposta di elaborazioni e soluzioni inedite, sulla tenuta dei principi elaborati nel tempo dalla più accorta e autorevole dottrina», così L. Califano, La libertà di manifestazione del pensiero, cit., 6.
[94] Sul punto, per un inquadramento del fenomeno con riferimento alla libertà di informazione, cfr. F. Donati, Fake news e libertà di informazione, in Scritti in onore di Giovanni Furgiuele, tomo I, Mantova, 2017, 125 ss. Con attenzione al rapporto tra fake news e democrazia cfr. E. Lehner, Fake news e democrazia, in questa Rivista, 1, 2019, 93 ss.
[95] Una questione particolarmente complessa attiene al rapporto tra fake news e “diritto ad essere informati”. Invero, in ragione dell’esistenza di quest’ultimo diritto, si potrebbe sostenere che le fake news rappresentino uno strumento attraverso il quale si perpetra la sua violazione. La risposta all’interrogativo dipende a seconda di come si interpreti il contenuto della libertà di manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost. Invero, la «risposta è positiva ove si ritenga che l’art. 21 Cost. vieti le manifestazioni del pensiero consapevolmente e subiettivamente false», mentre «è di segno opposto ove non si accolga la concezione funzionale della libertà di manifestazione del pensiero, secondo la quale quest’ultima dovrebbe essere garantita solo in quanto vera e pertanto nei limiti della sua utilità rispetto alla preservazione e al consolidamento delle strutture dello Stato democratico-costituzionale, che esigerebbero la verità», così P. Caretti-A. Cardone, Il diritto dell’informazione e della comunicazione, cit., 258. Sul rapporto fra verità e libertà di manifestazione del pensiero, per tutti, cfr. C. Pinelli, “Postverità”, verità e libertà di manifestazione del pensiero, in questa Rivista, 1, 2017, 41 ss. Sull’art. 21 Cost. e la sua evoluzione, di recente, cfr. F. Donati, L’art. 21 della Costituzione settanta anni dopo, in questa Rivista, 1, 2018, 93 ss. Per l’idea della necessità di un intervento (puntuale) di modifica di tale disposizione, cfr. M. Orofino, Art. 21 Cost.: le ragioni per un intervento di manutenzione ordinaria, in questa Rivista, 2, 2019, 77 ss.
[96] Per un inquadramento generale circa i caratteri assunti dal costituzionalismo europeo in ordine a tali due fenomeni cfr. O. Pollicino, La prospettiva costituzionale sulla libertà di espressione nell’era di Internet, in questa Rivista, 1, 2018, 48 ss. Sul punto cfr. anche G. Pitruzzella-O. Pollicino-G.S. Quintarelli, Parole e potere: libertà di espressione, hate speech e fake news, Milano, 2017.
[97] Così G.L. Conti, Manifestazione del pensiero attraverso la rete e trasformazione della libertà di espressione: c’è ancora da ballare per strada?, in Rivista AIC, 4, 2018, 203.
[98] Si pensi, ad esempio, alla creazione, da parte di Facebook ed Instragram, di un Indipendent Oversight Board, una sorta di comitato di vigilanza che si propone di svolgere attività para-giurisdizionali in materia di diritti fondamentali come, giustappunto, rispetto alla libertà di espressione. Sul punto, di recente, cfr. Aa.Vv., Il futuro del diritto pubblico, cit., 102.
[99] Sulla censura privata cfr. M. Cuniberti, Potere e libertà nella rete, cit., 51 ss.
[100] G.L. Conti, Manifestazione del pensiero attraverso la rete e trasformazione della libertà di espressione, cit., 216.
[101] Con particolare riferimento alla decisione del Consiglio dell’Unione europea di sospendere taluni organi di informazione ed agenzie di stampa sottoposti al controllo dello Stato russo cfr. S. Lattanzi, La lotta alla disinformazione nei rapporti tra Unione e Stati terzi alla luce del conflitto russo-ucraino, in questa Rivista, 3, 2022, 158 ss.
[102] Sul controllo, da parte delle piattaforme online, circa i contenuti pericolosi, cfr. C. Bassu, Piattaforme online e controllo dei contenuti pericolosi, in questa Rivista, 1, 2020, 230 ss.
[103] G.L. Conti, La Costituzione al tempo della simbiosi uomo macchina, in Osservatorio sulle fonti, 3, 2024, 113.
[104] Sul punto, di recente, avuto riguardo alla libertà di informazione, cfr. M. Manetti, Internet e i nuovi pericoli per la libertà di informazione, cit., 523 ss.
[105] Cfr. il punto 3 dei Considerando.
[106] Sul punto cfr. P. Caretti-A. Cardone, Il diritto dell’informazione e della comunicazione, cit., 267, ove si rileva che a conferma della «matrice strettamente economistica di tali provvedimenti [DSA e DMA] basti ricordare la loro base legale, ovvero l’art. 114 del TFUE: l’obiettivo principale di queste forme di regolazione è, infatti, quello di garantire il buon funzionamento del mercato interno, in particolare per quanto riguarda la prestazione dei servizi digitali transfrontalieri».
[107] In particolare, il profilo relativo alla disinformazione, su cui cfr. A. Gullo, Contenuti, scopi e traiettoria della ricerca: le nuove frontiere della compliance nel mercato digitale, 13 ss.; L. D’Agostino, Disinformazione e obblighi di compliance degli operatori del mercato digitale alla luce del nuovo Digital Services Act, 16 ss.; E. Birritteri, Contrasto alla disinformazione, Digital Services Act e attività di private enforcement: fondamento, contenuti e limiti degli obblighi di compliance e dei poteri di autonormazione degli operatori, 52 ss.; S. Sabia, L’enforcement pubblico del Digital Services Act tra Stati membri e Commissione europea: implementazione, monitoraggio e sanzioni, 88 ss., tutti in questa Rivista, 2, 2023. Nella prospettiva di una virtuosa collaborazione fra potere pubblico e piattaforme digitali, nell’ottica di contrastare il fenomeno della disinformazione in rete, si muove lo scritto di G.E. Vigevani, Piattaforme digitali private, potere pubblico e libertà di espressione, in Diritto costituzionale. Rivista quadrimestrale, 1, 2023, 41 ss.
[108] La stessa cosa vale per la disabilitazione dell’accesso agli stessi.
[109] Cfr. il punto 22 dei Considerando.
[110] Cfr. il punto 47 dei Considerando.
[111] Sul pluralismo informativo, anche nell’ottica della sua distinzione “pluralismo esterno”-“pluralismo interno” (su cui cfr. Corte cost., 14 luglio 1988, n. 826), cfr. M. Manetti, Pluralismo dell’informazione e libertà di scelta, in Rivista AIC, 1, 2012, 1 ss.; M. Cuniberti, Pluralismo dei media, libertà di espressione e “qualità” della legislazione: il caso “Centro Europa 7” di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in Rivista AIC, 3, 2012, 5 ss.; O. Pollicino, Tutela del pluralismo nell’era del digitale: ruolo e responsabilità degli Internet service provider, in Percorsi costituzionali, 1, 2014, 45 ss.; G. Avanzini-G. Matucci (a cura di), L’informazione e le sue regole. Libertà, pluralismo e trasparenza, Napoli, 2016; R. Borrello, Alcune riflessioni preliminari (e provvisorie) sui rapporti tra i motori di ricerca ed il pluralismo informativo, in questa Rivista, 1, 2017, 68 ss.; G.E. Vigevani, I media di servizio pubblico nell’età della rete. Verso un nuovo fondamento costituzionale, tra autonomia e pluralismo, Torino, 2018.
[112] In merito rimane attuale S. Rodotà, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Roma-Bari, 1997.
[113] In proposito cfr. F.R. De Martino, L’attualità del principio pluralista come problema, in Rivista AIC, 2, 2019, 569 ss.
[114] Fenomeno che con Internet è indubbiamente aumentato. Spiega le ragioni di ciò G. Pitruzzella, La libertà di informazione nell’era di Internet, cit., 30 ss., dove si illustra, altresì, perché con la rete le notizie false acquistino maggiore rilevanza. La prospettiva che risulta più condivisibile, ad avviso di F. Pizzetti, Fake news e allarme sociale: responsabilità, non censura, in questa Rivista, 1, 2017, 48 ss., è quella di una maggiore responsabilizzazione degli utenti (affinché essi si possano autoproteggere) anziché quella di ricorrere ad una censura (di matrice privatistica o pubblicistica che sia).
[115] «Non si può trascurare […] che il DSA inizia a porre un freno all’uso illegittimo, dannoso, non solo penalmente rilevante, ma anche distorto dell’informazione online che può produrre effetti manipolatori, limitando di fatto il diritto all’informazione», così V. De Santis, Identità e persona all’epoca dell’intelligenza artificiale: riflessioni a partire dall’IA act, in Federalismi.it, 19, 2024, 150.
[116] Il potere delle piattaforme di rimuovere i contenuti trova la sua base all’art. 3, lett. t). Infatti, con l’espressione «moderazione dei contenuti» il legislatore intende «le attività, automatizzate o meno, svolte dai prestatori di servizi intermediari con il fine, in particolare, di individuare, identificare e contrastare contenuti illegali e informazioni incompatibili con le condizioni generali, forniti dai destinatari del servizio, comprese le misure adottate che incidono sulla disponibilità, sulla visibilità e sull’accessibilità di tali contenuti illegali o informazioni, quali la loro retrocessione, demonetizzazione o rimozione o la disabilitazione dell’accesso agli stessi, o che incidono sulla capacità dei destinatari del servizio di fornire tali informazioni, quali la cessazione o la sospensione dell’account di un destinatario del servizio». Di “rimozione” si parlava già nella parte dei Considerando, come visto (il riferimento è al punto 22 degli stessi).
[117] Sulla questione – assai complicata nonché delicata – circa la possibilità di distinguere le fake news dalle opinioni ragiona G. Pitruzzella, La libertà di informazione nell’era di Internet, cit., 32 ss.
[118] O. Pollicino, La prospettiva costituzionale sulla libertà di espressione, cit., 81, a detta del quale, ragionando nell’ottica propria del costituzionalismo europeo, si può, forse, ritenere «doveroso, soprattutto richiamandosi alla scarsità dell’attenzione da parte degli utenti e all’esigenza costituzionale di una loro corretta informazione, un intervento dei pubblici poteri, quale che ne sia la forma, volta a reprimere la circolazione delle false notizie».
[119] S. Rodotà, Recensione a Giovanna De Minico. Internet. Regola e anarchia, Napoli, 2012, in Diritto pubblico, 1, 2014, 361.
[120] In proposito cfr. C. Napoli, Territorio, globalizzazione, spazi virtuali, in La Rivista del Gruppo di Pisa, 2, 2021, 204 ss.
[121] Sul punto cfr. M. Betzu, Poteri pubblici e poteri privati, cit., 168.
[122] Compito del costituzionalismo – oltre a quello di limitare il potere politico – è quello di limitare il potere economico dei soggetti privati, in special modo allorché esso, per le dimensioni raggiunte, rischi di mettere a repentaglio diritti e libertà costituzionalmente riconosciute e garantite; sul punto si rimanda ancora una volta a M. Betzu, I baroni del digitale, cit., passim, e F. Paruzzo, I sovrani della rete, cit., passim.
[123] Sul diritto privato regolatorio cfr. R. Natoli, Il diritto privato regolatorio, in Rivista della regolazione e dei mercati, 1, 2020, 134 ss.
[124] Sulle sfide che si trova ad affrontare il costituzionalismo nell’epoca della società digitale, con particolare riferimento alla garanzia dei diritti fondamentali, cfr. O. Pollicino, L’“autunno caldo” della Corte di giustizia in tema di tutela dei diritti fondamentali in rete, cit., 11.
[125] E. Cremona, L’erompere dei poteri privati nei mercati digitali, cit., 901.
[126] Ivi, 888. Sulla compatibilità o meno del fine della tutela del mercato in sé e di quello dei consumatori ad opera del principio di concorrenza, cfr. G. Amato, Tutela della concorrenza o tutela dei consumatori. Due fini confliggenti?, in Mercato, concorrenza, regole, 2, 2009, 381 ss. Sul punto cfr. anche G. Repetto, Efficienza economica, libertà e tutela dai poteri privati: a cosa serve il principio di libera concorrenza?, in Diritto costituzionale. Rivista quadrimestrale, 1, 2021, 112 ss.
[127] Per riprendere un’espressione utilizzata da Giovanni Miele nel suo fondamentale scritto Umanesimo giuridico, in Rivista di diritto commerciale, 1, 1945, 103 ss.
[128] M.S. Giannini, Il pubblico potere, Milano, 1986 (dello stesso A. cfr. anche Istituzioni di diritto amministrativo, I, Milano, 1993, 75).
[129] Sul punto si rimanda ancora a M. Manetti, Internet e i nuovi pericoli per la libertà di informazione, cit., 523 ss.
[130] In una prospettiva che è necessariamente di tutela multilivello. Sulla tutela multilivello dei diritti fondamentali, per un inquadramento generale, cfr. A. Cardone, La tutela multilivello dei diritti fondamentali, Milano, 2012.
[131] M. Betzu, Poteri pubblici e poteri privati, cit., 170.
[132] G. Vettori, Sui poteri privati, cit., 831.