Indice: 1. L’orientamento della Corte di cassazione nato nel 2010: l’art. 57 c.p. non si applica ai giornali telematici. – 2. Le Sezioni Unite del 2015 e l’estensione alle manifestazioni del pensiero online della disciplina costituzionale di favore in materia di sequestro degli stampati. – 3. Come la Cassazione si “impadronisce” della nozione di stampa e giunge a stabilire l’applicabilità dell’art. 57 c.p. al direttore del giornale telematico. – 4. La recente presa di posizione della giurisprudenza di merito: si torna all’inapplicabilità dell’art. 57 c.p. ai giornali telematici.
- L’orientamento della Corte di cassazione nato nel 2010: l’art. 57 c.p. non si applica ai giornali telematici
Il tema della applicabilità delle disposizioni incriminatrici previste per la stampa alla rete è uno di quelli che hanno maggiormente agitato il piccolo mondo del diritto penale dell’informazione. La prolungata latitanza del legislatore, che si ostina a non mettere mano alla materia nel suo complesso, ha favorito oscillazioni giurisprudenziali e indirizzi non sempre condivisibili; in ogni caso una generale incertezza poco compatibile con le esigenze e la funzione della materia penale.
Quella che cercheremo di sintetizzare è la storia ragionata di questo pendolarismo.
La disposizione “protagonista” del racconto sarà l’art. 57 c.p., probabilmente perché l’informazione online è (soprattutto era negli anni scorsi) spesso non firmata. Così, riusciva senz’altro più semplice, invece che compiere indagini per scoprire l’autore del messaggio, limitarsi a contestare un omesso controllo al soggetto indicato come “direttore”, a volte persino “direttore responsabile”, quando il fatto di reato era diffuso per via telematica da un organo simile a quelli tradizionali.
Dopo un periodo di notevole confusione, caratterizzato da un nugolo di decisioni di merito nelle direzioni più disparate, nel 2010 intervenne una pronuncia in un certo qual modo storica, in quanto fu la prima in cui il giudice di legittimità affrontava con nettezza la questione[1].
La sentenza escludeva la estensione della responsabilità ex art. 57 c.p. al direttore di un periodico online sulla base di due argomenti.
Anzitutto, la Corte cominciava col chiedersi se Internet fosse riconducibile oppure no alla definizione di stampa prevista dall’art. 1 della legge n. 47 del 1948. Tenuto conto, infatti, del divieto di analogia in malam partem nel diritto penale, nel primo caso le disposizioni di sfavore previste per la stampa sarebbero state applicabili al nuovo mezzo, nel secondo caso la regola appena menzionata lo avrebbe vietato. I Supremi giudici rilevavano come ai contenuti diffusi via Internet mancassero sia la riproduzione in più esemplari, sia l’uso di mezzi tipografici, meccanici o fisico-chimici per poter rientrare nel perimetro della nozione di stampa coniata dal legislatore.
Questa circostanza portava a una soluzione obbligata: le disposizioni incriminatrici previste per la stampa non potevano avere ad oggetto un fenomeno, magari analogo sotto alcuni profili, ma sostanzialmente diverso come Internet.
La Cassazione avrebbe potuto fermarsi qui. Tuttavia, come ogni tanto accade, anche la giurisprudenza, soprattutto su alcuni temi di particolare rilievo, comprensibilmente, entra nel dibattito e aggiunge un argomento, utile più come spunto per il legislatore che per la decisione di cui si trattava. E così nella motivazione è aggiunto un passaggio che scoraggia il Parlamento a limitarsi, con un tratto di penna, ad estendere la responsabilità del direttore del periodico a stampa a quello del periodico telematico. La dinamicità dei media più recenti, infatti, connotati da enormi flussi informativi, renderebbe inesigibile un controllo simile a quello prescritto dall’art. 57 c.p.
Dunque, stando a questa pronuncia, l’estensione della disciplina sarebbe stata non solo impossibile per contrasto con il citato principio costituzionale, ma anche non auspicabile.
In seguito a tale leading case si è formato un orientamento di legittimità, consolidatosi negli anni[2] che ribadiva, con costanza, come le disposizioni incriminatrici o le aggravanti in tema di carta stampata non si applicassero al diverso settore dell’informazione attraverso Internet.
- Le Sezioni Unite del 2015 e l’estensione alle manifestazioni del pensiero online della disciplina costituzionale di favore in materia di sequestro degli stampati
Nel particolare statuto previsto dall’ordinamento per la stampa non esistono però soltanto disposizioni incriminatrici e aggravanti, ma anche, per così dire, “di favore”. Quelle di maggiore rilievo sono senz’altro l’art. 21 co. 3 e 4 Cost., tra le rare regole costituzionali di diretta applicazione giudiziale, che limitano la possibilità di effettuare sequestri preventivi di stampati ai delitti per cui una legge sulla stampa espressamente lo autorizzi. Di queste ci dobbiamo occupare poiché una decisione in materia avrà un peso nella nostra storia.
Sulla possibilità di estendere le garanzie dalla stampa alle manifestazioni del pensiero diffuse in rete sono nel 2015 intervenute le Sezioni Unite[3]. La Cassazione, nella propria composizione più autorevole, ha esordito individuando il rischio di un conflitto con il principio di uguaglianza nel trattamento dei messaggi diffusi sulla stampa e online qualora la disposizione costituzionale si applicasse soltanto ai media tradizionali. Per evitare tale conflitto, i Supremi giudici hanno coniato una inedita definizione di stampa: essa non dovrebbe più essere tratta dall’interpretazione letterale dell’art. 1 della legge n. 47 del 1948, bensì dovrebbe essere intesa in senso «figurato», corrispondendo così in sostanza alla “informazione giornalistica professionale”, categoria coniata da questa sentenza e che la motivazione cerca di delineare, enumerandone alcune caratteristiche. Tra queste vi sarebbero appunto la presenza di un direttore responsabile, di una testata registrata, di una redazione.
Nel perimetro sarebbero ricompresi dunque tutti i prodotti editoriali aventi, da un lato, una struttura a testata periodica e regolare (requisito ontologico), d’altro lato, la finalità della pubblicazione (requisito teleologico). Sarebbero «stampa», dunque, tutti i “giornali”, cartacei oppure telematici, senza distinzione, il che consentirebbe di evitare contrasti con l’art. 3 Cost.
Questo tentativo della giurisprudenza di legittimità di surrogarsi al legislatore, introducendo una nozione di stampa lontana da quella letterale, non convince.
Anzitutto perché sembra basarsi su un equivoco: l’art. 21 Cost. non tutela dal sequestro soltanto la stampa periodica, bensì qualunque stampato. Sicché, se proprio si fosse voluto evitare ogni tensione con il principio di uguaglianza sarebbe stato necessario estendere la garanzia non ai messaggi online diffusi da professionisti dell’informazione, bensì a tutti i contenuti assimilabili agli stampati. Ciò non avrebbe imposto il superamento della definizione legislativa, con un’operazione di equilibrismo forse eccessivo, tenuto conto che nella materia penale non si dovrebbe prescindere dal rigoroso rispetto del principio di tassatività. Sarebbe stato sufficiente, infatti, utilizzare il criterio dell’analogia, certamente invocabile quando si tratti di estendere l’operatività di disposizioni in bonam partem.
In tal caso, la strada non sarebbe stata nemmeno troppo ardua: l’art. 2 della legge stampa definisce quali sono i requisiti obbligatori per gli stampati: l’indicazione dell’editore o dello stampatore e l’anno di edizione. In un’interpretazione evolutiva di tali caratteri, la Cassazione avrebbe ben potuto stabilire che le garanzie dell’art. 21 Cost. “coprivano” anche i messaggi telematici non anonimi e provvisti della data di diffusione.
Questa soluzione sembra più in linea con il sistema nel suo complesso. Avrebbe infatti consentito di evitare una lesione del principio di tassatività, nonché di rivolgersi al palazzo della Consulta, via maestra nel caso di ritenuta violazione di regole costituzionali.
C’è da dire però che il principio di tassatività entra in fortissima tensione solo quando la sua violazione implica l’estensione del penalmente rilevante o una stretta alle garanzie della persona. Qualora, invece, si tratti di ampliare queste ultime, l’interprete ha “spazio di manovra” maggiore. Ecco perché, quindi, la nuova nozione di stampa elaborata dalle Sezioni Unite, che resta non condivisibile, se non altro per il percorso logico giuridico da cui origina, non si pone però del tutto fuori dal sistema.
L’equiparazione tra giornali cartacei e online viene per la prima volta introdotta in un procedimento in cui si discuteva dell’estensibilità alle testate telematiche registrate delle garanzie costituzionali in materia di sequestro. Sicché la nuova nozione di stampa, al più, dovrebbe essere limitata esclusivamente ai casi analoghi.
Tale circostanza non stupisce, né scandalizza, in quanto in Costituzione ben possono esistere parole con un significato diverso o comunque non del tutto sovrapponibile a quello che le stesse hanno se utilizzate in una legge ordinaria. Nella Carta, infatti, compaiono espressioni normalmente interpretate in modo parzialmente o totalmente diverso rispetto a quando compaiono altrove. È il caso della nozione costituzionale di domicilio, inteso come luogo nel quale la persona svolge attività connesse con la propria vita privata e dal quale intende escludere soggetti terzi, diversa da quella utilizzata nel Codice civile, ovvero la sede principale degli affari e degli interessi della persona, e nel Codice penale, dove il domicilio è definito ex art. 614 c.p. come «luogo di privata dimora».
Si pensi anche al buon costume: la nozione costituzionale ricomprende tutto ciò che risulta offensivo del valore fondamentale della dignità umana; mentre nel Codice civile è richiamato ex art. 1343 c.c. e viene inteso come ciò che contrasta con i principi etici dominanti in un certo momento storico; nel codice penale, poi, ex art. 529 c.p. è considerato contrario al buon costume ciò che «secondo il comune sentimento» offende il «pudore».
- Come la Cassazione si “impadronisce” della nozione di stampa e giunge a stabilire l’applicabilità dell’art.57 c.p. al direttore del giornale telematico
Errori interpretativi alla base di indirizzi giurisprudenziali particolarmente creativi rischiano di creare danni non sempre prevedibili.
E così la nuova nozione figurata di stampa, forgiata dalle Sezioni Unite nel 2015, è stata ritenuta utilizzabile anche in ambiti ulteriori rispetto a quello in cui era “nata”. Più precisamente, a partire dal 2018, alcune decisioni della Cassazione, ritenendo che ormai per “stampa” si potessero sempre intendere tutti i media che si occupano di informazione professionale, hanno preso a mettere in discussione il proprio stesso indirizzo che, dal 2010 in modo costante, aveva escluso la possibilità di applicare le disposizioni incriminatrici previste per la stampa alla rete.
Questo in sintesi il ragionamento: le testate telematiche, assimilabili funzionalmente e ontologicamente a quelle cartacee, sono riconducibili alla più recente nozione di stampa; ad esse, quindi, sono riferibili tutte le disposizioni incriminatrici previste per tale fenomeno, tra cui il reato ex art. 57 c.p., senza che ciò determini alcuna violazione del divieto di analogia in malam partem[4].
Tale effetto non trova solide ragioni a proprio sostegno e, invece, presenta robuste controindicazioni.
Anzitutto, tra l’interpretazione letterale e quella figurata del concetto di “stampa”, la Cassazione ha inspiegabilmente favorito la seconda, richiamando un non meglio precisato concetto di “informazione professionale” per identificarne i confini. Una simile operazione contrasta con il principio di tassatività in quanto gli elementi che contribuiscono a delimitare le fattispecie incriminatrici, soprattutto quando l’ordinamento ne fornisce una definizione, vanno letti in modo restrittivo, preferendo per ovvie ragioni l’esegesi letterale, ove possibile, a qualunque ulteriore criterio. In altri termini, la definizione di stampa prevista dall’art. 1 della legge n. 47 del 1948 deve essere applicata dal giudice nel suo senso letterale e non figurato, come fanno le Sezioni Unite.
Poi, la nuova definizione di stampa, inesistente nell’ordinamento giuridico italiano in tali termini, è priva di contorni chiari e precisi: non è operazione semplice stabilire quali manifestazioni del pensiero vi rientrano e quali, invece, ne rimangono escluse. Tale nozione si colloca, infatti, al di fuori delle categorie costituzionali che permettono di distinguere tra la “stampa” in generale e la più specifica stampa periodica.
A riprova della scarsa determinatezza di tale nozione, bisogna ricordare che la giurisprudenza di legittimità esclude l’applicazione dell’art. 57 c.p. agli amministratori di siti Internet diversi dalle testate giornalistiche telematiche[5]. Tale distinzione non pare del tutto ragionevole e rispettosa del principio di uguaglianza, a maggior ragione se si considera che in capo ai giornali telematici non sussiste l’obbligo di registrazione presso il Tribunale, regola invece valida per le sole edizioni cartacee (art. 5, legge n. 47 del 1948).
Un ulteriore paradosso: tra le caratteristiche che le Sezioni Unite riconducono alla stampa c’è quella di avere una testata registrata. Dunque, poiché non sussiste alcun obbligo per quelle telematiche di registrarsi – non essendo “stampa” finché registrate non sono – sarebbe sufficiente evitare l’incombente amministrativo per eludere l’incriminazione. Il cortocircuito logico e giuridico appena descritto porta ulteriori argomenti alla erroneità di una simile impostazione.
Avrebbe dovuto essere chiaro, dunque, che anche se la Cassazione aveva plasmato una nuova nozione di stampa, apposta per l’art. 21 Cost., ciò non significava che ne esistesse una e una sola, valida sia per l’art. 21 Cost., sia per la legge n. 47 del 1948 e per le disposizioni del Codice penale. Con “stampa”, infatti, da una parte, ci si sarebbe potuti riferire all’informazione di tipo professionale quando la parola è utilizzata nell’art. 21 Cost. (estendendo le garanzie in materia di sequestro alle testate telematiche) e, dall’altra, alle sole riproduzioni cartacee quando la stessa parola compare nelle disposizioni della legislazione ordinaria (evitando ampliamenti a dismisura e contrasti con il principio di tassatività).
Resta poi ancora valida la considerazione circa la inattuabilità di una condotta di controllo per il direttore di un periodico in rete. Nel caso del giornale telematico non esiste una vera edizione confezionata per intero prima della sua diffusione, ma vi è una “pagina”, costantemente aggiornata, anche da più persone, a volte persino esterne alla redazione.
Si tratta, del resto, di un’informazione basata sulla velocità e prontezza; non appena viene acquisita una notizia viene subito diffusa. Di conseguenza, imporre all’informazione online un tale controllo portava con sé il rischio di scivolare verso una responsabilità di tipo oggettivo.
- La recente presa di posizione della giurisprudenza di merito: si torna all’inapplicabilità dell’art. 57 c.p. ai giornali telematici
Erano numerosi gli aspetti che generavano perplessità nell’indirizzo descritto nel paragrafo appena sopra indicato. E così la giurisprudenza di merito non ha tardato a porsi verso di esso in modo assai critico.
Per primo, a quanto consta, si è espresso in contrasto con la Cassazione il Gip di Milano[6] che, pur ammettendo che la nozione di stampa possa essere estesa nel senso indicato dalle Sezioni Unite, esclude l’applicazione dell’art. 57 c.p. ai media telematici. E ciò in quanto «il legame ermeneutico con l’art. 1 l. 47 del 1948 è francamente innegabile»; l’intero sistema della legge stampa «presuppone indefettibilmente un supporto fisico» circostanza «del tutto incompatibile con la funzionalità della testata giornalistica online», sicché l’applicazione della legislazione in materia al periodico online «deve necessariamente passare per un’operazione analogica – preclusa in ambito penale – giacché il senso letterale di “riproduzioni tipografiche” non può non può certo essere esteso fino a ricomprendere la veicolazione di contenuti multimediali».
L’introduzione della nozione di “prodotto editoriale”, ad opera della l. 62/2001, nella quale rientrano senz’altro sia testate cartacee sia telematiche, non autorizza, prosegue il giudice, una diversa interpretazione, nonostante l’art. 1 co. 3 imponga al prodotto editoriale diffuso con cadenza regolare e contraddistinto da una testata, le indicazioni obbligatorie ed eventualmente la registrazione. L’art. 7 co. 3 del d.lgs. 70/2003, infatti, ha chiarito che la registrazione della testata telematica è doverosa solo per chi intende avvalersi delle provvidenze previste dalla legge.
Tale ultima disposizione lascia intendere come non vi sia stata alcuna generalizzata estensione da parte del legislatore della disciplina – men che mai penalistica – della stampa alle testate online. Né ciò implica una violazione del principio di uguaglianza, in quanto il lavoro del direttore di un periodico telematico è diverso da quello di un periodico cartaceo, circostanza che peraltro renderebbe probabilmente inesigibile una estensione tout court dell’art. 57 c.p. a quest’ultimo.
Sempre il Tribunale di Milano[7], pochi giorni dopo, ha smentito ogni equiparazione della testata giornalistica cartacea a quella telematica, sulla base di argomenti analoghi, in particolare la violazione del principio di tassatività, sotto il profilo del divieto di analogia in malam partem nel diritto penale. Così il giudice ha “scartato” l’applicabilità dell’art. 11 legge stampa ai media telematici e quindi la legittimazione attiva come responsabile civile, basata su tale disposizione, del proprietario di una testata telematica.
Anche la Corte d’appello di Milano[8] ha (ri)affermato la non riferibilità dell’art. 57 c.p. al direttore di una testata telematica. Dopo aver richiamato vari orientamenti della Cassazione dal 2010 in avanti, anche i giudici di secondo grado hanno preso le distanze dalle più recenti pronunce della Suprema Corte, mettendone in luce i principali punti “deboli”.
L’iter argomentativo si è basato sulla distinzione fondamentale tra interpretazione estensiva e applicazione analogica. Nel primo caso, infatti, l’interprete opera una massima estensione del significato letterale dei termini della disposizione; nel secondo, invece, il dato letterale viene superato applicando una norma a casi non espressamente disciplinati. La Corte sostiene che la recente giurisprudenza di legittimità debba essere ricondotta al secondo caso, con la conseguente violazione del divieto di analogia in malam partem sancito espressamente non solo nell’art. 25, comma 2, Cost., ma anche nell’art. 14 delle Preleggi e nell’art. 1 c.p.
Questo il punto in cui il tema viene espresso nel modo più netto, tanto che merita di essere riportato qui per intero: «l’estensione di una garanzia, quale quella della libertà di stampa, da parte della giurisprudenza delle Sezioni Unite […] non può e non deve consentire l’automatica estensione della responsabilità penale per casi non disciplinati dalla legge. Interpretare evolutivamente il concetto di stampa, in assenza di un intervento legislativo, è ammissibile se comporta un trattamento di favore nei confronti del cittadino, ma non se comporta la creazione di nuove fattispecie incriminatrici, agendo in suo svantaggio, perché l’interprete non ha il potere, nell’ambito del diritto penale, di colmare i vuoti normativi lasciati dal legislatore, creando di fatto nuove fattispecie incriminatrici. La giurisprudenza successiva alle Sezioni Unite del 2015, invece, ha allargato analogicamente in malam partem l’obbligo di controllo – e le conseguenze del colposo omesso impedimento di cui all’art. 57 c.p. – anche al direttore del quotidiano online in aperto contrasto con il dettato normativo».
In sostanza, l’introduzione per via giurisprudenziale di una nozione di stampa più ampia può consentire l’estensibilità di norme di favore, ma non di fattispecie incriminatrici, rilevando che «se davvero un’esigenza di responsabilizzazione per omesso controllo esiste, anche nel settore telematico, è solo il legislatore che può legittimamente farsene carico. Ad oggi, in assenza di una previsione normativa in questo senso, non è compito del giudice colmare un vuoto normativo con l’applicazione analogica di una previsione punitiva».
Più di recente, poi, altre due pronunce, ancora del Tribunale di Milano, hanno ribadito questo indirizzo, ormai, almeno nel Foro lombardo, sempre più consolidato.
La prima è una sentenza[9] con cui è stato dichiarato non luogo a procedere all’esito dell’udienza predibattimentale nei confronti di tre direttori di testate online per non aver commesso il fatto. In tale pronuncia, dopo aver ribadito a più riprese quanto statuito dall’art. 1 c.p. e dal divieto di analogia in malam partem, si afferma che «con riferimento ai giornali telematici […], sebbene meritino l’estensione delle garanzie costituzionali previste per la stampa cartacea, è evidente che […] non rientrino nel concetto di “stampa” di cui all’art. 1 L. 47/1948 […], tenuto altresì conto di ulteriori conseguenze rischiose che tale interpretazione analogica in malam partem potrebbe comportare: la collocazione della “responsabilità colposa nel pericoloso alveo della responsabilità oggettiva”, atteso che risulta assai difficile esigere dal direttore di un giornale online la consapevole responsabilità di tutte le pubblicazioni, stante la possibilità di intervenire con aggiornamenti in qualunque momento della vita di un articolo telematico».
Infine, di pochi giorni prima della redazione di queste note è un’altra sentenza[10], all’esito sempre di udienza predibattimentale, emessa da un’altra sezione. Qui il giudice prende atto anzitutto dell’esistenza, in tema di estensibilità dell’art. 57 c.p. alle testate online, dell’indirizzo sopra ricordato della «giurisprudenza di merito [… che] si sta recentemente esprimendo nel senso che solo il legislatore può legittimamente colmare la lacuna normativa» di cui si tratta, ribadendo che una soluzione diversa non sarebbe soltanto in contrasto con il divieto di analogia in malam partem più volte qui citato, ma porrebbe altresì con ogni probabilità una condotta inesigibile “sulle spalle” del direttore del periodico telematico, attribuendogli un obbligo che trascolorerebbe in una responsabilità oggettiva.
Quest’ultimo indirizzo sembra quindi avere corretto una deriva, propiziata dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2015 e, in particolare, dalla più volte citata inedita nozione di stampa formulata nella motivazione, tanto discussa e altrettanto discutibile.
Un intervento del legislatore, nonostante ciò, sarebbe auspicabile, in teoria. In pratica, però, esso, se si tiene conto delle ultime novelle in materia penale, rischia di essere più dannoso che efficace. E allora si resta così – non come d’autunno sugli alberi le foglie – ma in balia del pendolarismo giurisprudenziale, che oggi, a differenza di altri momenti, regala almeno uno sguardo di pacato ottimismo verso il futuro.
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[1] Si tratta della celeberrima Cass. pen., sez. V, 16 luglio 2010, n. 35511, CED 248507, Brambilla, in Cass. pen., 2011, 2980.
[2] Cass. pen., sez. V, 16 luglio 2010, n. 35511, CED 248507, Brambilla in Cass. pen., 2011, 2980; Cass. pen., sez. V, 28 ottobre 2011, n. 44126, CED 251132, Hamaui, in Dir. inf. inform., 2011, 795; nello stesso senso, Cass. pen., sez. III, 10 maggio 2012, n. 23230, Ruta, CED 252979, in Dir. inf. inform., 2012, 1118.
[3] Cass. pen., sez. un., 28 gennaio 2015, n. 31022, CED 264090 in Dejure. Curiosamente, un anno dopo, sullo stesso tema si sono pronunciate anche le Sezioni Unite civili, le quali hanno ribadito quanto già affermato in sede penale sull’estensione della garanzia all’informazione professionale online anche con altri argomenti. Cfr. Cass. civ., sez. un., 25 ottobre 2016, n. 23469, CED 641537.
[4] Cass. pen., sez. V, 11 dicembre 2017, n. 13398, in Dejure; Cass. pen., sez. V, 23 ottobre 2018, n. 1275, CED 274385.
[5] Cass. pen., sez. V, 19 febbraio 2018, n. 16751, CED 272685; Cass. pen., sez. V, 12 gennaio 2021, n. 7220, CED 280473.
[6] Trib. Milano, sez. GIP, ordinanza di archiviazione del 14 ottobre 2021, depositata il 18 ottobre 2021 nell’ambito del proc. pen. n. 21763/2019 R.G.G.I.P.
[7] Trib. Milano, sez. III penale, ordinanza del 27 ottobre 2021, depositata in udienza in pari data nell’ambito del proc. pen. n. 2607/2020 R.G.T.
[8] App. Milano, sez. III penale, ud. 24 novembre 2022, dep. 15 dicembre 2022, n. 7696.
[9] Trib. Milano, sez. V penale, dep. 28 marzo 2024, n. 3825.
[10] Trib. Milano, sez. III penale, sentenza del 30 settembre 2024, depositata in udienza in pari data, n. 11261.