I criteri per la determinazione della competenza territoriale nella diffamazione telematica: l’accertamento dell’evento tra rigore tecnico e ricorso alle presunzioni

Corte di Cassazione, sez. V, 18 settembre 2023, n. 38144

Il ricorso ai criteri suppletivi dettati dall’art. 9 c.p.p. assume carattere residuale per il caso che non sia possibile accertare il luogo della consumazione del reato.
La diffamazione è un reato di evento che si consuma nel momento e nel luogo in cui i soggetti – terzi rispetto all’agente all’offeso – percepiscono l’aggressione offensiva.
L’e-mail è una comunicazione diretta a un destinatario predefinito ed esclusivo, al quale viene recapitata informaticamente presso il server di adozione, collegandosi al quale attraverso un proprio dispositivo e utilizzando delle chiavi di accesso personali, questi può prenderne cognizione.
Mentre per la comunicazione veicolata dal web o dai social media il requisito della comunicazione con più persone può presumersi sulla base dell’inserimento del contenuto offensivo nella rete, per accertare l’effettiva realizzazione dell’evento lesivo nella diffamazione a mezzo e-mail è necessaria quantomeno la prova dell’effettivo recapito della corrispondenza elettronica, sia esso la conseguenza di un’operazione automatica impostata dal destinatario ovvero di un accesso dedicato al server.
La lettura delle e-mail da parte dei destinatari può presumersi salvo prova contraria.
Contro le sentenze di appello pronunziate per reati di competenza del Giudice di Pace non può essere proposto ricorso per cassazione per motivi diversi da quelli previsti dalle lett. a), b) e c) dell’art. 606 c.p.p., rimanendo dunque inibita la prospettazione di meri vizi della motivazione.

 

 

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 38144 del 27 giugno 2023, prosegue nella sua opera, ormai più che ventennale, volta a risolvere le problematiche di diritto sostanziale e processuale che caratterizzano il reato di diffamazione in rapporto con i nuovi mezzi di comunicazione.

La vicenda trattata dalla V Sezione penale della Suprema Corte ha ad oggetto l’invio a plurimi destinatari di un messaggio di posta elettronica ritenuto offensivo della reputazione altrui. A fronte di una fattispecie, quella della corrispondenza elettronica a contenuto diffamatorio, ormai ben conosciuta nell’esperienza giurisprudenziale, la Corte affronta il tema – dedotto con uno dei motivi di ricorso – concernente la determinazione della competenza territoriale e lo standard probatorio richiesto per accertare i presupposti che la radicano avanti a una determinata Autorità Giudiziaria.

La decisione, dopo aver ribadito che il ricorso ai criteri suppletivi dell’art. 9 c.p.p. ha natura residuale (operante solo quando non sia in alcun modo ricavabile il locus commissi delicti), muove dalla qualificazione, che rappresenta principio di diritto ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità[1], della diffamazione quale reato di evento che si consuma nel momento e nel luogo in cui i soggetti – terzi rispetto all’agente all’offeso – percepiscono l’aggressione offensiva.

Da qui, poi, la disamina delle implicazioni di ordine “tecnico”, che derivano dall’utilizzo dello strumento telematico, e la necessità di distinguere tra le diverse forme di comunicazione informatica. La Corte, che ha negli anni elaborato competenze “digitali”, osserva, in linea con una sua precedente pronuncia, pressoché coeva (Cass. pen., sez. V, 24 marzo 2023, n. 12511), come «l’e-mail sia una comunicazione diretta a destinatario predefinito ed esclusivo (anche quando plurimi siano i soggetti cui viene indirizzata), al quale viene recapitata informaticamente presso il server di adozione, collegandosi al quale attraverso un proprio dispositivo e utilizzando delle chiavi di accesso personali, questi può prenderne cognizione».

Inquadrata, così, la modalità attraverso cui l’e-mail giunge nella disponibilità del destinatario, perfezionando l’evento del reato, i Giudici di legittimità pongono una distinzione con l’ipotesi, parimenti esaminata in alcune precedenti pronunce, in cui scritti, immagini o files vocali vengono caricati su siti web o diffusi sui social media. Distinzione, quella introdotta dalla Corte, da cui derivano conseguenze di ordine giuridico.

Nella prospettiva della Cassazione, mentre per la comunicazione veicolata dal web o dai social media il requisito della comunicazione con più persone – elemento strutturale del reato di diffamazione – può presumersi sulla base dell’inserimento del contenuto offensivo nella rete, per quella inviata attraverso lo strumento dell’e-mail, lo standard probatorio adottato diviene più rigoroso, essendo «necessaria quantomeno la prova dell’effettivo recapito degli stessi, sia esso la conseguenza di un’operazione automatica impostata dal destinatario ovvero di un accesso dedicato al server».

Per altro verso, pur essendo richiesta la prova che il messaggio sia stato effettivamente “scaricato” – espressione che la Corte declina come trasferimento sul dispositivo dell’utente dell’indirizzo – la Corte ritiene, sempre in linea con la sua precedente giurisprudenza, che l’effettiva lettura può presumersi, salvo prova contraria.

Appare apprezzabile l’approdo della Corte che – anche in coerenza col principio di offensività – introduce uno standard probatorio minimo che non consente di arrestarsi alla condotta (l’invio della corrispondenza elettronica) ma, richiedendo che sia accertata la realizzazione dell’evento di danno, evita il rischio di trasformare, nei fatti, la fattispecie in un reato di pericolo.

L’occasione, forse, sarebbe stata propizia, nella medesima direzione di rigore quanto agli standards dell’accertamento, per superare anche il principio di diritto, più sopra richiamato, secondo cui la prova dell’effettiva lettura della corrispondenza – che concretizza la lesione della reputazione – può essere presunta. Il ricorso a presunzioni, criterio opinabile in costanza del principio informatore dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”, di fatto determina un’inversione dell’onere probatorio ben difficile da assolvere, imponendo all’imputato di dimostrare che i destinatari delle e-mail non abbiano preso cognizione del loro contenuto; prova che diviene persino diabolica in casi come quello esaminato, in cui la corrispondenza sia indirizzata a un numero rilevante di destinatari (ben 450 nella fattispecie oggetto della sentenza). V’è da dire, però, che nel caso trattato dalla Suprema Corte la prova circa il perfezionamento dell’evento diffamatorio risultava in concreto acquisita non mediante il ricorso a presunzioni, ma sulla scorta delle dichiarazioni testimoniali di due destinatari della corrispondenza elettronica, non contestate dal ricorrente, che in Palermo l’avevano ricevuta.

La decisione rileva anche sotto un diverso profilo, allorché tratta il tema, dedotto con un secondo motivo di ricorso, concernente la responsabilità dell’imputato e il riconoscimento dell’esimente dal medesimo invocata (esclusa dal Tribunale, quale giudice d’appello avverso la pronuncia del Giudice di Pace, per l’assenza di continenza delle espressioni utilizzate e persino per la mancanza di veridicità di alcuni dei fatti esposti nella corrispondenza).

La Corte ha ritenuto la doglianza processualmente inammissibile perché afferente a un mero vizio della motivazione, non deducibile in Cassazione rispetto a sentenze che siano, come nel caso di specie, relative a reati di competenza del Giudice di Pace.

Il principio di diritto espresso dalla Corte è aderente alla disciplina risultante dal combinato disposto degli artt. 606, c. 2-bis, c.p.p. e 39-bis d.lgs. 274/2000, che limitano l’ipotesi del gravame di legittimità ai soli casi contemplati nelle lett. a), b) e c) dell’art. 606 c.p.p.

L’insegnamento della Corte, persino scontato visto il tenore inequivoco delle norme, conferma che eventuali doglianze afferenti il “merito”, in procedimenti di diffamazione che rimangano confinati nella competenza del Giudice di Pace (per l’assenza delle aggravanti previste dal c. 3 e 4 dell’art. 595 c.p.)  potranno essere prospettate solo se sfocino in un’erronea applicazione della legge penale (o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale), mentre ogni censura che attenga alla completezza, coerenza, logicità della motivazione, rimane preclusa.

[1] In questo senso si vedano, tra le altre, Cass. pen., sez. V, 14 dicembre 2022, n. 2251; Cass. pen., sez. V, 22 ottobre 2018, n. 55386

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