Ordine, 60 anni. La trappola della censura educativa

Il mio contributo a questa importante giornata, nella quale festeggiamo i 60 anni dell’Ordine, può avere come titolo – anche se non si dovrebbe fare il titolo prima di scrivere l’articolo – la trappola della censura educativa. Mai come nel periodo che stiamo vivendo, complice la rivoluzione digitale che è, ricordiamocelo bene, nostra amica e non nemica perché allarga e valorizza potenzialmente lo spazio della professione giornalistica, mai come in questo momento dicevo vi è stata una tale convergenza di pensieri, azioni, semplici riflessi mentali che privilegiano la supposta e ipotetica correttezza dell’informazione alla libertà d’espressione, per non parlare dei fenomeni woke e dell’ossessione della cosiddetta cancel culture.

In linea di principio dovremmo essere tutti d’accordo. Ognuno di noi sa quanto dannose siano per una democrazia rappresentativa, nella quale la pubblica opinione è l’architrave della democrazia – come scriveva Giovanni Sartori, siamo nel centenario dalla nascita – le notizie false, le fake news. Ma nel combatterle non dobbiamo commettere l’errore di pagare un prezzo troppo alto al pluralismo e alla libertà di tutte le voci, giuste o sbagliate che siano, di esprimersi. E, nello stesso tempo, dobbiamo scongiurare il rischio, letale, di concedere agli Stati – al ppotere esecutivo più che a quello legislativo e giudiziario – una missione sostanzialmente censoria, pur nella condivisione degli obiettivi e nella salvaguardia di beni pubblici come per esempio la salute.

Una fake news si può prevenire – ma chi ha il potere e l’autorità di giudicarla tale? – si può rimuovere, con gli strumenti che offre la legge, ma certamente la si può combattere ancora di più e meglio smascherandola nella trasparenza, nella responsabilità di un’informazione professionale e qualificata, e soprattutto salvaguardando il pluralismo delle voci che è il vero antidoto. Se si uccide – pur perseguendo un obiettivo condivisibile, quello di limitare le fake news – la libertà d’espressione dei soggetti, si rischiano danni irreparabili alla qualità dell’opinione pubblica, si indeboliscono gli anticorpi di una democrazia, si priva il cittadino di strumenti essenziali per accrescere il proprio spirito critico, lo si tratta come un eterno minorenne e, dunque, lo si espone ancora di più a comunicazioni subdole, verosimili, strumentali che lo sviluppo degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale, renderà ancora più difficilmente rintracciabili.

Va guardata con una certa preoccupazione – e non con il compiacimento per un intervento che limita solo apparentemente il loro strapotere – quella che due giuristi come Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani (Potere, informazione, diritti, Edizioni Il Sole 24 Ore) chiamano una “alleanza censoria” tra Stati e grandi social network. Giusto intervenire – come prescrivono diversi accordi in particolare per iniziativa dell’Unione europea – per contrastare istigazioni a compiere dei reati, discorsi violenti e d’odio, diffusione di immagini lesive di diritti personali – ma rimane il problema di chi abbia la legittimità di operare questo tipo di censura, se vi sia o no un controllo giudiziale, e se non sia meglio, in molti casi, affidarsi al senso di responsabilità dei soggetti professionali dell’informazione, alla loro autorevolezza o sensibilità. E ovviamente a diverse e più evolute regole del gioco.

Non è giusto a mio avviso, togliere la libertà di parola – da parte di un privato poi – a un presidente degli Stati Uniti, è dovere invece dell’informazione denunciarne i falsi. Gli accordi dei social network sono spesso fatti con regimi autoritari che si impossessano dei dati relativi alle vite dei propri cittadini per reprimere ancora di più la libertà. La pandemia prima, e la guerra dopo, hanno indotto gli Stati, non avendo altri strumenti a disposizione, a premere sui social network perché agevolassero una sorta di “verità di Stato”, di “informazione educativa di emergenza”, in alcuni casi assolutamente condivisibile per lo scopo di affrontare delle emergenze, ma non priva di elementi di rischio e di potenzialità negative.

 Ma quanto è esteso l’interesse generale che si vuole tutelare e qual è il limite oltre il quale si comprime in maniera intollerabile un diritto d’opinione? È più facile contrastare reati, peraltro gravi, come la pedopornografia, o difendere il diritto d’autore. Sono fattispecie comunque circoscritte. L’individuazione di un confine dell’interesse generale è, invece, del tutto arbitraria. Il limite tende a sfuggire a un controllo giurisdizionale, rientra nella discrezionalità della politica. Se ritengo, per esempio, che sia nell’interesse generale, l’esigenza di una dieta alimentare diversa a tutela dell’ambiente, la proibizione del fumo o dell’alcol, questo autorizza a limitare la libertà di espressione su questi temi? L’obiettivo è meritorio, non il mezzo attraverso il quale si cerca di raggiungerlo. Abbiamo bisogno per realizzare la transizione ecologica o per migliorare la salute dei cittadini, cambiando le loro abitudini, non solo alimentare, di persone informate, consapevoli, adulte, dotate di spirito critico. E non di minorenni cresciuti, incapaci di distinguere il bene dal male e bisognosi di un tutore civico.

La trappola della censura educativa non risparmia i media tradizionali. Le regole che tutelano soggetti deboli sono chiare. Il rispetto della dignità delle persone, che non sono mai merce dell’informazione, discende da discipline di legge e da codici di autoregolamentazione. C’è un limite al diritto di cronaca che si bilancia costituzionalmente con altri diritti soggettivi. Ne dobbiamo avere sempre di più la consapevolezza per informare meglio. Ma censurare immagini di fatti pubblici – mi riferisco per esempio all’assalto con vernici al Senato – per il timore di scatenare effetti cumulativi, è sinonimo di una postura educativa che rischia di spostare sempre più in avanti quel concetto di interesse generale di cui vi parlavo. Allora non c’è più limite. Il diritto all’oblio è sacrosanto ma non cancella i fatti, quelli rimangono. Sono solo le autocrazie che hanno sfruttato un diritto delle democrazie per cancellare, rimuovere e strumentalizzare la storia.

Allora vi chiederete quali possono essere i rimedi? Innanzitutto, la già richiamata salvaguardia del pluralismo delle voci, l’autorevolezza, la serietà e la responsabilità della professione giornalistica. Nell’era dell’intelligenza artificiale – l’esperienza con la chat GPT è impressionante e sembra sostituire di fatto ogni giornalista – c’è anche un nuovo tema di regole e della loro esigibilità per il quale dovremmo sentirci tutti più impegnati. Per esempio la trasparenza degli algoritmi pur nel rispetto del segreto industriale. L’assoggettazione dei social network a un loro giudice naturale al quale il cittadino possa appellarsi. Le piattaforme dovrebbero poi sentirsi in obbligo di non ospitare più contenuti provenienti da robot o da account non accertati. O almeno di denunciarne la provenienza, in modo da mettere in guardia i lori iscritti. Questo non significa far venir meno la libertà di anonimato o di celarsi dietro un nickname, ma di consentirne l’eventuale individuazione nel caso di reati o di comunicazioni false e strumentali. Ma per perseguire questi obiettivi, dobbiamo essere coscienti di quanto pericolosa sia la trappola della censura educativa e di quanto elevato sia il rischio di esserne di fatto complici. Sprovveduti ma non innocenti.

 

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