Ma il mercato delle idee è proprio al capolinea? Considerazioni sparse a partire dal volume “Il mercato delle verità” di Antonio Nicita.

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La libertà di manifestazione del proprio pensiero vive un periodo non facilmente definibile della propria travagliata storia. Da un lato, Internet e soprattutto i social media hanno certamente consentito alla pressoché totalità delle persone di esprimersi senza censure. Dall’altro, a una simile apertura non è corrisposta analoga trasparenza su quali siano i parametri con cui vengono tracciati i sentieri che ognuno di noi è indotto a percorrere quando si avventura in rete alla ricerca di un’informazione o viene raggiunto da questo o da quel messaggio sulle varie piattaforme.

Una simile opacità, di cui di volta in volta può approfittare chi intende promuovere interessi politico o economici non sempre commendevoli, ha spinto molti commentatori a ritenere che le coordinate che delineano il contesto digitale non possano essere definite con le medesime regole che disciplinano la libertà di parola nel “mondo degli atomi”. Il sostanziale anonimato dietro il quale si possono celare i più diversi messaggi impedisce di soppesarne la fonte e aumenta il rischio di diffusione senza controllo di notizie false o ingannevoli.

E così legislatori, autorità e studiosi da tempo reclamano interventi del potere pubblico, si chiami esso Italia o Europa, per impedire la circolazione di queste ultime e per disciplinare un mondo, quello della comunicazione via social, che privo di regolazione porrebbe in pericolo la stessa democrazia. Si tratta di casi limite, siamo d’accordo, ma non certi presi dalla fantascienza, se vogliamo credere anche soltanto alle indagini che sono state avviate in vari Paesi per verificare la possibile influenza di altri Stati – non esattamente esempi di democrazia – nelle elezioni politiche, anche recenti e anche di un certo rilievo per gli equilibri politici internazionali.

In questo filone si colloca anche il nuovo libro di Antonio Nicita, Il mercato delle verità, uscito per il Mulino nel novembre del 2021. Lo studioso, ordinario di politica economica alla Lumsa ed ex commissario AGCOM, oltre che amico di questa rivista, vede nella realtà digitale che ci circonda un ambiente ostile o comunque pericoloso, nel quale l’utente crede di muoversi liberamente, ma in realtà è guidato, molto più di quanto possa ritenere, dall’algoritmo che gli mostra quanto è deciso in un indefinito altrove.

In alcuni casi, i più drammatici, vi sono interessi oscuri che tendono a manipolare la pubblica opinione per finalità illecite o di sopraffazione politica. In altri, molto più frequenti, il sistema tende a ricondurre l’utente dove è già stato, sicché chiunque si trova – spesso senza volerlo e senza rendersene conto – a interagire in “bolle” ove regna un pensiero unico, privo di controcanti, destinato a radicalizzarsi.

Questo fosco orizzonte dimostra il fallimento del libero mercato delle idee – impostazione ideologica ed espressione di cui viene fatta la interessantissima storia nel volume – in base al quale nel confronto aperto, l’opinione migliore emergerebbe, grazie al proprio potere di convincere il maggior numero di persone. Oggi, viceversa, nel – così battezzato – “mercato delle verità”, non vi sarebbe alcuno scambio di opinioni; ogni gruppo, chiuso in se stesso, crede di essere portatore del vero da imporre agli altri.

In un simile contesto, come accennato all’inizio, sarebbe ancora più facile e frequente, per mobilitare la pubblica opinione, iniettare informazioni inventate nell’ecosistema informativo. Qui, in assenza di contraddittorio, le falsità non sarebbero riconosciute né espulse, ma anzi metabolizzate dal gruppo “bersaglio”, germinando sotto forma di estremizzazione del gruppo stesso.

Nel leggere questa analisi, temevamo che Nicita, come una certa parte di giuristi ha preso a fare ultimamente, auspicasse misure preventive per eliminare la menzogna, pur priva di immediate conseguenze sui diritti individuali. Il tutto in nome di un’emergenza – quella informativa – che produrrebbe conseguenze drammatiche in democrazie sempre più fragili e incerte. Insomma una sorta di crociata per la verità e contro la sua mistificazione. Non è così, lo chiariamo subito, ma ci arriveremo.

Il volume ha tanti meriti, il primo dei quali deriva dallo spessore culturale dell’autore, che ha la rara capacità di far calare le teorie nella realtà, senza proporre sistemi magari perfettamente equilibrati sulla carta ma che non reggono alla prima folata di concretezza. Un altro indubbio pregio è quello di riuscire a tenere insieme filosofia politica, economia, diritto e informatica, prendendo spunti da ognuna delle discipline che Nicita dimostra ancora una volta di conoscere e bene. Insomma, a chi vuole orientarsi tra i venti che agitano le tempestose acque dell’informazione, questo libro fornisce una mappa tra le più preziose, anche perché rare nel panorama editoriale.

E come tutti i bei libri, ha posizioni chiare e, come tali, discutibili. Dunque proviamo a farlo.

In primo luogo, lo studioso sembra dare alla libertà di pensiero un connotato principalmente funzionalistico: essa ha il principale compito di generare una corretta discussione pubblica, il miglior terreno di coltura della democrazia. Di qui, l’affermazione di un «diritto a non essere disinformato, cioè a non ricevere sistematicamente, prioritariamente o esclusivamente notizie false, incomplete o comunque idonee a veicolare un’informazione non imparziale» (p. 218).

Noi, viceversa, preferiamo ritenere che si tratti anzitutto di una libertà individuale, il cui esercizio certo implica, come conseguenza ma non come scopo principale, quel controllo del potere antidoto a qualsiasi dittatura.

Si tratta di una nuova declinazione di una antica questione. Sin dagli anni Settanta, il “diritto ad essere informati” è stato inteso come diritto soggettivo, in naturale tensione con la libertà di informazione o come mero interesse dei cittadini ad avere un sistema dei media plurale, che garantisse complessivamente l’accesso alle informazioni. Dunque, due visioni diverse, una più interventista, la seconda più liberale.

Qual è la differenza fra le due impostazioni e perché rileva? Nella prima l’intervento dello Stato ha margini più ampi, anche sui contenuti: tutte le volte in cui l’esercizio della parola cozza con l’interesse pubblico, l’ordinamento sarebbe legittimato a intervenire. Di solito è il potere stesso che decide se pensiero è ortodosso, circostanza rischiosa, poiché “non ci sono poteri buoni”. Per la seconda impostazione, invece, la libertà è un valore in sé e lo Stato si intromette, regolandola, soltanto al fine di creare le condizioni perché questa libertà possa esprimersi senza condizionamenti o per reprimere lesioni a beni giuridici concreti, individuali o collettivi.

Inoltre, Nicita contrappone un romantico “mercato delle idee” e l’attuale “mercato della verità”, tanto dominato dalla disinformazione da richiedere la creazione di un nuovo “diritto a non essere disinformati”. Noi crediamo che anche nel mondo digitale esistano anticorpi che danno prova di funzionare il più delle volte, sia pure con i loro tempi: tecnologia, giornalismo professionale e partecipativo aiutano a conoscere la realtà e a smentire le menzogne (banalmente, è più difficile essere terrapiattisti dopo aver visto le foto della terra scattate dagli astronauti). Il recente premio Nobel per la pace attribuito a due giornalisti, come Maria Ressa e Dmitry Muratov, mostra come e quanto ci sia ancora bisogno di un mestiere indispensabile come quello del cronista, e questo costituisca un robusto contropotere al potere per eccellenza. E crediamo altresì che se davvero esistesse un “diritto a non essere disinformati” dovrebbe essere introdotto un “dovere di informare” generalizzato, i cui confini però non riusciamo a individuare, né a prevedere, se non un in sistema dei media centralizzato e guidato dall’alto. Un rimedio che ci sembra peggiore del male che si intende curare.

La teoria della “bolla” sembra sottovalutare che l’uomo non è a una dimensione. Ognuno di noi è un parallelepipedo molto sfaccettato i cui diversi lati non sempre restituiscono a un colpo d’occhio una figura facilmente classificabile. Citando il maestro di Pavana, chiunque può essere al contempo anarchico, fascista, ricco, senza soldi, radicale, diverso ed uguale, negro (e pazienza se l’algoritmo di Facebook si arrabbia), ebreo e comunista. Dunque anche in rete, sia pure guidato dall’algoritmo, incontra individui diversi con idee, gusti e preferenze diverse.

Poi, la dieta mediatica non è solo digitale. Secondo l’Istat, quasi il 90% degli italiani si informa attraverso la televisione generalista, che non dunque è un relitto del passato. Inoltre, esistono una serie di luoghi, fuori dai media, che incidono sulle convinzioni di ognuno, dalla famiglia alla scuola alle altre formazioni sociali, sportive, culturali e politiche.

Del resto, alcuni fatti recenti, citati da Nicita, come la pandemia e le elezioni americane, inducono a non essere troppo pessimisti. La prima non ha invero provocato le tensioni sociali temute; la grande maggioranza, almeno in Italia, ha creduto alla scienza e contronarrazioni fantasiose hanno fatto presa su frange assai minoritarie.

 Allo stesso modo, l’ossessiva mistificazione della realtà da parte di Trump e dei suoi seguaci ha prodotto una frattura profonda nella società americana. Tuttavia, al momento del voto, costui ha subito una cocente disfatta ed è stato il primo presidente uscente dai tempi di Bush padre a non essere stato rieletto.

Quali le soluzioni, dunque, dicevamo? Qui ci troviamo d’accordo con la gran parte di quelle individuate da Antonio Nicita: imporre trasparenza all’algoritmo, chiarezza sulla provenienza dei contenuti, per contrastare le centrali della disinformazione, onere alle piattaforme di rivelare la fonte in caso di violazione di diritti, pena l’assunzione di responsabilità civili, potenziamento dei media di servizio pubblico, sostegno all’editoria e al giornalismo professionale e lotta ai monopoli privati, come sostiene Tim Wu in “La maledizione dei giganti”, altro bel libro edito di recente da Il Mulino.

In questa cornice, siamo ancora convinti che il freemarket basato su una effettiva concorrenza tra le piattaforme e sulla libera circolazione di tutte le informazioni, parafrasando Churchill, sia certo il peggior modo di giungere alla verità, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono finora sperimentate.

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