Presunzione di innocenza, (un’altra) occasione persa

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Una persona sottoposta a indagini è alle prese già con l’inevitabile sofferenza insita di per sé in qualunque procedimento penale: è allora proprio così difficile rendersi conto che, per non subíre un raddoppio mediatico del danno, sia suo interesse che il giornalista possa parlare alla luce del sole con l’avvocato, con il magistrato, con il poliziotto, con il perito e con tutti i soggetti a conoscenza di una vicenda non più coperta da segreto, proprio per poter verificare la veridicitá e completezza di una notizia di interesse pubblico, contestualizzarla e quindi soppesarla nel racconto su giornali e tv? Parrebbe di sì, a giudicare dall’eterno ripetersi di un controsenso altrimenti incomprensibile: il ricorrente boomerang per il quale proprio coloro che in politica (magari non sempre in buona fede, e anzi spesso con la coda di paglia, ma comunque a ragione) denunciano i guasti prodotti sul processo vero dalle distorsioni del “processo mediatico”, e perciò invocano rimedi che arginino il mercato nero della notizia che ne è il propellente, poi però introducono regole che hanno l’effetto opposto. Cioè l’effetto di favorire proprio quei legami incestuosi che si proclama di voler spezzare tra fonti inquinanti (tutte per definizione mai disinteressate all’indiscrezione che veicolano) e giornalisti “cani da salotto” del padrone (anziché “cani da guardia” della democrazia come nella celebre definizione coniata dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo).

L’esempio da manuale di queste masochistiche ricadute sta nel modo con il quale il governo, con un decreto legislativo che ha accolto le condizioni poste dal parere delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato, ha attuato la direttiva 2016/343 del Parlamento europeo del 9 marzo 2016 sul “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza”.

La direttiva, come quindi anche il decreto, nel testo approvato il 4 novembre, ma ancora non in Gazzetta ufficiale il 16 novembre quando questo testo è stato licenziato, di per sé non interviene direttamente sul lavoro del giornalista, perché i destinatari sono invece le “autorità pubbliche”, quindi soprattutto magistrati e polizie, ma anche esponenti dei governi, dirigenti di articolazioni statali, presidenti di autorità indipendenti (non i parlamentari in virtù del diritto di esprimere opinioni insindacabili nell’esercizio delle proprie funzioni). A queste autorità viene vietato che le dichiarazioni pubbliche rilasciate, e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza, presentino come colpevole prima di un accertamento definitivo la persona indagata o imputata, la quale in caso contrario potrà attivare innanzi alla medesima autorità pubblica (e poi eventualmente davanti al Tribunale con un ricorso d’urgenza) una richiesta di rettifica della dichiarazione o del provvedimento “incriminati”.

Al netto della farraginosità della procedura di rimedio che dovrà essere saggiata in concreto, il principio in sé (con annessa raccomandazione di far capire la fase in cui si trova il procedimento, e di non battezzare le inchieste con nomi che suggeriscano una colpevolezza tutta ancora da dimostrare), sarebbe dovuto essere scontato e già introiettato dalla cultura professionale delle autorità pubbliche nel settore della giustizia. Ciò tanto più per un Paese che ha in Costituzione all’articolo 27 la presunzione di non colpevolezza. Ed è dunque innegabile che, se per sottrarre l’Italia al rischio di una procedura europea di infrazione si è sentito il bisogno di scriverlo in una apposita norma appunto su pungolo della direttiva Ue, ciò è avvenuto perché negli ultimi anni ne hanno fornito abbondante pretesto quei magistrati e quelle forze dell’ordine che, con scomposte vanterie pubbliche e persino spericolata produzione audiovideo di materiali d’indagine a mo’ di spot giudiziari confezionati su misura di giornali e tv e siti online, hanno talvolta dipinto come già colpevoli gli indagati delle inchieste di cui magnificavano gli esordi ai media.

Ma che c’entra, con questa patologia, rendere ancora più asfittica la fisiologia quotidiana e vietare d’ora in poi non soltanto al singolo magistrato (come dal 2006), ma anche al capo dell’ufficio giudiziario di parlare in maniera diretta e trasparente con giornalisti che stiano verificando una notizia non più coperta da segreto d’indagine? In base al decreto del governo, e alla condizione posta dal parere delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato, il procuratore della Repubblica (che potrà delegare una forza dell’ordine) sarà legittimato alla diffusione di notizie riguardanti i procedimenti solo entro due formalizzate camicie di forza: comunicato stampa o (ancor più eccezionalmente) conferenza stampa, ma entrambi organizzabili solo se «strettamente necessario per la prosecuzione delle indagini» (ad esempio la foto di un bambino scomparso da ritrovare), o quando «ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico». E qui la contraddizione, tra risultati propiziati e obiettivi dichiarati, è clamorosa.

Non si finirà infatti mai di ripetere sino alla noia cosa accadrà se, oltre a non riconoscere ai giornalisti un accesso diretto e trasparente ai provvedimenti giudiziari depositati nei vari momenti di “discovery” alle parti, si chiuderà loro pure il pertugio di verificare l’esattezza di una notizia, specie laddove fatta circolare falsa ad arte e dunque essa sì lesiva di una persona o di una istituzione. Si creeranno così le condizioni perfette per incrementare, anziché contrastare, il mercato nero della notizia, giacché la nuova norma spingerà i giornalisti all’unica alternativa possibile, e cioè a coltivare nell’ombra rapporti per forza di cose opachi con le varie fonti “negate”: il magistrato perché gli è vietato, l’avvocato perché stretto tra le ambiguità del suo codice deontologico in materia, il poliziotto perché vincolato a valle come il magistrato a monte. Con il risultato che un indagato dovrà farsi il segno della croce nell’augurarsi che il giornalista – sospinto ad armeggiare di nascosto con il pm, il giudice, l’avvocato dell’indagato, gli avvocati dei coindagati, i cancellieri, le varie forze dell’ordine, i consulenti tecnici, i traduttori, l’indagato stesso, insomma con qualunque soggetto titolare di un pezzettino di quel mosaico da mettere assieme per cercare di dare una rappresentazione completa e corretta di una notizia – abbia almeno scrupolo, capacità e onestà, ma a volte anche solo fortuna, per riuscire a ricostruire tutti i pezzettini del mosaico anziché fermarsi, per comodità o per interesse editoriale, ai primi frammenti che alcune fonti (contando sull’impossibilità di una incrociata verifica diretta e trasparente) saranno interessate a dargli. Una situazione che continuerà a far somigliare il cronista a una sorta di «casco blu Onu» in mezzo al fuoco incrociato di chi, con spezzoni di materiali di inchieste e di processi, combatterà una «guerra» informativa.

L’altra evidente contraddizione è che, chi forse in cuor suo con questo modo di attuare la direttiva Ue spera di tagliare le unghie ai pm, non si rende conto di stare invece regalando loro un artiglio, perché mette nelle mani dei dirigenti delle Procure la valutazione di cosa sia o non sia di “interesse pubblico”. E quindi mette nelle loro mani (se il giornalista si uniformerà a questo andazzo) il rubinetto delle notizie, ossia la scelta di quali indagini e di quali circostanze di indagini (tra le tante possibili ogni giorno in Procura) fare diventare “notizie” per la stampa e le tv.

Strano che non se ne avvedano proprio i teorici fustigatori della proiezione mediatica dei procuratori, in una materia nella quale invece devono restare i giornalisti (anche alla luce di tante sentenze di Strasburgo) a valutare (assumendosene la responsabilità) che cosa sia o non sia di interesse pubblico (non di interesse pettegolo per il pubblico), rifiutando di farsi schiacciare sull’unico preteso parametro della rilevanza o irrilevanza penale di quella notizia.

Ma anche per i magistrati il controllo del rubinetto delle notizie, pur inconsapevolmente conferitogli dall’eterogenesi dei fini dei “riformatori”, si scoprirà presto un regalo avvelenato: perché li esporrà all’accusa di fare politica – questa volta sì – nel momento in cui, ai fini della divulgazione di un fatto giudiziario, sceglieranno di incollare l’etichetta di “specifico interesse pubblico” a una certa notizia giudiziaria anziché ad altre analoghe tra le tantissime possibili ogni giorno; o di rincorrere e rintuzzare e rettificare una falsa pubblicazione giornalistica invece di un’altra.

 

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