*Contributo già pubblicato sulla rivista Giustizia Insieme in data 18 aprile 2020.
Riflettere su distonie e utopie del rapporto tra tecnologia e società
La Rivista Giustizia Insieme, sempre più snodo indispensabile nel dibattito tra magistratura, avvocatura accademia e società civile, lancia oggi un’applicazione mobile che renderà fruibile tutti i suoi contenuti anche su smartphone. La domanda che si pone la Direzione della Rivista (che ha appena inaugurato anche una collana in cartaceo con il titolo I dialoghi di Giustizia insieme) è cruciale per ogni progetto scientifico, non solo di natura giuridica, che punti anche alla diffusione telematica dei propri contenuti. Alla luce del processo vorticoso di accelerazione tecnologica a cui tutti stiamo assistendo, ove la pandemia in atto sta valorizzando le funzioni “vitali” della tecnologia digitale, quale il modo per rendere più agevole la lettura e la consultazione di un’offerta scientifica, quando non si è di fronte ad un personal computer o, a maggior ragione, seduti tra i banchi di una biblioteca? Una domanda che sottintende interrogativi più sistemici, legati al rapporto tra tecnologia, diffusione e condivisione delle informazioni nella società della conoscenza. Ci sono almeno due modi per guardare alle sfide che non solo il diritto, ma la società come la conosciamo, sta affrontando in questa stagione della pandemia globale. Il primo è uno sguardo che, per forza di cose, si concentra prevalentemente sul presente dell’emergenza e, quindi, per esempio, oltre ovviamente a sostenere in tutti i modi possibili gli sforzi (ed i sacrifici) eroici di donne e uomini del nostro servizio sanitario, rifletta sulla proporzionalità (e costituzionalità) delle misure di restrizione delle nostre libertà, sul rapporto tra fonti governative e primazia del parlamento nella nostra forma di governo e cosi via.
Il secondo è uno sguardo che prova a ragionare anche sul futuro prossimo, in cui si tenga conto dell’impatto sistemico del momento eccezionale che stiamo vivendo al fine di poter provare a immaginare prospettivamente tanto la pars destruens quanto, per così dire, la pars costruens di questa stagione, non fosse altro perché essa lascerà un vuoto che andrà prima o poi, in qualche modo, riempito. Ed il come lo si farà non è esattamente un dettaglio. Non sono e non possono essere due sguardi alternativi, ma complementari. L’attenzione massima e necessitata al presente non può e non deve impedire di interrogarsi su un futuro che, evidentemente, a dimostrazione che i più banali ritornelli nascondono comunque degli scenari assai più complessi, sarà strutturalmente e irrimediabilmente diverso da ciò che conosciamo. Impossibile concentrarsi sugli svariati campi, da quello economico a quello sociale e perfino geopolitico, in cui bisognerà provare a combinare, evitando lo strabismo, i due sguardi evocati. In questa sede vuol tentarsi, in modo assai approssimativo, di abbozzare questo esercizio di osservazione del momento di patologia presente per capire come il fattore tecnologico possa essere in grado di incidere ed a tratti rifondare il sistema che verrà fuori da questa crisi. In altre parole, guardando al ruolo sempre più pervasivo che la tecnologia digitale sta giocando in questa fase di emergenza e che non potrà non continuare a giocare quando, si spera il prima possibile, quest’ultima sarà terminata, si cercherà di partire da una ricognizione dell’esistente per tentare di immaginare degli scenari, se non futuri, futuribili. In questa stagione è quasi inutile ribadire come le tecnologie digitali siano fondamentali sotto almeno quattro aspetti.
Innanzitutto, stanno facendo in modo che il confinamento fisico non diventi isolamento emotivo. Da nord a sud, da una parte all’altra della città o della strada, immagini di amici e familiari accorciano distanze e creano ponti niente affatto virtuali in un’epoca di assenze forzate. Anche la fruibilità a distanza delle offerte di biblioteche, musei, cinema e teatri non sarebbe possibile altrimenti.
In secondo luogo, sotto il profilo socio- economico, la tecnologia digitale è di fatto uno degli strumenti attraverso cui si tenta di garantire continuità ai diritti sociali nel nostro Paese. Dal lavoro agile, alla istruzione scolastica e universitaria a distanza, alla telemedicina. Si trattava per molti versi di un potenziale tecnologico già a disposizione, ma utilizzato in misura ridottissima rispetto al suo pieno regime. L’emergenza ha necessitato lo sviluppo massimo di detto potenziale.
In terzo luogo, la stessa tecnologia digitale sta consentendo lo svolgimento continuativo delle funzioni essenziali di alcuni organi costituzionali. Si pensi non solo alla Corte Suprema degli Stati Uniti o al Tribunale costituzionale tedesco, ma anche, e soprattutto, alla Corte costituzionale italiana, ed alla bellissima intervista, pubblicata su questa Rivista (La Corte costituzionale non si ferma davanti all’emergenza, questo è il tempo della collaborazione tra istituzioni) della sua Presidente, Marta Cartabia, in cui la Professoressa, da una parte, sottolineava come detta tecnologia stia assicurando la garanzia costituzionale della continuità delle funzioni essenziali della Consulta e, dall’altra, faceva notare, in modo molto significativo, come si sia “deciso di proseguire i lavori di deliberazione in Camera di Consiglio di letture sentenze anche da remoto. Lo stesso vale per le altre attività interne della Corte. Un bel cambiamento per una istituzione che non era avvezza a queste modalità di interazione.
È esattamente questo il punto: non essere abituati ad interazioni che però sono sicuramente possibili dal punto di vista tecnologico ed a dettato della Costituzione e (spesso anche della normativa primaria e secondaria) invariata. Nuove interazioni che stanno gradualmente ma inesorabilmente modificando il nostro modo di esercitare tutta una serie di professioni, anche quella cruciale dello ius dicere. Non si vuole certamente qui approfondire il dibattito accesissimo su utilità e preservazione dell’udienza telematica. Basteranno due riflessioni. La prima è che l’utilità al momento è indiscussa, perché lo strumento tecnologico sta consentendo la continuità dell’esercizio della funzione giurisdizionale. La seconda è che, pur essendo necessario, come ha richiamato l’Esecutivo di Magistratura Democratica, una volta tornata la normalità, vegliare sulla ri-espansione di “tutte quelle regole processuali che non sono neutre, essendo state previste dal legislatore in funzione dell’effettività del diritto di difesa e del ruolo di garanzia della giurisdizione”, va fatta anche un’altra considerazione. Non si può non considerare che la “la normalità” post-emergenza sarà una assai diversa da quella che ha caratterizzato la stagione del pre-virus. Una normalità che non potrà, anche volendo, ignorare l’accelerazione esponenziale del processo di digitalizzazione che la pandemia ha imposto. Resettare non solo sarebbe non particolarmente lungimirante, ma di fatto impossibile. È vero che le regole processuali non sono neutrali, ma neanche l’accelerazione esponenziale prima evocata non lo è.
Se la singola tecnologia è neutra, il processo di digitalizzazione a cui stiamo assistendo, non riguardando solo il rafforzamento di un singolo medium ma, piuttosto, la rifondazione dell’ecosistema digitale nel suo complesso, non può essere neutro, ha un sistema valoriale che va compreso appieno e guidato con padronanza e chiarezza sulla direzione da intraprendere e sul fine da raggiungere.
Discorso in parte diverso vale per il voto a distanza dei parlamentari. Non si vuole qui aprire il dibattito, infuocato in questo momento tra i costituzionalisti, sul significato da attribuire a quel concetto di “presenza” previsto dal terzo comma dell’ art. 64 della Costituzione. In ogni caso, a quest’ultimo proposito, come ha sottolineato correttamente Nicola Lupo, è essenziale pensare ad una reingegnerizzazione delle procedure vigenti alla luce della portata costitutiva e non semplicemente accessoria della tecnologia digitale. Reingegnerizzazione che ha un humus culturale prima ancora che tecnologico e che costituisce, lo si ribadisce, un processo evolutivo irreversibile con cui bisognerà fare i conti. Per ulteriori informazioni chiedere a Westminster ed al modello ibrido di Hybrid House of Commons che sembra emergere a Londra, con parlamentari che sono incoraggiati a collegarsi da remoto in quanto, quelli fisicamente presenti in Parlamento, come si legge sul sito www.parlament.uk, “will be treated the same as one appearing virtually and would only be called to speak if listed”.
D’altronde, anche a volere lasciare da parte quest’ultima questione, non c’è dubbio che la le forme di comunicazione e di espressione del pensiero via internet abbiano un fondamento costituzionale, grazie alla capacità quasi profetica dei Padri Costituenti e alle consequenziali clausole d’apertura previste dagli articoli 15 e 21 della Costituzione. In questo contesto, non è detto che non possa diventare permanente quanto al momento è previsto dal decreto legge n. 18/2020 in via transitoria ed al fine di contrastare e contenere la diffusione del virus COVID-19. Vale a dire la possibilità per consigli di comuni, province e città metropolitane nonché le giunte comunali di riunirsi in teleconferenza, a patto ovviamente di rispettare i criteri in ordine di pubblicità e trasparenza dei lavori, anche qualora non avessero già previsto e regolamentato tale modalità di svolgimento delle sedute nei propri regolamenti di funzionamento.
In quarto luogo, è sotto gli occhi di tutti come la tecnologia digitale può essere cruciale per una reazione efficace all’aumento dei contagi. In particolare si fa riferimento a un’applicazione mobile su smarthphone per il tracciamento degli spostamenti per monitorare e ricostruire la diffusione del virus, il c.d. “contact tracing”. Una tale tecnologia può permette infatti di monitorare e intrecciare tramite sistemi di Big Data analytics diverse informazioni attinenti alla vita quotidiana e personale degli utenti con il supporto di operatori quali telco o istituti finanziari. Il risultato è una mappa precisa del virus e dei suoi vettori sul territorio che prescinde dal numero di infetti in un determinato comune o altri dati di natura non capillare. Ovviamente dall’altra parte ci sono tutte le preoccupazioni che le restrizioni apportate due altri diritto fondamentali privacy e alla protezione dei dati personali, siano proporzionate e non vadano a ledere il nucleo essenziale del diritto, alla luce di quanto prescritto dall’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Constatiamo con piacere che “Immuni”, la nuova app scelta dal governo per il tracciamento dei contagi, segua i principi di adesione volontaria, interoperabilità, trasparenza (codice sorgente aperto) e rispetto della privacy (tramite ID temporanei) che Marcello Ienca ed io avevamo elencato nel nostro Decalogo per l’utilizzo responsabile delle app di tracciamento del virus“.
Rimangono, come ha precisato il prof. Ienca, da chiarire la precisa data di scadenza per il trattamento di questi dati, la validità scientifica del tracciamento di prossimità via bluetooth e soprattutto come implementare il tracciamento in quella larga fetta della popolazione italiana che non possiede (o non sa usare propriamente) uno smartphone, composta soprattutto di persone anziane -dunque a più alto rischio.
Se è questo è un tentativo abbozzato di rileggere l’attuale impatto della tecnologia nella stagione dell’emergenza: cosa bisogna aspettarsi da domani? Quali le implicazioni per la società post-virus di un impatto che, e su questo non ci possono essere dubbi, è di natura costitutiva e (ri)fondativa? Si scontrano a riguardo, come si è avuto modo di scrivere di recente con il Prof. Pitruzzella, visioni utopistiche e distopiche, entrambe da maneggiare con cura.
La prima, che vede tra i suoi fautori anche il filosofo François Levin, individua nell’impatto appena descritto del fattore tecnologico la capacità di rappresentare un tentativo di “grande riconciliazione tra le passioni e i desideri individuali da un lato e le esigenze della produzione dall’altro; tra l’anelito alla felicità e lo sviluppo delle proprie capacità da un lato e le necessità dell’inserimento economico dall’altro; quella tra la vita e il lavoro, insomma”.
Dall’altra parte, in termini distopici, Shoshana Zuboff, nel suo Il Capitalismo della sorveglianza, pur ovviamente scrivendo prima dell’emergenza, vede nell’accelerazione tecnologica la concretizzazione di una società, per l’appunto della sorveglianza, in cui le grandi piattaforme, nuovi poteri privati, nutrendosi di una mole di dati sempre più ingente, saranno in grado il compito di strutturare e strumentalizzazione il comportamento degli individui/utenti, al fin di modificarlo, predirlo, monetizzarlo e controllarlo .
Si diceva prima, visioni utopistiche e distopiche da maneggiare con attenzione perché hanno lo stesso punto debole di vedere il cyberspace come uno spazio del tutto disconnesso da quello reale, idealizzandolo sia negativo che in positivo.
Se è vero, per quanto si è fatto emergere in apertura, che la tecnologia digitale ha effetti costitutivi e radicati sul mondo degli atomi e sulla realtà analogica, è più utile una visione che guardi alle mutazioni che avvengono nell’ecosistema di internet come legate a doppio filo ai cambiamenti che hanno caratterizzato una società analogica sempre più interconnessa.
Sembrano dunque più convincente, proprio in questa logica di continuità tra società analogica e società digitale, le proposte di chi, come l’economista Daniel Coehn, vede nella emergenza sanitaria un vettore di accelerazione verso quello che lui chiama capitalism numérique. Una forma di capitalismo digitale che occuperà lo spazio vuoto lasciato dal declino, sempre a detta dell’economista francese, del processo di globalizzazione cosi come trainato dal capitalismo neo-liberista. O meglio, quella sua particolare espressione che, da quarant’anni a questa parte, è alla ricerca dei costi più bassi di manodopera localizzando in luoghi sempre più distanti, in genere in Cina o in India, le sedi di produzione.
Visto che al declino di una forma di capitalismo non potrà che seguire l’ascesa di una sua nuova espressione, quella che sembra avere i titoli nel dominare la scena nella stagione post emergenza è proprio la forma del capitalismo digitale. Un capitalismo che ha come combustibile la dimensione tecnologica digitale e, in particolare l’enorme numero di dati che caratterizzano il serbatoio della società dell’informazione. Lo stesso Cohen, infatti, sottolinea, come riportato dal Il Foglio, che “se l’essere che sono può essere trasformato in un insieme di informazioni, di dati che possono essere gestiti a distanza piuttosto che faccia a faccia, allora posso essere curato, istruito e posso spassarmela senza aver bisogno di uscire di casa. Vedo film su Netflix piuttosto di andare al cinema, vengo curato senza andare all’ospedale. La digitalizzazione di tutto ciò che può essere digitalizzato è il mezzo per il capitalismo del Ventunesimo secolo di ottenere nuove riduzioni dei costi”.
Attenzione però, il capitalismo digitale, certamente attraente per la sua capacità di rimodulare il rapporto tra tecnologia, kilometro zero, riduzione dei costi e condivisione delle informazioni, ha un triplice rischio.
Il primo è quello di non garantire alcuna certezza sulla trasparenza ed affidabilità delle piattaforme che costituiscono la base portante, come stiamo sperimentando in questi giorni, di questo cambio di marcia. Si tratta di società private, veri colossi del digitale, a tutti gli effetti nuovi poteri privati che competono con quelli statali. Piattaforme che di fatto in questo periodo stanno fornendo servizi essenziali di pubblica utilità, senza alcun contratto, onere o particolare responsabilizzazione in questo senso. L’algoritmo rimane non trasparente e le modalità di utilizzo dei dati costituiscono una variabile spesso ignota.
Uno dei grandi fallimenti del capitalismo neo-liberista è stato il suo digital laisser faire, convinto che il minimalismo dell’intervento pubblico comportasse una delega in bianco alle piattaforme private, con una colonna sonora di perdurante self-regulation, riguardo conformazione dell’assetto digitale della società globale dell’informazione negli ultimi vent’anni. Il che ha comportato, non solo, come si diceva, l’emersione di nuovi poteri privati sempre più ingordi di dati, ma anche un passaggio dal paradigma della sovranità territoriale degli Stati (o dell’Unione europea) a quello della sovranità funzionale esercitata da dette piattaforme. D’altronde, a guardar bene, quest’ultime sono in una trappola. Se diventano digital utilities adesso, come a tutti gli effetti stanno diventando, nel post-emergenza dovranno essere di conseguenza pesantemente regolate, come lo è chi fornisce servizi pubblici essenziali. Unico modo per sfuggire a questa trappola è offrire all’individuo/utente un digital new deal, di cui gli ingredienti non possono che essere quella della trasparenza nelle procedure di moderazione di contenuti, riconoscimento dei diritti di accesso, di traduzione e di spiegazione connessi al funzionamento dell’algoritmo. Il capitalismo digitale non può essere un capitalismo opaco. Inoltre c’è anche una questione di fiducia da parte del consumatore/utente nei confronti di tali piattaforme che va alimentata. Si pensi alla proposta di Google e Apple di lanciare una serie di strumenti integrati che permetteranno di tracciare la prossimità fra le persone e quindi facilitare la ricostruzione della catena epidemiologica. Bene, quando i due giganti ci garantiscono che l’accesso ai dati sarà consentito soltanto alle autorità sanitarie, potrebbe non bastarci tale rassicurazione, visti gli scandali degli ultimi tempi ed i vari problemi, non solo di concorrenza, che si stanno riscontrando, non solo a Bruxelles, per le piattaforme digitali. È probabile che serva qualcosa di più. Per esempio, un sistema open source, che consenta, da parte di chi conosce il linguaggio del codice tecnologico, di guardarci dentro e accertarsi che sia effettivamente come si dice che sia. Non è un caso che, proprio, da una parte, la poca trasparenza delle piattaforme digitali e, dall’altra, la poca fiducia sul modo in cui esse “maneggiano” i dati ha comportato, per l’appunto con riferimento al tema trattato prima dell’udienza telematica e in particolare dello svolgimento del processo penale, un intervento del il Garante per la protezione dei dati personali.
Più specificatamente, proprio ieri, 16 aprile, il Garante ha scritto al Ministro della Giustizia facendo notare come l’Unione Camere Penali abbia sollevato una serie di legittimi dubbi sulle caratteristiche delle piattaforme indicate dal Ministero per la celebrazione da remoto del processo penale, nonché “sull’opportunità della scelta di un fornitore del servizio in questione (Microsoft) stabilito negli Usa e, come tale, soggetto tra l’altro all’applicazione delle norme del Cloud Act (che come noto attribuisce alle autorità statunitensi di contrasto un ampio potere acquisitivo di dati e informazioni)”.
Di nuovo, manca quel digital trust, ed è ragionevole che sia cosi. Un affidamento del genere ha bisogno, come si diceva, di un cambio di marcia da parte delle piattaforme in tema di trasparenza, accesso e disponibilità alla traduzione del codice tecnico in un linguaggio accessibile anche ai non addetti ai lavori.
Attenzione, però, un obbligo di trasparenza non va richiesto soltanto ai “nuovi” poteri privati, ma anche ai “vecchi” poteri pubblici, a cominciare da quelli governativi. Il secondo rischio è che la stagione di emergenza tenti alcuni governi a tramutarsi in big government ed a immagazzinare big data utilizzando il mezzo tecnologico per fini anche differenti da quelli strettamente legati alla lotta al virus. Come ha scritto Byung-Chul Han: “la digitalizzazione smonta la realtà. La realtà la si esperisce tramite la resistenza, che può anche far male. La digitalizzazione, tutta la cultura del mi piace elimina la negatività della resistenza”. Ed e proprio in questo vuoto di resistenza che il digital populism può attecchire e diventare una minaccia molto pericolosa, come dimostra il passaggio da una democrazia illiberale ad un regime quasi autoritario sancito in Ungheria proprio approfittando dell’emergenza e incidendo anche sulla dimensione digitale. Si pensi alla reazione assolutamente non proporzionale, restrizione fino a cinque anni della libertà personale, nei confronti della diffusione di disinformazione in merito al Covid 19. Ed il contagio, anche quello del digital populism, è sempre dietro l’angolo.
D’altronde, come lo stesso filosofo coreano prima richiamato ha sostenuto, “la digitalizzazione è una sorta di ebbrezza collettiva. C’è anche un motivo culturale. In Asia domina il collettivismo. Manca uno spiccato individualismo. E l’individualismo si differenzia dall’egoismo, che ovviamente abbonda anche in Asia. I Big Data sono in tutta evidenza più efficaci nella lotta al virus rispetto alla chiusura delle frontiere, ma in Europa, per via della protezione dei dati personali, un’analoga lotta al virus non è praticabile”. Ma il bello del costituzionalismo europeo è proprio questo, il fatto che si fondi sui concetti di dignità e tutela di libertà dell’individuo, ovviamente anche all’interno delle formazioni sociali. Non si vuole barattare una mappa chirurgica del virus con uno slittamento verso una dimensione collettivistica ed impersonale della (non) protezione dei diritti fondamentali, a cominciare dalla libertà personale e dal diritto alla privacy.
L’ultimo rischio, il terzo, è quello di trovarsi di fronte ad un processo di disumanizzazione e di automazione della società digitale. La tecnologia può accorciare distanze, ma può anche amplificarle, e con esse accrescere l’impoverimento dettato dalla riduzione drastica del momento empatico che si nutre dello scambio e del confronto interpersonale. Se capitalismo digitale deve essere, la persona umana e la sua dignità non possono essere un elemento accessorio di questo processo, che necessita dell’affiancamento di un secondo processo, uguale e contrario legato dell’emersione di una nuova forma di umanesimo digitale.