La pubblicazione non autorizzata su rivista periodica di fotografie ritraenti persona famosa (sullo sfruttamento abusivo della notorietà altrui)

 

Corte di Cassazione, sez. I civile, 23 gennaio 2019, n. 1875

In caso di plurime violazioni di legge, consistite nella pubblicazione non autorizzata di fotografie della vita privata di un soggetto molto conosciuto (nella specie: un notissimo attore), dall’eventuale rifiuto del soggetto leso, di consentire a chicchessia la pubblicazione delle immagini abusivamente utilizzate, non discende affatto l’abbandono per il futuro (e la conseguente caduta in pubblico dominio) del diritto di sfruttare commercialmente la propria immagine. Nella gestione di tale diritto, infatti, ben si colloca la facoltà, che si può protrarre per il tempo ritenuto necessario, di non pubblicare determinate fotografie, senza che ciò comporti alcun effetto ablativo. Per altro verso, la stessa gestione di questo diritto può comportare la scelta di non sfruttare economicamente i propri dati personali, perché lo sfruttamento può risultare lesivo, in prospettiva, del bene protetto.

Nei casi in cui il titolare del bene protetto non intenda concedere lo sfruttamento della riproduzione fotografica dei propri dati personali ad altri e ciò nonostante detta riproduzione venga abusivamente pubblicata, non può essere escluso un danno patrimoniale. Infatti anche qualora non possano essere dimostrate specifiche voci di danno patrimonialmente valutabile, la parte lesa, se non può far valere il diritto al pagamento di una somma corrispondente al compenso che avrebbe presumibilmente domandato per concedere il suo consenso alla pubblicazione, può comunque chiedere una determinazione di tale importo in via equitativa, avuto riguardo alla consistenza del vantaggio economico conseguito dall’autore dell’illecita pubblicazione e ad ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione.

 

Sommario: 1. I fatti di causa (sostanziali e processuali, secondo quanto riferisce la S.C.). – 2. La sentenza annotata. – 3. (segue:) il ragionamento condotto dal giudice di legittimità. – 4. Osservazioni. – 5. Il danno e dintorni. – 6. Un cenno al c.d. diritto di cronaca

 

  1. I fatti di causa (sostanziali e processuali, secondo quanto riferisce la S.C.)

Un periodico della società editrice RCS Periodici s.p.a. (di seguito per brevità solo: RCS), aveva pubblicato in due puntate settimanali tredici fotografie, le quali ritraevano il notissimo attore cinematografico CGT (di seguito solo: CGT)[1] all’interno del parco[2] in una località italiana, da solo oppure insieme ai suoi ospiti, tra cui la soubrette Ca.El., con la quale intratteneva all’epoca una relazione sentimentale (in particolare, ritraeva l’attore in atteggiamenti intimi: a torso nudo, in compagnia della signora).

In primo grado il Tribunale accolse la domanda risarcitoria proposta da CGT contro il direttore e contro la società editrice della rivista, condannandoli a pagare una somma per danno patrimoniale e un’altra per danno non patrimoniale. Il Tribunale in particolare affermò che: i) la mancanza tanto del consenso che del pubblico interesse (ex art. 97 della l. 633/1944, di seguito anche “LDA”) circa i fatti documentati nelle fotografie, comportava la violazione del diritto al ritratto ex art. 10 c.c. e art. 96 LDA; ii) l’iniziativa editoriale integrava poi un duplice illecito: trattamento abusivo dei dati personali (ex artt. 2, 11 e 23, d. lgs. 196/2003) e interferenza illecita nella vita privata ex art. 615-bis, c. 2, c.p.[3]). Il Tribunale escluse l’operatività della scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca e perciò accertò la violazione, condannando al pagamento di un danno patrimoniale equitativamente determinato in Euro 80.000 nonché di un danno non patrimoniale determinato in Euro 40.000.

Il giudice d’appello ribadì la violazione del diritto, affermando che era stato superato il punto di equilibrio tra il diritto di cronaca e il diritto alla riservatezza e protezione della propria immagine. Aggiunse poi che «per soddisfare l’interesse della cosiddetta cronaca rosa sarebbe bastato dar conto delle apparizioni pubbliche dell’attore con la compagna». La Corte dunque confermò la violazione del diritto alla riservatezza, il trattamento illecito e la violazione del diritto all’immagine.

Quanto al danno non patrimoniale, la Corte d’Appello lo ridusse a Euro 30.000, aggiungendo però ulteriori Euro 5.000 per la lesione del diritto all’immagine e altrettanti Euro 5.000 per la violazione ex art. 615-bis c.p., per la complessiva somma di Euro 40.000[4].

Quanto al danno patrimoniale, invece, ne negò l’esistenza, «atteso che il C. aveva – per il tramite del suo portavoce – espressamente escluso il consenso alla pubblicazione di immagini della propria vita privata cosicché, negandosi la stessa possibilità dello sfruttamento economico di tali immagini, era inconfigurabile un danno patrimoniale». In altre parole, l’aver rifiutato in precedenza di mercanteggiare sulla propria immagine[5] ha precluso poi di ravvisare un danno, quando l’immagine è stata ugualmente pubblicata. Questo è il punto giuridicamente più interessante della lite.

Ricorre in Cassazione l’attore soccombente CGT con due motivi (v. §§ 1-2 della sentenza). Secondo il primo, per vero poco comprensibile, l’attore avrebbe in momenti successivi, a quello oggetto di esame in causa, consentito alla pubblicazione di proprie immagini dietro corrispettivi milionari. Pertanto, il danno arrecatogli, essendo incommensurabile, andrebbe parametrato se non al prezzo del consenso, quantomeno al numero delle copie vendute, all’incasso realizzato o al prezzo richiesto in più recenti occasioni. Con il secondo motivo, lamentava un’insufficiente quantificazione dei danni morali.

 

  1. La sentenza annotata

La Corte di Cassazione cassa sul punto la sentenza di appello. Afferma che il giudice a quo ha solo formalmente rispettato la giurisprudenza di Cassazione, secondo cui chi sfrutta abusivamente la notorietà altrui deve risarcire il danno patrimoniale cagionato, dato che ciò comporta «il venir meno per l’interessato della possibilità di offrire l’uso del proprio ritratto per pubblicità di prodotti o servizi analoghi e d’altra parte [comporta]difficoltà a commercializzare al meglio la propria immagine anche con riferimento a servizi o prodotti del tutto diversi (Sez. 1, Sentenza n. 4031 del 1991)»[6]. L’ha rispettata solo formalmente, però, specifica la Suprema Corte, dato che poi nel concreto, come ricordato, ha escluso l’esistenza di danno per aver il titolare in precedenza rifiutato la commercializzazione della propria immagine.

La Suprema Corte, infatti, ricorda (sub § 3.2) l’esistenza di un altro precedente, sempre relativo al caso di chi si vede abusivamente riprodotta la propria immagine, pur dopo un espresso rifiuto di acconsentire alla pubblicazione della stessa[7]. In particolare, richiama Cass. civ., sez. I, 1° dicembre 2004, n. 22513 (caso Stefania Sandrelli). Stante la sua importanza decisiva nel caso de quo, costituendone ratio decidendi, riporto per esteso il passaggio pertinente di questa sentenza del 2004, pure riportato[8] dalla Cassazione qui annotata:

 

«Tale rifiuto [di acconsentire alla pubblicazione]anzitutto non può essere equiparato, come si dovrebbe trarre dalla sentenza in esame per dare ad essa un senso giuridico compiuto, ad una sorta di abbandono del diritto stesso con conseguente sua caduta in pubblico dominio, giacché nella gestione del diritto alla propria immagine ben si colloca la facoltà, protratta per il tempo ritenuto necessario, di non pubblicare determinate fotografie, senza che ciò comporti alcun effetto ablativo. Ma soprattutto la stessa gestione può comportare la scelta di non sfruttare una determinata fotografia perché lo sfruttamento può risultare lesivo, in prospettiva, del bene protetto. Dunque è del tutto paradossale individuare in siffatto atto di gestione la dimostrazione della mancanza di lesività economica nello sfruttamento abusivo posto in essere da parte del terzo. Tale sfruttamento invece, in quanto frustrante della predetta strategia generale che solo al titolare del dirotto spetta di adottare, può risultare in concreto fonte di pregiudizio ben più grave di quello che corrisponde al valore commerciale della specifica attività abusiva. Ed il cui risarcimento può ben essere effettuato in termini di perdita della reputazione professionale, nella specie allegata, da valutarsi caso per caso dal giudice del merito nei limiti della ricchezza non conseguita dal danneggiato, avvero anche con il ricorso al criterio di cui all’art 1226 cc».

 

La pronuncia in esame aderisce in toto a questo suo precedente del 2004.

La Suprema Corte ricorda poi (§ 3.3) un altro precedente del 2008, secondo cui, se non possono dimostrarsi specifiche voci di danno patrimoniale, la parte lesa «può far valere il diritto al pagamento di una somma corrispondente al compenso che avrebbe presumibilmente richiesto per concedere il suo consenso alla pubblicazione, determinandosi tale importo in via equitativa, avuto riguardo al vantaggio economico conseguito dall’autore dell’illecita pubblicazione e ad ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione»[9].

 

  1. (segue🙂 il ragionamento condotto dal giudice di legittimità

Alla luce di quanto sopra, la Suprema Corte in esame afferma dunque che la fattispecie sub iudice (domanda risarcitoria presentata da chi avesse in precedenza rifiutato la commercializzazione della propria immagine) era già stata esaminata dalla Suprema Corte, dato che:

  1. i) il ricorrente CGT ha allegato[10] di aver poi disposto dietro corrispettivo del diritto di pubblicare le proprie foto (anche se questo «dato non è neppure decisivo» aggiunge la Suprema Corte: v. § 3.4);
  2. ii) soprattutto, il precedente rifiuto di acconsentire agli specifici ritratti, poi abusivamente pubblicati, non comporta l’abbandono del diritto e la sua conseguente caduta in pubblico dominio: la libera ed insindacabile modulazione nel diritto di disporre della propria notorietà, infatti, rientra proprio nell’ambito delle scelte gestionali di tale bene giuridico.

Tale rifiuto poi -ecco il passo successivo, inerente alla liquidazione- non impedisce di enucleare un danno patrimoniale liquidabile. Infatti, «anche qualora non possano essere dimostrate specifiche voci di esso, la parte lesa, se non può far valere il diritto al pagamento di una somma corrispondente al compenso che avrebbe presumibilmente richiesto per concedere il suo consenso alla pubblicazione, può comunque chiedere una determinazione di tale importo in via equitativa, avuto riguardo al vantaggio economico conseguito dall’autore dell’illecita pubblicazione e a ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione»[11].

In base a questo ragionamento (poi riassunto nei due principi di diritto ex art. 384 c.p.c.: v. § 3.6), la Suprema Corte accoglie il primo motivo sul danno patrimoniale, respingendo il secondo sul danno morale, e rinvia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione.

 

  1. Osservazioni

 La sentenza presenta qualche profilo di interesse. Il primo consiste nella disciplina giuridica da dare al caso di chi, avendo dapprima rifiutato la pubblicazione di suoi ritratti, successivamente intenda chiedere un risarcimento del danno per la pubblicazione avvenuta senza il suo consenso. La Corte si rifà in toto al proprio cit. precedente del 2004. Dice infatti che il rifiuto non significa rinuncia al diritto e può essere spiegato semplicemente come un atto “gestionale” nella conduzione dell’attività di sfruttamento della propria notorietà. Tale attività può infatti prevedere la più varia modulazione della pubblicazione, in base alle scelte di business del titolare. La Corte, sempre richiamando detto precedente, sembra distinguere due ragioni ostative alla possibilità di considerare il rifiuto alla pubblicazione come abbandono del diritto[12]: i) per un verso, perché la gestione della propria immagine comprende anche la facoltà (per il tempo ritenuto necessario o opportuno) di non pubblicare certi ritratti, senza che ciò comporti effetti ablativi del diritto[13]; ii) per altro verso, la stessa gestione può comportare anche la scelta di non sfruttare un determinato ritratto, perché lo sfruttamento può risultare lesivo in prospettiva del bene protetto[14]. Questa distinzione non è molto sicura, dato che i due profili sostanzialmente coincidono: si tratta sempre della libertà del titolare nel decidere se e come utilizzare il proprio diritto, al pari di quanto avviene con il diritto di proprietà (v. infra).

Il secondo profilo di interesse consiste nel fatto che tale argomentare si basa sul presupposto che la notorietà costituisca un bene giuridico (anzi più beni giuridici, uno per ogni attributo: nome, immagine/ritratto, voce, firma, sosia, elementi caratteristici del suo abbigliamento o comunque evocanti il personaggio[15], etc..), la cui disponibilità spetta solamente al titolare[16]. Ne segue che solo quest’ultimo può decidere se dare o meno pubblicità ai propri dati personali e, in caso positivo, in quali termini, tempi e modi. Non esiste norma che lo affermi espressamente, anche se la disciplina dei marchi offre elementi decisamente significativi. Secondo l’art. 8, c. 3, d.lgs. 30/2005 (Codice della proprietà industriale, di seguito “CPI”), infatti, i nomi di persona notori e in generale i segni dotati di rinomanza civile (o comunque extracommerciale) possono essere registrati come marchio solo dal titolare: il che significa che compete solo a costui ogni scelta sul se e come utilizzare in campo commerciale la notorietà acquisita al di fuori di esso. Lo stesso può dirsi per la norma sul ritratto (art. 8, c. 1, CPI)[17].

La disciplina giuridica del diritto sul bene giuridico “notorietà” è tutta da costruire, potendosi addirittura dubitare che contrasti con il principio della tipicità dei beni immateriali[18]; è già stato però compiuto qualche tentativo pregevole[19]. Alcune regole possono tuttavia ricavarsi dal sistema con una certa sicurezza: come ad esempio l’art. 832 c.c. sul potere di godere e disporre della cosa in tema di proprietà; oppure la non prescrittibilità (i.e., la caratteristica di non estinguersi per non uso), sempre in tema di proprietà, non espressamente disposta ma ricavabile dalla imprescrittibilità delle azioni a sua difesa (art. 948, c. 3, c.c.)[20]. Anche di altre regole potrebbe forse accettarsi l’estensione analogica, pur se con maggior sforzo argomentativo: ad esempio di quella sul diritto di pentimento, previsto dall’art. 142, LDA Per altre ancora l’analogia è più ardua, come ad esempio per l’istituto dell’usucapione, normalmente ritenuto incompatibile con l’oggetto dei diritti immateriali per carenza del “possesso”[21]. Un forte appiglio è infine costituito dal rinvio (con l’immancabile limite della “compatibilità”) alle norme sulla comunione codicistica, presente nell’art. 6 CPI[22], e forse anche dall’affermazione di proteggibilità della proprietà intellettuale, contenuta nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che l’ha inserita nell’art. 17, rubricato “Diritto di proprietà”[23].

In generale, si presta bene come modello la disciplina dicotomica (diritto patrimoniale/diritto morale) del diritto d’autore. La separabilità concettuale tra i due diritti, dunque, pur concernenti lo stesso attributo della personalità, non significa che le vicende di uno possano comprimere o far abdicare all’altro. Ad esempio, l’eventuale cessione del diritto sulla propria notorietà (ad esempio sullo sfruttamento di un certo ritratto)[24] non farebbe venir meno il diritto personalissimo e indisponibile all’immagine, sottostante al medesimo ritratto o a qualunque altro[25]. Qui c’è dunque una differenza rispetto al diritto di proprietà sulle cose: nel senso che si tratta di sfruttamento in termini commerciali di un attributo, che fa parte anche della personalità del soggetto. Può allora dirsi che hanno per oggetto l’immagine o il nome (o gli altri attributi della personalità) sia una situazione personalissima e indisponibile, sia –al tempo stesso- un’altra a carattere patrimoniale. Quest’ultima è quindi disponibile e probabilmente sottoposta alle vicende che normalmente possono riguardare le situazioni giuridiche a carattere patrimoniale, anche in termini di trasmissione mortis causa[26]. Tale è quanto meno l’esito accolto negli Stati Uniti, ove si parla di right of publicity e ove massima è la distanza dalla componente personalistica del diritto sui propri dati personali[27]. Questo diritto venne per la prima volta individuato ed esplicitato con detto termine dalla United States Court of Appeal for the Second Circuit nel 1953[28], la quale osservò:

 

«In addition to and independent of that right of privacy […], a man has a right in the publicity value of his photograph, i.e., the right to grant the exclusive privilege of publishing his picture, and that such a grant may validly be made ‘in gross,’ i.e., without an accompanying transfer of a business or of anything else. Whether it be labelled a ‘property’ right is immaterial; for here, as often elsewhere, the tag ‘property’ simply symbolizes the fact that courts enforce a claim which has pecuniary worth. This right might be called a ‘right of publicity.’ For it is common knowledge that many prominent persons (especially actors and ball-players), far from having their feelings bruised through public exposure of their likenesses, would feel sorely deprived if they no longer received money for authorizing advertisements, popularizing their countenances, displayed in newspapers, magazines, busses, trains and subways. This right of publicity would usually yield them no money unless it could be made the subject of an exclusive grant which barred any other advertiser from using their picture»[29].

 

L’anno seguente il diritto de quo venne fatto oggetto della prima sistemazione teorica da parte di un noto studioso del copyright statunitense[30]. Egli nel passo centrale osservò che: i) il publicity value[31] è frutto di grossi investimenti di tempo e denaro; ii) ciascuno in linea di massima deve poter godere dei frutti del proprio lavoro; iii) stante l’inadeguatezza dei rimedi all’epoca esistenti (essenzialmente: diritto alla privacy, unfair competition e tutela da contratto), la tutela del right of publicity si impone. Precisamente scrisse così:

 

«It is also unquestionably true that in most instances a person achieves publicity values of substantial pecuniary worth only after he has expended considerable time, effort, skill, and even money. It would seem to be a first principle of Anglo-American jurisprudence, an axiom of the most fundamental nature, that every person is entitled to the fruit of his labors unless there are important countervailing public policy considerations. Yet, because of the inadequacy of traditional legal theories discussed supra, persons who have long and laboriously nurtured the fruit of publicity values may be deprived of them, unless judicial recognition is given to what is here referred to as the right of publicity-that is, the right of each person to control and profit from the publicity values which he has created or purchased»

 

In Italia, la cosa è stata dubbia in passato, ma attualmente il cordone ombelicale tra i due aspetti del diritto all’immagine e degli altri attributi della personalità[32] può dirsi reciso. Si vedano ad esempio due sentenze della Corte di Cassazione del 1991, redatte da uno specialista della materia come Paolo Vercellone[33]: Cass., sent. 4031/1991 (caso Corinne Piccolo, meglio nota come Corinne Cléry)[34] e Cass., sent. 4785/1991 (Comitato Italiano Fodere c. Giorgio Armani-Giorgio Armani s.p.a.)[35]. Le precise osservazioni del relatore hanno chiarito che un conto è la lesione dell’onore, della reputazione o della riservatezza; un altro conto è il danno economico per chi svolge un’attività di lavoro, tale per cui la riproduzione dell’immagine viene normalmente acconsentita a fronte di controprestazione patrimoniale. «Il consenso alla divulgazione di un proprio ritratto –scrive la Corte- , almeno per quanto riguarda una certa categoria di persone, si concreta, normalmente, in un vero e proprio negozio avente per oggetto un “pati” in funzione di una controprestazione a carattere patrimoniale»[36]. Hanno anche chiarito che la notorietà ex art. 97 non autorizza automaticamente la divulgazione dell’immagine, ma solo se è collegata ad un’esigenza di pubblica informazione. Per la sua limpidezza, vale la pena di riportare il passaggio centrale di Cass., sent. 1475/1991:

 

«Tutte le eccezioni previste nell’art. 97 legge sul diritto di autore sono ispirate ad esigenze di carattere pubblico, o comunque di interesse collettivo. In particolare lo è quella ora in esame. La legge non stabilisce semplicemente che è libera la pubblicazione del ritratto di una persona notoria, ma che la divulgazione è libera quando è giustificata dalla notorietà del ritrattato. L’impiego del termine giustificazione è significativo. La divulgazione del ritratto di persona notoria è dunque lecita non per il fatto in sé che la persona ritrattata possa dirsi notoria ma se ed in quanto risponda ad esigenze di pubblica informazione, sia pure in senso lato; quando cioè esclusiva ragione della diffusione sia quella di far conoscere al pubblico le fattezze della persona in questione e di documentare visivamente le notizie che di questa persona vengono date al pubblico. Quando, al contrario, la divulgazione del ritratto avvenga per altro scopo che non sia quello legittimo di soddisfare l’esigenza pubblica di informazione, allora essa non è più giustificata dalla notorietà della persona; la notorietà non è più una giustificazione, ma il fatto che induce ad una divulgazione che porta vantaggi, spesso a contenuto patrimoniale, a colui che la divulgazione esegue. Questa osservazione vale essenzialmente per i casi, quale quello in esame, dello sfruttamento del ritratto di persone celebri per fini pubblicitari. Qui la notorietà della persona è il mezzo per raggiungere lo scopo, economicamente redditizio, di lanciare propagandisticamente un prodotto abbinandone il ricorso, nella memoria del potenziale cliente, all’immagine della persona celebre»[37].

 

Anche la più recente dottrina concorda sulla duplicità di contenuto delle prerogative personali[38].

 

  1. Il danno e dintorni

La Corte poi aggiunge che anche quando il titolare non intenda concedere lo sfruttamento commerciale dei propri dati personali (o meglio: quando la strategia imprenditoriale non lo preveda in quel momento[39]), non è detto che sia impossibile enucleare un danno patrimoniale liquidabile. Infatti «anche qualora non possano essere dimostrate specifiche voci di esso, la parte lesa, se non può far valere il diritto al pagamento di una somma corrispondente al compenso che avrebbe presumibilmente richiesto per concedere il suo consenso alla pubblicazione, può comunque chiedere una determinazione di tale importo in via equitativa, avuto riguardo al vantaggio economico conseguito dall’autore dell’illecita pubblicazione e a ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione» (sub § 3.5).

La sentenza è un po’ sbrigativa su un punto alquanto complesso.

Intanto la liquidazione equitativa del danno, quando non è provabile nel suo preciso ammontare, richiede pur sempre che sia provato nell’ an: l’incertezza sulla sua esistenza impedisce di accogliere la domanda risarcitoria[40].

In secondo luogo, menzionare il vantaggio economico conseguito dal violatore è semplicistico, poiché trascura il complesso problema del se il ristoro a carico del soggetto danneggiato (meglio forse: l’usurpato) possa commisurarsi al vantaggio conseguito dal violatore, che ne abbia illecitamente divulgato nome e/o immagine[41]. Se infatti il rimedio richiesto è quello del risarcimento del danno, non si vede come si possa ci si possa riferire all’utile conseguito dal violatore. Il risarcimento del danno è costituito dai pregiudizi arrecati alla sfera giuridica dell’usurpato sicché ha scopo compensatorio). Il profitto ottenuto dal violatore, invece, è dato dall’insieme dei fattori produttivi da lui utilizzati, uno solo dei quali è costituito dalla risorsa sottratta all’usurpato: il suo ammontare, quindi, non è correlato all’ammontare del danno cagionato all’usurpato stesso[42].

Il tema è stato oggetto di innovativa disciplina nel codice di proprietà industriale che regola segni distintivi, brevetti e segreti commerciali, ma non il diritto d’autore. L’art. 125 (c. 2 e 3) è stato introdotto proprio per dissuadere dall’utilizzo non autorizzato di prerogative o risorse altrui, quando fosse difficile o impossibile provare il danno procurato al titolare; o comunque per dissuadere in tutti i casi in cui un cinico calcolo di convenienza tra il rischio (nell’an e nel quantum) di essere condannato e l’aspettativa di profitto, qualora si riuscisse a farla franca, portasse a privilegiare la seconda alternativa. Per cui: nel c. 1 dell’art. 125 CPI è regolato il risarcimento del danno ordinario; nel c. 2 è stabilita una forfettizzazione del lucro cessante, la cui natura andrebbe indagata (parrebbe genuinamente restitutoria); nell’ultimo comma è previsto il trasferimento degli utili del violatore alla vittima. La disposizione è complessa e non può esser qui analizzata, sicché rinvio ad un mio saggio precedente sul punto[43]. In questa sede basti solo dire che il trasferimento dei profitti (art. 125 CPI, c. 3; considero sinonimi “profitti” e “utili”) appare una misura sostanzialmente punitiva, non compensatoria. Pertanto, la sua applicazione non solo al diritto d’autore (dove non è prevista) ma addirittura allo sfruttamento della propria notorietà (che non è nemmeno un diritto d’autore: v. infra) richiederebbe un ragionamento specifico: ragionamento difficile, però, dato che l’analogia per le norme penali non è ammessa.

Rimanendo nel risarcimento del danno e per quanto appena detto, anche il criterio del tenere conto tra le altre cose dei profitti, conseguiti dal violatore tramite la violazione (regola presente nell’art. 158, c. 2, legge d’autore), richiederebbe un approfondimento. Se è vero che detti profitti non possono per definizione coincidere sempre e comunque col pregiudizio alla sfera del danneggiato[44], ne segue che il riferimento di legge ai profitti illeciti in sede risarcitoria va interpretato con accortezza. In particolare, va inteso come mero (debole) indizio del pregiudizio arrecato e sempre che le sfere giuridiche dei due soggetti in lite siano comparabili: cioè che, date le circostanze di fatto, sia presumibile che lo stesso utilizzo (quanti-qualitativo), fatto dal violatore, avrebbe potuto essere fatto dal titolare usurpato[45]. Solo così può evitarsi una confusione tra i concetti di compensazione e di punizione. In altre parole, solo così diventa accettabile la menzione del riferimento agli utili del violatore presente nel citato art. 125 CPI tanto nel c. 1 (risarcimento del danno; e art. 158, c. 2, LDA), quanto nel c. 3 (pena di diritto privato). Se avessero il medesimo significato, ripeterebbero la stessa regola: il che non è, sia per il criterio della non ridondanza dei testi legislativi, sia perché il tenore letterale è diverso[46].

Ancora, si potrebbe aggiungere un dubbio sull’applicabilità degli artt. 156 ss. LDA al caso de quo. La tutela ivi prevista, infatti, sembra riferita al diritto d’autore e ai diritti connessi, stante il rifermento ai “diritti di utilizzazione economica”[47]: facoltà patrimoniali che non potevano cogliersi nella disciplina originaria del ritratto (ex LDA o art. 10 c.c.), stante la sensibilità culturale di allora[48]. I diritti connessi, del resto, pur tutelabili tramite la cit. disciplina, sono situazioni giuridiche sì diverse dalla privativa d’autore, ma pur sempre ad essa connesse: richiedono cioè pur sempre l’esistenza di un’opera dell’ingegno o comunque una creazione. Nel caso nostro, invece, non c’è nulla del genere: semplicemente gli artt. 96 e 97 LDA regolano la diffusione dell’immagine altrui, unitamente all’art. 10 c.c. Tuttavia, di solito si dà per scontata l’applicazione della tutela d’autore anche al diritto allo sfruttamento della propria notorietà[49], probabilmente per la parziale coincidenza della sedes materiae (parziale, dato che l’art. 10 c.c. esula dalla LDA). Esito interpretativo che, però, andrebbe un po’ meglio motivato[50].

Da ultimo, la Corte (§ 3.4) afferma che nella sostanza il caso è già è stato esaminato dalla propria giurisprudenza, sia perché l’attore aveva allegato di aver disposto la pubblicazione delle proprie foto dietro corrispettivo (seppur dopo i fatti di causa), sia perché il rifiuto di pubblicazione non comporta affatto l’abbandono del diritto[51], come detto. Circa il primo punto però non viene chiarito se ciò sia stato solo allegato, ma non provato, oppure anche provato ma allora in quale modo: ad esempio tramite apposito mezzo di prova oppure indirettamente tramite relevatio ab onere probandi, perché non oggetto di specifica contestazione ex art. 105 c.p.c. Tuttavia la Corte aggiunge che questo non è neppure decisivo, dal momento che -sembra di capire- in ogni caso opererebbe il secondo punto, sopra esaminato (rifiuto non equivalente ad abbandono del diritto).

 

  1. Un cenno al c.d. diritto di cronaca

Circa l’eccezione del diritto di cronaca, respinta dal giudice di primo grado (non più riproposta nei gradi successivi, parrebbe), è difficile fare osservazioni, non essendo stato divulgato il nome della rivista e quindi il tipo di servizio illecito. Sembra di capire che si trattasse di un servizio fotografico e null’altro o magari accompagnato da un brevissimo commento: un caso, forse, di gossip/cronaca rosa o simili. Mi pare che, se così fosse, non potrebbe definirsi esercizio della libertà di espressione o del diritto di informazione costituzionalmente tutelato[52]; né ricorrerebbe una manifestazione del proprio pensiero ex art. 21 Cost.[53]. Nel caso de quo, allora, non ricorrerebbero le varie declinazioni dell’interesse pubblico, ricordate dall’art. 97 LDA Essendo eccezioni alla regola per cui spetta solo al titolare decidere la misura e il modo di diffusione degli elementi della propria persona, sono oggetto di interpretazione restrittiva, come spesso si legge[54]. E ciò con riferimento sia alla componente personalistica, che a quella patrimoniale.

Ricordo infine la questione della distinzione tra (genuino) diritto di cronaca/di informazione (o di espressione artistico/letteraria: i termini del problema non cambiano), che permette di invocarlo come eccezione[55], da una parte, e comunicazione a fini puramente commerciali, che non permette di invocarlo, dall’altra[56] (anticipata sopra: v. inizio del § 5). In particolare, mi riferisco al fatto che il diritto di cronaca (o di espressione artistico/letteraria) viene pur sempre tradizionalmente esercitato –nella maggior parte dei casi- da imprese del settore informativo o culturale: le quali, come tali, per lo più avranno natura commerciale e dunque finalizzate pure esse al profitto. Ci si può chiedere allora (e il titolare della prerogativa personale diffusa senza il suo consenso tenderà a rispondere affermativamente) se quest’ultima circostanza impedisca di invocare l’esimente del diritto di informazione (o di espressione artistica). La risposta è negativa. Dato che la diffusione al pubblico degli esiti dell’attività informativa e artistica avviene quasi totalmente tramite imprese commerciali, escluderle significherebbe di fatto impedire l’esercizio del diritto di informazione e di espressione artistica[57], lasciandola solo «ad iniziative prive di scopo di lucro e dunque ad iniziative poste in essere da enti pubblici o da soggetti privati che intendano dare vita ad attività benefiche»[58].

Il vero problema, semmai, è capire quando lo scopo di lucro sovrasti il contributo alla soddisfazione dell’interesse collettivo all’informazione. Ciò perché in tale caso l’art. 97 non è più invocabile, essendo inammissibile che un privato -anche se noto- sacrifichi il suo diritto della personalità per permettere ad un terzo di trarre un vantaggio economico dalla riproduzione delle sue sembianze[59].

 

 

[1] La sentenza è stata anonimizzata ex art. 52, d. lgs. 196/2003 (“Codice privacy”). In particolare è stato anonimizzato il nome dell’attore, del periodico, del suo direttore e della località in cui furono prese le fotografie. In mancanza di specificazione che ciò è stato chiesto dall’interessato (cioè da colui i cui dati sono stati trattati), è presumibile che sia stata disposta d’ufficio dal giudice, secondo quanto permette l’art. 52, c. 2, cit.: e quindi a tutela di entrambi i soggetti anonimizzati. Nella banca dati da me consultata non è stato anonimizzato il nome dell’editore, nonostante l’ordine di anonimizzazione (v. il dispositivo della sentenza) fosse generico e non permettesse di escluderlo. Non è chiaro se si sia trattato di scelta dell’editore giuridico o della cancelleria della Cassazione. Forse chi ha così deciso, l’ha fatto sulla base della regola, per cui la disciplina speciale sulla protezione dei dati personali concerne solo per le persone fisiche (v. definizioni di “interessato” e di “dato personale” nell’art. 4 d. lgs. 196/2003, previgente; oggi v.si l’art. 1, nn. 1-2, e la definizione di “dato personale” nell’art. 4, regolamento UE 2016/679, “GDPR”). La cosa può astrattamente sorprendere, visto che sia la reputazione che gli altri attributi della personalità sono ormai tutelati anche in capo alle persone giuridiche, seppur nei limiti propri del loro agire statutario (A. Ricci, La reputazione dal concetto alle declinazioni, Torino, 2018, 185 ss., che per questo parla di “cesura” circa l’espressa esclusione del cod. privacy: ibidem, 189, nota 198). La scelta legislativa però non è equivoca: sicché resta da verificare se ciò significhi esclusione di ogni protezione della riservatezza (cioè disconoscimento della relativa situazione soggettiva) oppure –come mi parrebbe- solamente non invocabilità del GDPR – d. lgs. 196/2003, con salvezza però di eventuale altra normativa (la cui sanzione sarebbe probabilmente l’illecito aquiliano generale: art. 2043 c.c.).

[2] Forse della sua abitazione (comunque privato, parrebbe).

[3] Non ex c. 1, dato che la diffusione richiede la previa acquisizione: forse perché il fotografo non era riconducibile all’editore ex art. 2049 c.c.

[4] Qui si pone l’interessante questione del se sia possibile aumentare gli importi dovuti per danno non patrimoniale, qualora siano più d’una le norme violate con un’unica condotta oppure se invece la voce risarcitoria sia unica, a prescindere dal numero di norme violate. La risposta dipenderà dagli interessi tutelati dalle norme. Se si tratta del medesimo interesse, protetto però da norme diverse, magari per difetto di coordinamento (possibilissimo in caso di legislazione stratificatasi nel tempo), allora la risposta è negativa. Se invece gli interessi lesi sono più di uno, allora ci saranno più danni e dunque più voci nel relativo risarcimento.

[5] Spesso vengono usati promiscuamente i termini “immagine” e “ritratto”. Tuttavia gli art. 96-97 LDA lasciano intendere che il ritratto è l’immagine obiettivata, riprodotta su qualche supporto, oppure, secondo altri, «qualsiasi segno iconico evocativo dell’immagine personale» (M. Proto, Il diritto e l’immagine, Milano, 2012, 42 e 46; secondo questo a. i casi di lecita riproduzione ex art. 97 LDA costituiscono fatti impeditivi dell’esclusiva ex art. 96 LDA, anche se tale non è il consenso anticipato –così invece l’a., spec. 51-, dato che la situazione giuridica verso il soggetto “acconsentito” non è esistente ma non azionabile, bensì inesistente); analogamente v. A. De Vita, sub art. 10, in F. Galgano (a cura di), Comm. cod. civ. Scialoja Branca, Bologna-Roma, 1988, 520 ss., par. 4. Secondo altri, è errato parlare di “diritto all’immagine”, dato che -dal complesso degli artt. 10 c.c., 96 e 97 LDA- si ricava che l’esclusiva riguarda solo la circolazione del ritratto (cioè in pratica la sua moltiplicazione in copie). Sarebbe invece del tutto libera l’esecuzione del ritratto altrui (anche tramite fotografia: P. Greco-P. Vercellone, I diritti sulle opere dell’ingegno, in Trattato di diritto civile italiano dir. da F. Vassalli, Torino, 1974, 418), sicché è esatto semmai parlare di “diritto sul proprio ritratto” (P. Vercellone, Il diritto sul proprio ritratto, Torino, 1959, 7-11). La tesi non parrebbe persuasiva, anche se servirebbe un approfondimento, qui non possibile. Si pensi solo che in base ad essa chiunque potrebbe liberamente eseguire –anche contemporaneamente- un ritratto della medesima persona, la quale allora si troverebbe ritrattata su diversi supporti in giro per il mondo. Tale conseguenza però è incompatibile con la ratio di queste norme, come individuata dall’a., la quale consisterebbe nel subordinare al consenso del ritrattato il fatto che il suo ritratto possa essere visto da una molteplicità di persone: sia da molte riunite (esposizione, proiezione di un film o di una dispositiva), sia da molte contemporaneamente ma ciascuna per proprio conto (televisione, pubblicazione su di un periodico o in un libro) (P. Greco- P. Vercellone, I diritti sulle opere dell’ingegno, cit., 417); per altre osservazioni critiche intorno a questa tesi v. il mio saggio L. Albertini, L’abusivo sfruttamento commerciale (in particolare: come marchio) del nome e dell’immagine altrui, in Giustizia Civile, 11, 1997, 483 ss. § 3. In ogni caso la questione ha perso attualità. Oggi, infatti, alla luce della normativa sulla privacy (rectius: “sulla protezione con riguardo al trattamento dei dati personali”, abbreviabile in “protezione dei dati personali”) riprendere la questione sarebbe probabilmente superfluo: eseguire (anche a mano: «compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati», art. 4, n. 2, GDPR) e conservare per sé un ritratto altrui costituisce raccolta e conservazione di dato personale (costituisce dunque “trattamento”).

[6] Pare dunque di capire che la Corte di Appello avesse dichiarato di conformarsi a questo precedente.

[7] Qui la Suprema Corte non è chiarissima. Pare che la fattispecie astratta sub iudice (dubbia esistenza di danno liquidabile) consista nella illecita pubblicazione eseguita da colui che aveva in precedenza inutilmente cercato il consenso per via negoziale. Se è così, ci si può poi chiedere se la questione riceva il medesimo trattamento giuridico nel caso, in cui l’illecita pubblicazione avvenga da parte di un soggetto diverso: cioè nel caso in cui l’immagine venga abusivamente pubblicata da parte di colui che prima mai aveva interpellato il titolare, ma pur tuttavia fosse stato già esternato l’intento di quest’ultimo di non commercializzare i propri dati personali. La risposta è che non dovrebbe rilevare l’elemento soggettivo del divulgatore abusivo, se si sta nell’ottica compensatoria; dovrebbe invece rilevare, se si passa a quella punitiva.

[8] Non è chiaro se testualmente o con qualche variante.

[9] Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2008, n. 12433. In questo processo la Corte di Appello aveva rigettato la domanda risarcitoria «con la motivazione che, pur accertata l’illiceità del comportamento della società editrice, lo Z. non ha fornito alcuna prova di avere subito danni patrimoniali. Non ha dimostrato che avrebbe potuto utilizzare diversamente la sua immagine a fini di lucro, né ha fornito alcun elemento idoneo a consentire quanto meno una valutazione equitativa dei danni medesimi» (§ 5). Si trattò di pubblicazione sulla rivista Fotografare di due fotografie che ritraevano il soggetto leso in Roma, piazza di Spagna, nel contesto di un articolo che pubblicizzava una nuova pellicola Kodak.

[10] Non è chiarito se l’attore, soggetto leso, l’avesse solo allegato o anche provato e in quale fase dell’iter processuale: dal resoconto processuale fatto dalla Suprema Corte, parrebbe infatti emerso solo nel giudizio di legittimità e quindi un po’ tardivamente (art. 372 c.p.c.).

[11] Qui la Corte fa proprio l’insegnamento della cit. Cass. civ., sent. 12433/2008, cit., la quale affermò (§ 5.1): «Fermo restando che la parte lesa dall’indebita pubblicazione della sua immagine ha sempre il diritto al risarcimento dei danni patrimoniali di cui sia in grado di fornire la prova, in base ai principi generali di legge in materia, è indubbio che in molti casi non appare agevole né configurare natura ed entità del pregiudizio propriamente economico, né quantificarne l’importo, pur essendo certi ed incontestabili sia l’illiceità del comportamento dell’autore della pubblicazione, sia il fatto che questi ne abbia tratto vantaggio. Si è rilevato, allora, che (anche in mancanza di prova di altre, specifiche voci di danno, determinabili ai sensi dell’art. 2056 ss. c.c., e art. 1223 ss. c.c.) l’interessato ha comunque il diritto di far valere a titolo di danno patrimoniale la perdita dei vantaggi economici che avrebbe potuto conseguire se – essendogli stato chiesto il consenso alla pubblicazione – avesse potuto negoziarne la concessione e chiedere per essa un compenso. Considerato, cioè, che ogni singolo soggetto ha il diritto esclusivo sulla propria immagine ed è il solo titolare del diritto di sfruttarla economicamente, ne consegue che con la pubblicazione non autorizzata l’autore dell’illecito si appropria indebitamente di vantaggi economici che sarebbero spettati alla vittima. Il risarcimento dei danni patrimoniali consiste, pertanto, nel ritrasferire quei vantaggi dall’autore dell’illecito al titolare del diritto, e ad essi va commisurata l’entità della liquidazione (c.d. prezzo del consenso alla pubblicazione), se del caso determinandone l’importo in via equitativa, ai sensi dell’art. 2056 c.c.».

[12] V. la sentenza sub § 3.2, poi 3.4 ed infine § 3.6 sub a).

[13] Effetti ablativi del diritto allo sfruttamento della propria notorietà, naturalmente.

[14] «Con la conseguenza [prosegue la Suprema Corte]che lo sfruttamento abusivo del ritratto, in quanto frustrante della predetta strategia generale che solo al titolare del diritto spetta di adottare, può risultare fonte di pregiudizio –ben più grave di quello corrispondente al valore commerciale della specifica attività abusiva il cui risarcimento ben può essere effettuato in termini di perdita della reputazione professionale, ove questa sia stata allegata in giudizio, da valutarsi caso per caso dal giudice di merito nei limiti della ricchezza non conseguita dal danneggiato, ovvero anche con il ricorso al criterio di cui all’art. 1226 c.c.» (sempre al § 3.2, con affermazione non chiarissima).

[15] V.si l’evocazione di Audrey Hepburn tramite una modella, fattispecie esaminata e sanzionata da Trib. Milano, sez. impresa, 21 gennaio 2015, dietro azione dei figli ed “eredi” Luca Dotti e Sean Hepburn Ferrer (§ 2); oppure quella di Totò, riproducendone tratti somatici (mento storto e occhi grandi) e il nome d’arte, esaminata da Cass. civ., sez. I, 12 marzo 1997, n. 2223, in Giustizia Civile, 11, 1997, 2823, con mia nota Lo sfruttamento commerciale abusivo della notorietà altrui e la riconoscibilità dell’interessato. Si può vedere, infine, quella assai nota di Lucio Dalla, consistita nell’utilizzo pubblicitario (per autoradio) di «elementi differenziatori (nella specie, uno zucchetto di lana a maglia grossa e occhialetti a binocolo) peculiari alla sua attività pubblica e perciò idonei a far inequivoco riferimento alla sua figura, fisica, professionale e morale», decisa da Pret. Roma, ord. 18 aprile 1984, in Il Foro Italiano, 7/8, 1984, c. 2029 ss. (dalla cui massima l’espressione tra parentesi), con osservazioni di R. Pardolesi, e in Giurisprudenza italiana, I, 1985, 2, 544 ss., con note di M. Dogliotti e di M. Garutti.

[16] La dottrina ormai riconosce che il concetto di “bene giuridico” comprende anche le entità immateriali, a dispetto del tenore letterale dell’art. 810 c.c. È infatti bene giuridico ogni entità, fonte di utilità per l’uomo e suscettibile di una qualche modalità appropriativa (diritto di proprietà o altro), in forma individuale o collettiva, privata o pubblica (A. Gambaro, I beni, in Trattato di diritto civile e commerciale, ora dir. da P. Schlesinger, Milano, 2012, 97 ss., ove la contrapposizione tra beni suscettibili di appartenenza e prestazioni deducibili in rapporto obbligatorio: spec. 107). Sulla stessa linea è F. Piraino, Sulla nozione di bene giuridico in diritto privato, in Rivista critica del diritto privato, 3, 2012, 459 ss., spec. § 5 e 6, per il quale «un ente assume la veste di bene quando l’ordinamento lo consideri espressamente come idoneo a divenire oggetto di situazioni giuridiche oppure quando fornisca indici normativi dai quali sia possibile desumere tale idoneità» (spec. 473, contrapponendosi al pensiero di chi «identifica il bene [solamente]in presenza di una situazione giuridica attuale»). La suscettibilità appropriativa, infatti, ricorre quando la legge disciplina in qualche modo l’entità de quo (essenzialmente regolandone l’uso, lo scambio e/o la tutela). «Nell’emisfero delle entità incorporali –prosegue questo a.- sono beni tutte le entità che sollecitano interessi compatibili con gli schemi giuridici dell’attribuzione e, in particolare, con quello dello sfruttamento esclusivo. In questo caso le caratteristiche dell’entità immateriale sono in larga misura conformate dall’ordinamento medesimo in sede di definizione delle situazioni giuridiche in cui si traduce la possibilità di sfruttamento economico esclusivo» (F. Piraino, op. cit., 476). Un esempio di definizione di tali situazioni giuridiche è dato proprio dal diritto di registrazione come marchio, riservato al ritrattato e al titolare di segni dotati di notorietà extracommerciale (art. 8, c. 1 e 3, CPI), come detto subito dopo nel testo. Riconosce la natura di bene giuridico al ritratto utilizzato come marchio M. Proto, op. cit., 235 ss.

[17] Altro elemento significativo è la tutela del valore attrattivo/suggestivo dei segni, la cui manifestazione principale è la tutela extramerceologica dei marchi rinomati (art. 12 c. 1, lett. e) – art. 20, c. 1, lett. c), CPI). Qui la legge non protegge più solo la tradizionale funzione distintiva dei marchi (indicazione d’origine), ma anche la loro funzione attrattivo-suggestiva, il loro selling power e quindi la notorietà di per sé. Basa la rilevanza giuridica del right of publicity sull’art. 8 CPI anche D. Maffei, Il right of publicity, in G. Resta (a cura di), Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, Assago, 2011, 526-527.

[18] Anche se alcune norme (v. quelle in tema di marchi cit. appena sopra) già vigenti dovrebbero far cader questo dubbio. Nel caso de quo peraltro non ricorrono gli interessi collettivi che contrastano con l’esclusiva industrialistica o d’autore: l’esclusiva sull’immagine o sul nome di persone famose non impedisce la circolazione delle idee (diritto di autore), di soluzioni tecniche innovative (diritto brevettuale) o di segni necessari ad una adeguata comunicazione verso il mercato (segni distintivi). L’esclusiva sullo sfruttamento della propria notorietà, quindi, può essere ammessa con minori perplessità. Discute il punto G. Resta, Nuovi beni immateriali e numerus clausus dei diritti esclusivi, in Id. (a cura di), Diritti esclusivi, cit., 3 ss., spec. § 5 e § 8. Favorevole al numerus clausus dei beni immateriali è anche F. Mezzanotte, La formazione negoziale delle situazioni di appartenenza, Napoli, 2015, cap. IV, 191 ss., passim (spec. § 2, 195-203). Quest’ultimo a. (con posizione preferibile, alla luce della pratica) dà maggior peso all’esigenza di tutela della circolazione e dei traffici in genere (F. Mezzanotte, op. cit., 240-242 e 267) rispetto al primo a. (G. Resta, Nuovi beni immateriali, cit., 25 e nota 76, e già in Id., Autonomia privata e diritti della personalità, Napoli, 2005, 334 ss., spec. nota 223): tema che attiene soprattutto all’atto dispositivo, con cui il titolare crea diritti limitati in capo a terzi (licenze). Entrambi gli aa., però, differenziano eccessivamente le res dai beni immateriali (v. ad esempio F. Mezzanotte, op. cit., 201-202). Da un lato, anche nelle prime è essenziale l’intervento del legislatore già per l’individuazione dei beni, immobili e mobili: spesso è solo il modo di svolgersi delle relazioni sociali a permettere la loro individuazione, che viene poi accolta –magari implicitamente- dalla legge, la quale talora, in casi dubbi per peculiari conflitti di interessi, può adottare soluzioni “artificiali”, non vincolate dalla natura o distaccantesi dall’aspettativa sociale (si pensi alla disciplina di accessioni, unioni, commistioni etc.); altre volte, poi, nemmeno le prassi sociali aiutano: un appezzamento di terra acquisisce individualità giudica tramite frazionamento, cioè tramite scelta del tutto libera e non vincolata da alcunché (lo Stato interviene significativamente con infrastrutture ad hoc, del tutto “artificiali”: uffici del catasto); anzi l’artificialità dell’intervento del legislatore c’è pure nell’assegnazione delle facoltà costituenti il diritto, più o meno numerose in base al minor o maggior interesse pubblico presente su quel bene (l’individuazione di tali facoltà è legata alla storicità dei rapporti economico-sociali). Dall’altro lato, anche per i beni immateriali, dopo che sono stati artificialmente creati e assegnati in esclusiva dal legislatore, può ravvisarsi una rivalità nel consumo: un’accorta e strategica gestione dei medesimi, infatti, prevede che competano le decisioni ad un solo titolare, per cui è incompatibile con tale gestione l’uso interferente di terzi non titolati, che ostacolerebbe –in toto o in parte, ciò non conta- tale progettualità gestionale (ad esempio: annacquamento del valore attrattivo). Del resto, anche nelle res la rivalità nel consumo può ravvisarsi solamente dopo che è stato individuato il bene e sono state decise le relative utilità da riservare al titolare. Interessanti le osservazioni di Pugliese, dove l’a. afferma la storicità del concetto di “appropriabilità”: «Non esistono cose oggettivamente appropriabili e cose oggettivamente inappropriabili in senso assoluto. Esistono cose di cui è più facile, in linea di fatto, riservare l’uso e il godimento a un singolo soggetto, escludendone gli altri, e cose rispetto a cui tale riserva e la corrispondente esclusione sono, sempre in linea di fatto, più difficile (…) Dal punto di vista giuridico, poi, una cosa è appropriabile o non appropriabile, se esiste o non esiste un precetto, una regola, una norma’ in tal senso. (…) A sua volta, l’esistenza o inesistenza di simile precetto, regola o norma (…) dipende ovviamente da una valutazione degli organi preposti in ciascun ordinamento alla formazione del diritto. Questi terranno conto della minore o maggiore o anche massima difficoltà di riservare l’uso o un certo uso e la disposizione o una certa disposizione della cosa a singoli soggetti, ma inoltre soprattutto delle ragioni etiche, sociali, economiche, in definitiva politiche che possono indurre a stabilire o non stabilire con gli opportuni mezzi giuridici quella riserva a favore di dati soggetti» (G. Pugliese, Dalle «res incorporales» del diritto romano ai beni immateriali di alcuni sistemi giuridico odierni, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1982,  1137 ss., spec. 1181: l’a. conclude che le creazioni intellettuali sono beni giuridici). Singolare consonanza con le mie osservazioni trovo in A. Gambaro, La proprietà. Beni, proprietà, possesso, in G. Iudica-P. Zatti, Trattato di diritto privato, Milano, 2017, 63-67, spec. 64, secondo cui «i c.d. confini materiali della cosa, come avviene esemplarmente nel caso del “fondo”, sono in realtà il frutto di complesse operazioni intellettuali guidate dal diritto vigente».

[19] V. i lavori di G. Resta, tra cui: La circolazione dei diritti sugli attributi immateriali, in V. Roppo (dir.), Trattato del contratto, VI) Interferenze, Milano, 2006, 59 ss., spec. 78 ss., e I diritti della personalità, in G. Bonilini (a cura di), Trattato di diritto delle successioni e donazioni, I) La successione ereditaria, Milano, 2009, 729 ss.

[20] C.M. Bianca, 7) Le garanzie reali. La prescrizione, in Id., Diritto civile, Milano, 2012, 524; U. Mattei, La proprietà, in Trattato di diritto civile, dir. da Sacco, Assago, 2015, 459. Rientra infatti tra le prerogative proprietarie anche il non far nulla, il lasciare il bene in stato di abbandono, anche a costo di suo perimento completo. Se questo vale per le cose, varrà anche per i beni immateriali: tranne che costituiscano pericolo per i cives, ipotesi però possibile per le res, non per creazioni intellettuali e notorietà. Per queste ultime, poi, è quasi impossibile parlare di perimento (senza l’intervento di terzi), non essendo soggette all’usura del tempo come le res: con l’eccezione forse dei marchi, dato che la loro efficacia attrattiva nel tempo può naturalmente ridursi (anche per la conformazione della psicologia dei consumatori) e dunque necessitare di messe a punto nella relativa politica di branding.

[21] Ad esempio, Cass. civ., sez. I, 3 gennaio 2017, n. 39 (sub § 4); Cass. civ., sez. I, 29 dicembre 2011, n. 30082 (sub § 2.4). È argomento assai dibattuto per i diritti immateriali tradizionali, a partire da F. Carnelutti, Usucapione della proprietà industriale, Milano, 1938; v. ora A. Tosato-G. Guardavaccaro, Sub art. 167 LDA, in L.C. Ubertazzi (a cura di), Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Padova, 2016, 2137.

[22] L’assimilazione progressiva al diritto di proprietà sulle res permette anche alla proprietà intellettuale l’elasticità interpretativa, che si è avuta nel mondo delle cose (A. Musso, Prove di resistenza del diritto d’autore: e-books e prestito bibliotecario alla luce della giurisprudenza evolutiva della Corte di Giustizia, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 4-5, 2017, 631 ss., § 1).

[23] Oggi dotata del medesimo valore dei Trattati (art. 6 Trattato dell’Unione europea).

[24] Magari a certe condizioni e solo con certe modalità (per certi canali pubblicitari): il diritto sarà frazionabile, come avviene per le privative (si pensi all’indipendenza dei diritti patrimoniali disposta dalla LDA: art. 19 e art. 119, c. 1, e u.c.).

[25] Si può infatti pensare all’applicazione analogica delle altre facoltà comprese nel diritto morale di autore (artt. 20 segg. LDA). In quanto diritto della personalità, gode della protezione di cui all’art. 2 Cost. (F. Benatti, voce Danno all’immagine, Digesto Civile, 2011, § 1): ciò anche per un argomento a fortiori, dato che, scontrandosi con diritti antagonisti di rango costituzionale (libertà di espressione e di informazione), non si può evitare di riconoscergli analoga forza, pena il renderne la tutela praticamente insignificante (A. De Vita, op. cit., 588).

[26] Rivedo dunque l’opzione a favore della tesi monista espressa anni fa circa il diritto al nome e all’immagine (L. Albertini, op. cit., § 2). La separazione tra componente patrimoniale e ideale non sarà completa nemmeno nella successione mortis causa. Il diritto positivo prevede infatti dei poteri in capo ai parenti del de cuius, anche se non eredi, che difficilmente si conciliano con l’assolutezza di una cessione a terzi della componente patrimoniale, a meno di considerarli come mero diritto di veto, meglio una condicio iuris (art. 93 LDA, richiamato dall’art. 96 CPI; si v. però la possibilità di diversa volontà del de cuius ex art. 93, u.c., LDA). Il punto è esaminato da G. Resta, I diritti della personalità, cit., spec. §§ 9-11, 751-756. Simile regola è prevista per l’utilizzabilità come marchio del ritratto (art. 8, c. 1, CPI) e addirittura di nomi ed altri segni dotati di notorietà extracommerciale (art. 8, c. 3, CPI): norma di cui potrebbe esplorarsi la derogabilità col negozio testamentario. Nell’azione promossa dagli “eredi” di Audrey Hepburn e decisa da Trib. Torino, 27 febbraio 2019, cit. infra, ad esempio, non è chiaro se essi abbiano fatto valere il (né se il Tribunale abbia accolto le loro domande in base al) diritto patrimoniale o a quello personale, discendente dagli art. 10, c.c., e artt. 93-96-97, LDA, né se a titolo di successori (o titolari in base ad acquisto iure proprio, anziché iure successionis) in base a queste norme oppure in base alle norme generali sulla successione legittima o testamentaria, visto che il Tribunale accoglie le loro domande menzionando la qualità sia di figli legittimi che di “unici eredi” di A. H. (né vengono esaminati dubbi internazionalprivatistici, nonostante ricorresse forse qualche elemento di estraneità rispetto all’ordinamento italiano). Ora si dovrà fare i conti pure con la disciplina a tutela della protezione dei dati personali del deceduto (art. 2 terdecies e art. 7, u.c., d. lgs. 196/2003)

[27] G. Resta, Autonomia privata e diritti della personalità, cit., 203 ss. e 242-247 (questo studio costituisce la trattazione di riferimento sul tema). Per informazioni sullo stato dell’arte in USA v. ad esempio https://www.rightofpublicityroadmap.com. Si v. poi A. Messenger, Rethinking the Right of Publicity in the Context of Social Media (May 30, 2018), www.ssrn.com. Una comparazione tra diritto italiano e statunitense in P. Polito, The Protection of Our Image: Between the Right to One’s Own Image and the Right of Publicity, in G.F. Colombo (ed.), Hybridizations, Contaminations, Triangulations: Itineraries in Comparative Law Through the Legal Systems of Italy and Japan, in The Italian law journal-Special Issue, 2018, 69 ss. Questo a., per fronteggiare il rischio di diffusione incontrollata della propria immagine nell’epoca della digitalizzazione e della condivisione massiva, conclude sconsolatamente: «Despite the efficiency of the legal system (both common law and civil law) in protecting our image, the only possible protection of it in an Internet era is to follow the advice of Epicurus, to ‘live secretly’. Maybe it is time to relinquish any protection of our image».

[28] Così vari aa. tra cui F. Benatti, op. cit., § 2; J.G. Hylton, Baseball cards and the birth of the right of publicity: the curious case of Haelan Laboratories v. Topps Chewing Gum, (2001), Faculty Publications. Paper 156, 273-274 (ove ampio esame del caso).

[29] Haelan Laboratories, Inc. v. Topps Chewing Gum, inc., United States Court of Appeals for the Second Circuit, 202 f.2d 866; 1953 U.S. App. Lexis 4294, January 6, 1953, Argued – February 16, 1953, decided. La controversia era nata tra due concorrenti nel settore del chewing gum. Haelan avevo acquisto il diritto esclusivo di sfruttare l’immagine di giocatori di baseball. Successivamente, il concorrente Topps aveva indotto i giocatori a concedere pure a sé il medesimo diritto, che prontamente sfruttò. Haelan allora citò Topps (da noi sarebbe: per lesione del credito). Secondo Topps, i contratti di Haelan non potevano consistere che in mere autorizzazioni del disponente (i giocatori): ciò perché «a man has no legal interest in the publication of his picture other than his right of privacy, i.e., a personal and non-assignable right not to have his feelings hurt by such a publication». La Corte rigetto la tesi, replicando come riportato nel testo.

[30] M.B. Nimmer, The Right of Publicity, in Law and Contemporary Problems, 19(2), Spring 1954, 203 ss. Il passo riportato è a p. 216. Che sia stato il primo, lo si legge ad esempio in F. Benatti, op. loc. ult. cit.

[31] Nimmer premette di chiamarlo così nel suo saggio (204), dopo aver precisato che: «Well known personalities connected with these industries [dello spettacolo]do not seek the “solitude and privacy” which Brandeis and Warren sought to protect. Indeed, privacy is the one thing they do “not want, or need.”. Their concern is rather with publicity, which may be regarded as the reverse side of the coin of privacy» (ibid., 203-204).

[32] Che naturalmente ricorda la questione della unità o duplicità circa il rapporto tra diritto morale e diritto patrimoniale nel diritto d’autore.

[33] Autore di Il diritto sul proprio ritratto, cit.

[34] Cass. civ., sez. I, 16 aprile 1991, n. 4031.

[35] Cass. civ., sez. I, 2 maggio 1991, n. 1475. Il Comitato Italiano Fodere aveva utilizzato l’immagine e una dichiarazione di Giorgio Armani, inserendoli in un annuncio pubblicitario su riviste di moda. Lo stilista quindi agì in giudizio sia in proprio sia come legale rappresentante della società. La Suprema Corte confermò l’accoglimento delle domande della persona fisica (quanto al risarcimento del danno, solo nell’an), negando legittimazione ad agire alla società (questione in relazione alla quale, anzi, formulò il principio di diritto).

[36] In Cass. civ., sent. 4031/1991, cit.

[37] Diversi precedenti su questo punto. Ad esempio, Cass. civ., sez. I, 22 luglio 2015, n. 15360: «La presenza delle condizioni legittimanti l’esercizio del diritto di cronaca non implica, di per sé, la legittimità della pubblicazione o diffusione anche dell’immagine delle persone coinvolte, la cui liceità è subordinata, oltre che al rispetto delle prescrizioni contenute negli art. 10 c.c., 96 e 97, l. n. 633 del 1941, nonché dell’art. 137 d.leg. n. 196 del 2003 e dell’art. 8 del codice deontologico dei giornalisti, anche alla verifica in concreto della sussistenza di uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata, nell’ottica della essenzialità di tale divulgazione ai fini della completezza e correttezza della informazione fornita». Nello stesso senso Trib. Milano, 30 giugno 2015, in https://www.giurisprudenzadelleimprese.it (utilizzo del ritratto di Gianni Rivera da parte di Banca Mediolanum): «Lo sfruttamento del ritratto altrui non è illecito, sebbene avvenga senza il consenso dell’interessato, quando si accompagni ad un’esigenza pubblica d’informazione e non a scopi esclusivi o prevalenti di lucro. La notorietà del soggetto rappresentato non rende di per sé lecito lo sfruttamento dell’immagine altrui senza consenso, in assenza di esigenze di cronaca o di pubblica informazione. Le scriminanti previste dall’art. 97 L n 633/1941, che consentono lo sfruttamento dell’immagine altrui in mancanza del consenso dell’interessato e che vanno collegate all’esistenza di un interesse pubblico alla divulgazione dell’immagine e non a finalità di lucro (Cass. 1503/1993), vanno interpretate in senso restrittivo e non analogico» (§ 2.3). V. pure nota 58.

[38] A. Ricci, op. cit., cap. II, passim, spec. 79-81 e 95-96.

[39] L’esattezza del termine “imprenditoriale” andrebbe verificata. Può sostenersi che per un attore del cinema la gestione della propria notorietà -in modalità diverse dalle prestazioni artistiche- costituisca un’autonoma attività e che questa sia imprenditoriale ex art. 2082 cc o commercialmente imprenditoriale ex art. 2195 ss., c.c.? Che sia attività autonoma da quella artistica, direi di si; che sia attività imprenditoriale è più complesso da stabilire, ma probabilmente non lo è, almeno in linea di massima: lo sfruttamento della notorietà solitamente costituisce modalità di semplice godimento del bene, al pari del godimento proprietario, dato che appare servente rispetto al mantenimento del bene protetto (la notorietà), quando invece nell’attività di impresa sono i beni ad essere serventi rispetto all’attività. Il problema è discusso tanto nella teoria dell’imprenditore a proposito del requisito della “produzione o scambio di beni o di servizi” posto dall’art. 2082 c.c. (ad esempio v. G. Bonfante-G. Cottino, L’imprenditore, in G. Cottino (dir.), Trattato di diritto commerciale, Padova, 2001, 417 ss.), quanto nei commenti all’art. 2248 c.c. (tra cui ad esempio K. Martucci, sub art. 2248, in N. Abriani, Codice delle società, Assago, 2016, 27, § 2, e C. Contarini, sub art. 2248, in A. Maffei Alberti (dir.), Commentario breve al diritto delle società, Padova, 2015, 15, § 1).

[40] C.M. Bianca, 5) La responsabilità, in Id., Diritto civile, Milano, 2012, 188 e 786; M. Franzoni, Il danno risarcibile, in Id. (dir.), Trattato della responsabilità civile, Milano, 2004, 161. Può però bastare il criterio del “più probabile che non” (Cass. civ., sez. III, 20 novembre 2018, n. 29829, sulla perdita di chance).

[41] Non è detto che si tratti sempre di imprenditore commerciale: potrebbe trattarsi infatti di impresa di altro tipo (agricola, sociale o comunque di ente non profit)

[42] Questa disinvoltura nel maneggiare i concetti di danno, restituzione (prezzo del consenso) e pena privata (reversione degli utili) è tutt’altro che nuova e si perpetua tralaticiamente: v. ad esempio – Cass. civ., sez. I, 26 gennaio 2018, n. 2039, sub § 5 (sul caso Emilio Vedova e aderendo in toto a Cass. civ., sent. 11225/2015); – Cass. civ., sez. I, 3 giugno 2015, n. 11464 (condividendo l’apporzionamento dei profitti operato dalla Corte di Appello, v. anche precedenti ivi indicati); – Cass. civ., sez. I, 29 maggio 2015, n. 11225 (le ultime due hanno simile motivazione e uguale relatore); Cass. civ., sez. III, 15 aprile 2011, n. 8730 (sub § 5.2). Il tema del rapporto tra compensazione e punizione (se la responsabilità civile possa avere anche funzione punitiva) è tornato attuale dopo Cass. civ., sez. un., 16 luglio, n. 16601: secondo la quale non è ontologicamente incompatibile col nostro ordinamento l’istituto statunitense dei danni punitivi. La sentenza è stata oggetto di moltissimi commenti: v. ad esempio i contributi raccolti in E. Gabrielli-A. Federico (a cura di), I danni punitivi dopo le Sezioni Unite, in Giurisprudenza italiana, 10, 2018, 2274 ss. e quelli raccolti in C. Cicero (a cura di), I danni punitivi. Tavola rotonda- Cagliari 9 maggio 2018, Napoli, 2019.

[43] Restituzione e trasferimento dei profitti nella tutela della proprietà industriale (con un cenno al diritto di autore), in Contratto e impresa, 2010, 1149 ss.

[44] Anzi, quasi mai coincideranno.

[45] Tutto al contrario per Cass. civ., sez. I, sent. 2039/2018: «Proprio quando, come nella specie, tra prodotto originale e prodotto plagiario sussista una notevole differenza di prezzo, tale da non consentire di ritenere con necessaria certezza che il numero di prodotti venduti corrisponda ad un identico numero di prodotti originali non venduti, il danno patrimoniale risarcibile può essere individuato tenendo quantomeno conto degli utili realizzati». Tuttavia, se le parole hanno un senso, il risarcimento del danno ha riguardo alla sfera dell’usurpato: per cui la menzione -nell’art. 158, c. 2, LDA- degli utili realizzati dal violatore va intesa come detto nel testo. Se il legislatore avesse invece voluto concedere de plano detti utili, è lecito presumere che si sarebbe espresso diversamente: come ha appunto fatto nell’art. 125, c. 3, CPI.

[46] C’è una certa disarmonia nella disciplina del risarcimento del danno posta dall’art-. 158, c. 1, LDA e quella posta dall’art. 125, c. 1, CPI, tra cui: i) solo nella prima norma è menzionato l’equo apprezzamento ex art. 2056, c. 2, c.c.; ii) solo nella seconda norma è inserito il criterio della “pertinenza” circa i criteri liquidatori. Circa sub ii), la necessità che il criterio sia “pertinente” al caso sub iudice è concettualmente corretto, alla luce di quanto detto nel testo: va dunque ritenuto presente anche nella disciplina della liquidazione dei danni posta dalla LDA, nonostante l’assenza di espressa menzione.

[47] V. la rubrica del § 1, sez. I, capo III, LDA, art.156 ss., LDA : “Norme relative ai diritti di utilizzazione economica”.

[48] Si può applicare rovesciato il ragionamento fatto per la disciplina del contratto, non pensata per i diritti della personalità: «I diritti della personalità si sono trovati coinvolti dalla “patrimonialità” del contenuto del contratto, sebbene, nell’elaborazione della categoria del contratto, non si fosse pensato specificamente ad essi» (R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, Assago, 2016, 971)

[49] V. ad esempio Cass. civ., sez. I, sent. 12433/2008, sub § 5.1. La Suprema Corte qui dice pure che l’art. 156, c. 2, LDA sulla determinazione del lucro cessante non sarebbe innovativo, ma solo confermativa di valori giuridici già affermati in precedenza. La Suprema Corte è anche qui un po’ sbrigativa, dato che, come detto nel testo, non distingue tra il riferimento agli utili del violatore e il c.d. prezzo del consenso, misure assai diverse sotto il profilo dogmatico.

[50] Magari con un’interpretazione evolutiva del concetto di “diritto di utilizzazione economica”, espressione usata nel § 1, sez. I, capo III, LDA, art.156 ss., LDA (“Norme relative ai diritti di utilizzazione economica” della sez. I: “Difese e sanzioni civili”). Si potrebbe cioè affermare che la notorietà costituisce oggi (anche se non lo era all’epoca della introduzione della LDA o del c.c.: 1941-1942) un diritto di utilizzazione economica, anche se su un profilo della propria personalità invece che su una creazione intellettuale. Con la conseguenza di poterla fare rientrare nel concetto, presupposto dalla menzionata rubrica. È stato ad esempio (giustamente) escluso che l’azione a tutela dell’immagine ex art. 10 cc e art. 93-96 LDA ricada nella competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa (“controversie in materia di diritto d’autore e di diritti connessi al diritto d’autore”: art. 3, c. 1, lett. b), d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168) da Trib. Milano, sez. impresa, 21 gennaio 2015, dietro azione dei figli ed “eredi” di Audrey Hepburn, cit., § 2; la sezione adita ha però ugualmente trattenuto la causa, poiché era comunque territorialmente competente e il riparto tra le sezioni ha natura solo interno-organizzativa. Restando alla stessa questione, è stato ad esempio chiesto l’accertamento incidentale di reato ex art. 171, c. 1, LDA (e art. 167 d. lgs. 196/2003) per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale per l’utilizzazione non autorizzata del ritratto di Gianni Rivera (v. domanda attorea in Trib. Milano, 30 giugno 2015, cit.): solo che la norma predetta menziona “opere”/”opere dell’ingegno” (presupposte anche nella lett. d); e a parte la lett. f) su ritrasmissioni e smercio di fonogrammi), concetto altro dalla notorietà.

[51] «Con conseguente caduta in pubblico dominio», aggiunge la Suprema Corte, utilizzando il lessico consueto della proprietà intellettuale e industriale.

[52] Cfr. G.E. Vigevani, L’informazione e i suoi limiti: il diritto di cronaca, in G.E. Vigevani-O. Pollicino-C. Melzi d’Eril-M. Cuniberti-M. Bassini, Diritto dell’informazione e dei media, Torino, 2019, 36-39. V. pure l’art. 136, d. lgs. 196/2003, sull’ambito applicativo dell’art. 85 GDPR (cit. infra).

[53] La quale non ricorre quando la pubblicazione si limita a soddisfare la mera curiosità, a sollecitare il gusto del pettegolezzo, dell’intromissione nell’intimità della vita altrui (così quasi testualmente A. De Vita, op. cit., 594-595, ove la giusta precisazione, per cui in tal modo si arriva a sindacare il contenuto del messaggio); molto simili le osservazioni nel saggio fondativo della privacy: «To satisfy a prurient taste the details of sexual relations are spread broadcast in the columns of the daily papers. To occupy the indolent, column upon column is filled with idle gossip, which can only be procured by intrusion upon the domestic circle» (S.D. Warren-L.D. Brandeis, The right to privacy, in Harvard Law Review, 4(5), 1890, 193 ss., spec. 196). Sulla manifestazione del pensiero v. A. Valastro, Art. 21, in R. Bifulco-A.Celotto-M.Olivetti, Commentario alla Costituzione, Assago, 2006, I, 454-455, § 2.2.1. Il fatto che, come spesso succede nel tipo di stampa ipotizzato, non ricorra l’abbinamento con un prodotto in vendita, nulla cambia: è lo stesso ritratto del personaggio noto ad essere venduto, anche se in modo poco trasparente.

[54] V. Cass. civ., sez. I, 28 marzo 1990, n. 2527, richiamata e seguita da Trib. Torino, 27 febbraio 2019, in www.giurisprudenzadelleimprese.it, § 7, 9, nel cui caso un imprenditore aveva apposto il ritratto leggermente modificato di Audrey Hepburn su capi di abbigliamento. Il punto è sviluppato ampiamente da A. De Vita, op. cit. (spec. 570, 584, 589 e 616). Le fattispecie rinvenibili nell’art. 97, LDA, costituiscono uno dei principali esempi di liceità del trattamento di dati altrui per «il perseguimento di legittimo interesse del titolare del trattamento» (art. 6, § 1, lett. f), GDPR).

[55] Eccezione in senso processuale (se il divulgatore/giornalista è convenuto) o comunque sinonimo di “difesa processuale”. Non si tratta invece di disposizione eccezionale ex art. 14 prel. nei confronti dell’esclusiva del soggetto ritrattato, che costituirebbe la regola. Il diritto di informazione (nel suo aspetto attivo e passivo: informare ed essere informati) e/o di espressione in una società aperta e democratica non è meno importante del diritto di autore o sulla propria notorietà: anzi, potrebbe anche pensarsi ad una prevalenza («It is evident that most intellectual property legislation reflect the dominance of the private interest because of the importance of encouraging and rewarding innovation and creativity which is of crucial importance to society. There is however no intrinsic reason why the public interest cannot be of more or of equal weight»: così ES Nwauche, Right to intellectual property, in Max Planck Encyclopedia of Comparative Constitutional Law, January 2016, § 8). Il tema è centrale nel diritto d’autore europeo: v. A. Ottolia, L’interferenza permanente fra proprietà intellettuale e libertà di espressione nel diritto dell’Unione Europea: una proposta di bilanciamento, in Annali italiani del diritto d’autore, XXV-2016, 157 ss.). Una conferma si trova nel considerando 21 del regolamento (UE) 2017/1001 sul marchio dell’UE, che va applicato in modo da «assicurare il pieno rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, in particolare della libertà di espressione». Il diritto di informazione e/o espressione non è meno importante (qui però: neanche più importante) di quello sui diritti personalissimi antagonisti (riservatezza). L’art. 85 GDPR, al par. 1, demanda agli Stati la conciliazione tra protezione dati personali e diritto alla libertà di espressione e di informazione; specifica poi (par. 2) che gli Stati (in relazione a trattamenti dati a scopi di giornalismo o espressione accademica, artistica o letteraria) devono prevedere deroghe o esenzioni «quando siano necessarie» per tale conciliazione.

[56] Questa può dirsi la comunicazione che non soddisfa esclusivamente o primariamente «la finalità di promuovere un dibattito su tematiche di interesse generale» (M. Bassini, Informazione e mercato, in G.E. Vigevani-O. Pollicino-C. Melzi d’Eril-M. Cuniberti-M. Bassini, Diritto dell’informazione e dei media, Torino, 2019, 205). Non si può quindi concordare con la tesi, per cui la riproduzione dell’immagine altrui su cartoline o calendari sarebbe lecita anche se non acconsentita, costituendo un’«artistica “manifestazione del pensiero”» (così M. Proto, op. cit., 100-101). Come noto, la comunicazione commerciale rientra nella libertà di impresa ex art. 41 Cost., non d’informazione ex art. 21 Cost.

[57] Concordano V. De Vecchi Lajolo, Il ritratto tra GDPR e legge sul diritto di autore, in Il diritto industriale, 6, 2018, 533, e G. Resta, Nota a Trib. Roma, 3 ottobre 2016, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 1, 2017, 72 ss.

[58] Così il Tribunale di Roma nella lite promossa dagli eredi di Domenico Modugno per inibire la rappresentazione teatrale sul loro parente: sia Trib. Roma, ord. 17 luglio 2014, in Il Foro Italiano, I, 2015, 2234, con informata nota redazionale, sia Trib. Roma, 3 ottobre 2016, cit., ibidem, 67. Secondo G. Alpa-A. Ansaldo (Le persone fisiche. Artt. 1-10, in Il Codice Civile. Commentario dir. da P. Schlesinger, Milano, 1996, 314), «l’esigenza di conoscenza e di informazione dovrebbe nettamente superare lo scopo di lucro, anche se si può ammettere che, seppur in via subordinata, anche esso sia presente». Nella società in rete i media sono prevalentemente un business e operano per lo più seguendo una logica commerciale, indipendentemente dallo status giuridico: anche il servizio pubblico televisivo è infatti sottoposto a crescenti pressioni per commercializzare la programmazione, allo scopo di mantenere la sua quota di audience, e talora ha dovuto aprire rami commerciali a latere per finanziare le proprie iniziative pubbliche (così M. Castells, Comunicazione e potere, Milano, 2009, 81-82).

[59] Così A. De Vita, op. cit., 618, la quale aggiunge «tanto sotto il profilo spirituale quanto sotto il profilo patrimoniale»; analogamente A. Bavetta, voce Diritto all’immagine, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1970, XX, § 5, passim e lett. a).

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