Tribunale di Roma, sez. XVII civile, 10 gennaio 2019, n. 693
L’hosting provider perde il suo carattere di neutralità e diviene responsabile dei contenuti, caricati da terzi e ospitati sui propri servizi, se viene reso edotto dei suddetti contenuti tramite una diffida di parte che riporti almeno il nome dei programmi televisivi e non provveda alla loro immediata rimozione.
L’hosting provider attivo, a differenza di quello passivo, non beneficia dell’esenzione di responsabilità prevista dalla direttiva 2000/31/CE e dal d.lgs. 70/2003, ma la sua responsabilità deve essere accertata secondo le regole ordinarie che disciplinano la responsabilità aquiliana.
L’hosting provider diviene attivo se adotta tecniche, sia manuali che automatizzate, di organizzazione, catalogazione o indicizzazione dei contenuti caricati dagli utenti, ivi inclusa l’associazione di pubblicità o di altri video analoghi, di modo che suddette tecniche siano idonee a conferire al provider la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati.
Sommario: 1. Premessa. – 2. I fatti rilevanti. – 3. La giurisdizione del giudice italiano. – 4. Il carattere c.d. “attivo” di Vimeo. – 5. L’idoneità di una lettera di diffida “generica” a far insorgere la responsabilità in capo all’intermediario. – 6. La condanna al risarcimento del danno. – 7. Conclusione.
- Premessa
Con la sentenza qui annotata il Tribunale di Roma consolida ulteriormente il suo orientamento in punto di responsabilità dell’hosting provider per contenuti in violazione del diritto d’autore di terze parti. A partire dalle note decisioni del 2016, Break Media[1], Kewego[2] e Megavideo[3], i giudici capitolini hanno forgiato definizioni e caratteri che, di recente, hanno avuto una eco nella nota decisione della prima sezione civile della Corte di Cassazione nel caso RTI/Yahoo![4]. Nell’assumere questa decisione, il Tribunale allarga le maglie della definizione di hosting provider c.d. passivo, rendendolo oramai l’eccezione più che la regola, così forzando il dettato normativo che, specie nell’ultimo periodo, dimostra tutti i suoi quasi 20 anni e la sua inadeguatezza a regolare fenomeni impensabili al tempo dell’emanazione della direttiva 2000/31/CE[5] sul commercio elettronico.
La società Vimeo LLC (“Vimeo”), provider del servizio Vimeo in Italia, è stata ritenuta responsabile per aver omesso di rimuovere tutti i contenuti audiovisivi su cui Reti Televisive Italiane (“RTI”) sosteneva di vantare il diritto esclusivo di sfruttamento economico. Per l’effetto, Vimeo è stata condannata a pagare la somma di 8,5 milioni di Euro, oltre a una penale di 1.000 Euro per ogni violazione o inosservanza constatata successivamente e 500 Euro per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione della sentenza[6].
- I fatti rilevanti
L’attrice è una nota società titolare di tutti i diritti di sfruttamento economico dei programmi RTI, oltre che dei segni, marchi e loghi relativi a detti programmi. Vimeo è una società americana che ospita e gestisce il portale www.vimeo.com, una piattaforma di condivisione video.
Con lettera di diffida del 2011, RTI ha segnalato la presenza sul portale Vimeo di taluni video caricati senza autorizzazione da terzi utenti e afferenti a programmi televisivi, in violazione dei propri diritti esclusivi di sfruttamento, indicando unicamente il nome delle trasmissioni i cui video erano presenti in grandi quantità sulla piattaforma. La sentenza riporta che, nella missiva, l’attrice indicava l’URL[7] solo di due frammenti della trasmissione “Grande Fratello” e solo in una nota. Vimeo provvedeva a dare seguito alla diffida, confermando che i due contenuti non erano già più disponibili e manifestando l’impossibilità di individuare i restanti contenuti in assenza del loro URL. RTI ha quindi adito l’autorità giudiziaria e avviato il procedimento da cui origina la presente sentenza.
- La giurisdizione del giudice italiano
In prima battuta, Vimeo ha eccepito la carenza di giurisdizione del giudice italiano in relazione alle domande di inibitoria e rimozione dei contenuti, poiché essa ha sede negli Stati Uniti.
Allineandosi alla, oramai, granitica giurisprudenza italiana, anche di legittimità, e comunitaria, il Tribunale ha rigettato l’eccezione e confermato che il titolare dei diritti di sfruttamento economico che si assume pregiudicato nel godimento dei propri diritti può adire l’autorità giudiziaria del luogo in cui è avvenuto l’evento dannoso, quindi l’Italia, dove RTI ha sede. Ciò in virtù, tra gli altri, della Convenzione di Bruxelles del 1968 e in particolare dell’art. 5.3 sul locus commissi delicti.
- Il carattere c.d. “attivo” di Vimeo
Risolta positivamente la questione della titolarità dal lato attivo del rapporto controverso in capo a RTI, il Tribunale è passato a esaminare la natura di Vimeo e la sua posizione di hosting provider. Seguendo l’orientamento sopra richiamato, il Tribunale ha ravvisato nella direttiva 2000/31/CE, e specificamente nel considerando 42 della stessa[8], una distinzione tra l’hosting provider c.d. attivo e quello passivo. Solo il secondo potrebbe beneficiare dell’esenzione di responsabilità per i contenuti caricati dai terzi prevista dagli artt. 14 e 15 della direttiva, nonché dagli artt. 16 e 17 del d.lgs. 70/2003 che l’ha implementata nell’ordinamento italiano.
Nel solco di una certa interpretazione offerta dalla Corte di giustizia nei casi L’Oreal v. eBay (C-324/09) e Papasavvas (C-291/13), i Giudici hanno concluso che il solo prestatore che può beneficiare dell’esonero sopra visto è il “prestatore intermediario”, ovverosia quel soggetto che si limiti a fornire il servizio in maniera neutra o, per usare le parole che si rinvengono nella normativa sopra evidenziata, che svolga un trattamento meramente tecnico, automatico e passivo dei dati forniti dagli utenti. È sufficiente – sostiene il Tribunale – che venga meno uno dei tre requisiti evidenziati affinché si perda il carattere di neutralità del provider e si ricada in un servizio offerto da un hosting provider attivo, il quale sfugge all’esenzione di responsabilità.
I giudici capitolini individuano in quei servizi che esulano dalla fornitura passiva di un processo tecnico, ma che comportano un intervento del provider nell’organizzazione e selezione del materiale trasmesso, quelli che pochi mesi dopo la Corte di cassazione avrebbe definito gli “indici di interferenza”, idonei a trasformare un servizio da passivo ad attivo.
Nel corso della sua analisi, il Tribunale ritiene immeritevole di considerazione l’avverso orientamento in punto di responsabilità del provider – all’epoca rappresentato principalmente dall’accoppiata DeltaTV, del Tribunale di Torino, e RTI/Yahoo!, della Corte d’appello di Milano, oggi cassata con rinvio. Così ricostruito l’acquis normativo, i Giudici romani, analizzando il funzionamento di Vimeo sulla base della relazione del CTU hanno concluso che questi pone in essere tutta una serie di operazioni che mutano il suo carattere e lo rendono – mutuando simili parole già utilizzate dal Tribunale di Roma nel caso Break Media – «un sistema tecnologico così avanzato e sofisticato […] del tutto incompatibile con la figura dell’hosting provider ‘passivo’»[9].
In questo contesto, il Tribunale rigetta altresì l’eccezione di Vimeo secondo cui le operazioni sopra descritte verrebbero svolte mediante un sistema completamente automatizzato. Nel motivare questo passaggio, il Tribunale afferma che non è necessaria una personale e diretta dei contenuti illeciti, bensì l’idoneità del mezzo tecnologico a consentire la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati.
Alla luce di quanto sopra, Vimeo non può essere ritenuta un hosting provider passivo. Ciò, tuttavia, non è sufficiente a far insorgere una responsabilità oggettiva per i contenuti illeciti ospitati. È, infatti, necessario dimostrare che il provider attivo fosse a conoscenza o potesse essere a conoscenza del dato illecito, con conseguente riconoscimento della responsabilità per non aver rimosso l’informazione illecita.
- L’idoneità di una lettera di diffida “generica” a far insorgere la responsabilità in capo all’intermediario
Come detto, Vimeo è stata resa edotta dei contenuti illeciti mediante una lettera di diffida priva dell’indicazione degli URL relativi ai contenuti segnalati, eccetto per due di essi. Ha, quindi, eccepito la genericità della missiva di parte RTI.
Nel prendere atto dell’esistenza di due orientamenti, l’uno del Tribunale di Torino[10] e della Corte d’appello di Milano[11], i quali richiedono l’indicazione specifica degli URL, e l’altro del Tribunale e della Corte d’appello di Roma, i quali sostengono che la diffida di parte può limitarsi a menzionare almeno i titoli dei programmi televisivi su cui insistono i diritti oggetto di causa, i Giudici aderiscono al secondo[12]. Invero, essi concludono che i video illecitamente caricati da soggetti non autorizzati sono facilmente identificabili attraverso una combinazione di titolo (riportato nella diffida) e marchi di RTI collegati.
L’orientamento non pare del tutto coerente con quanto sostenuto, da ultimo, dalla già menzionata decisione della Corte di Cassazione nel caso RTI v. Yahoo!, nella parte in cui si legge che il prestatore è ritenuto responsabile se, sulla base della comunicazione del titolare del diritto leso, egli è in grado, «secondo la diligenza professionale dovuta, di identificare perfettamente i video illecitamente diffusi»[13].
In relazione al dovere di attivazione ex post da parte del provider, il Tribunale fa proprie delle considerazioni prospettate dal consulente tecnico in relazione all’esistenza della tecnologia idonea a consentire l’individuazione agevole di un determinato contenuto partendo dal suo titolo. Il Tribunale riporta infatti che Vimeo, così come altre piattaforme, utilizza da anni tecnologie basate sulla tecnica del video fingerprinting, la quale consente di effettuare delle ricerche su contenuti audiovisivi. Documentata l’esistenza di queste tecnologie già all’epoca, il Tribunale afferma che sarebbe stato ragionevole attendersi da Vimeo un comportamento diligente al fine di adottare metodologie per l’identificazione di specifici contenuti al fine di procedere alla loro rimozione a seguito di idonea segnalazione da parte del titolare dei diritti.
Da ciò ne consegue che – pur permanendo l’insussistenza di un obbligo di monitoraggio generalizzato e preventivo sui propri servizi – l’hosting provider deve adoperarsi per adottare suddette tecniche che gli consentono di agire ex post sui contenuti segnalati impedendo che essi rimangano disponibili, pregiudicando il titolare dei diritti.
Non avendo adottato queste tecnologie e avendo, così, consentito il permanere online di contenuti illeciti, Vimeo ha posto in essere una condotta di cooperazione colposa mediante omissione per la violazione dei diritti di cui agli artt. 78-ter e 79 della legge sul diritto d’autore. Di conseguenza, Vimeo deve essere ritenuta responsabile e condannata al risarcimento del danno secondo le norme ordinarie in materia di responsabilità per fatto illecito.
- La condanna al risarcimento del danno
Esaminata la mole di contenuti illeciti caricati sul servizio Vimeo, pari a 2.109, segnalati – seppur genericamente – da RTI, il Tribunale di Roma conclude che il criterio corretto da utilizzare è quello del c.d. prezzo del consenso. Determinata una royalty ragionevole pari a 563 Euro, calcolata prendendo in considerazione sia precedenti consulenze tecniche d’ufficio in altri procedimenti sia accordi transattivi raggiunti tra RTI e altri soggetti, il Collegio ha moltiplicato il numero di minuti (17.926) dei video illeciti e ne ha ricavato una somma superiore a 10 milioni di Euro.
Questa cifra è stata poi ridotta, prudenzialmente, a 8.500.000 Euro, comprensivi di interessi e rivalutazioni.
Da ultimo, il Tribunale ha rigettato la domanda di condanna al risarcimento dei danni per concorrenza sleale ex art. 2598, n. 3, c.c., non sussistendo rapporto di concorrenza tra l’attrice e la convenuta, nonché la domanda volta all’accertamento della violazione dei marchi registrati di RTI da parte di Vimeo, non essendosi quest’ultima mai appropriata dei segni distintivi per commercializzare o promuovere i propri prodotti.
Come visto, il Tribunale ha infine disposto la misura accessoria del pagamento di penali per ogni ulteriore illecito nonché per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione della sentenza, oltre alla pubblicazione della stessa su “Il Corriere della sera”, su “La Repubblica” e sull’homepage vimeo.com.
- Conclusioni
La sentenza rappresenta il punto di arrivo di una giurisprudenza romana che si consolida da vari anni e che si arricchisce di nuovi tasselli, senza però risolvere in maniera convincente i problemi di coerenza sistematica con il panorama normativo, immutato da 19 anni e che ora accusa sempre di più i segni del tempo. L’orientamento che – a parere di chi scrive – appare più coerente con il dettato normativo è quello oggi recessivo, a mente del quale l’hosting provider cessa di essere tale nella misura in cui esso intervenga direttamente sul contenuto caricato dall’utente, manipolandolo o trasformandolo. Invero, l’indicizzazione dei contenuti, l’abbinamento di pubblicità e qualsiasi altra operazione volta a consentire un migliore sfruttamento del servizio, senza che ciò comporti una reale presa di conoscenza del contenuto da parte del provider, non paiono attività idonee a mutare il carattere sostanziale dell’intermediario.
[1] Trib. Roma, sez. IX, 27 aprile 2016, n. 8437, conf. da Corte d’appello di Roma, sez. Impresa, 29 aprile 2017, n. 2833.
[2] Trib. Roma, sez. IX, 5 maggio 2016, n. 9026.
[3] Trib. Roma, sez. IX, 15 luglio 2016, n. 14279.
[4] Annotata in questa stessa rivista da M. Bassini, La Cassazione e il simulacro del provider attivo: mala tempora currunt.
[5] Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno (“Direttiva sul commercio elettronico”).
[6] Mette conto rilevare che, mentre era in corso di redazione la presente nota, fonti di stampa hanno riferito che la Corte d’appello di Roma ha sospeso l’efficacia esecutiva della sentenza, ritenendo meritevole un approfondimento in ordine all’utilizzo del criterio del c.d. “prezzo del consenso” per la quantificazione del danno.
[7] L’URL (“Uniform Resource Locator”) rappresenta l’indirizzo che permette di localizzare in maniera univoca una risorsa su Internet.
[8] Il considerando 42 costituisce, secondo certa giurisprudenza, la prova che il legislatore europeo ha inteso distinguere tra il caso di intermediario attivo e quello passivo. Invero, l’attività a cui si farebbe riferimento nella direttiva è quella attività «di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il che implica che il prestatore di servizi della società dell’informazione non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate» (enfasi aggiunte).
[9] Simili parole si rinvengono nella sentenza Break Media del Tribunale di Roma, vd. supra nota 1.
[10] Nello specifico, si vedano Trib. Torino, sez. I civile, 7 aprile 2017, n. 1928 e Trib. Torino, sez. I civile, 24 gennaio 2018, n. 342.
[11] App. Milano, 9 gennaio 2015, n. 29, cassata con rinvio da Cass. civ., sez. I,19 marzo 2019, n. 7708.
[12] La necessità di indicare l’URL del contenuto che si intende segnalare è espressamente prevista dalla legge c.d. sul cyberbullismo. Si veda art. 2, c. 1, l. 29 maggio 2017, n. 71.
[13] Questo aspetto specifico è, tuttavia, oggetto del rinvio disposto dai Giudici di legittimità alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.