I gesti simbolici e provocatori utilizzati per esprimere una critica politica nei confronti di figure pubbliche godono della protezione offerta dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto alla libertà di espressione. In particolare, nei casi di critica politica, espressa attraverso l’atto di bruciare l’immagine dei reali di uno Stato, l’ingerenza delle autorità nazionali deve essere particolarmente limitata proprio per assicurare il pluralismo e il dibattito pubblico. La critica politica gode di una tutela rafforzata soprattutto se manifestata nei confronti di figure pubbliche che sono sottoposte a uno scrutinio più rigoroso da parte della collettività rispetto ai privati. L’atto provocatorio, che non incita alla violenza, non può essere qualificato come forma di hate speech.
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La ricostruzione della vicenda all’origine della pronuncia di Strasburgo. – 3. L’inquadramento di gesti simbolici tra gli atti di critica politica. – 4. L’obbligo di “stretta interpretazione” della fattispecie dell’hate speech nel dibattito politico.
- Premessa
La previsione di reati ad hoc all’interno degli ordinamenti nazionali riguardanti offese indirizzate a particolari categorie di persone di alto rango con incarichi che comportano l’esercizio di un potere pubblico incontra un limite grazie alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Se a livello nazionale in non pochi ordinamenti è riconosciuta una particolare protezione a componenti di famiglie reali, capi di Stato o di Governo o finanche politici, la Corte di Strasburgo, con la sentenza Stern Taulats e Roura Capellera c. Spagna (ricorsi n. 51168/15 e 51186/15) depositata il 13 marzo 2018, ha rafforzato il diritto alla libertà di espressione rispetto alla tutela dell’immagine di figure pubbliche con un ruolo determinante nel Paese come, con riguardo al caso di specie, i reali di Spagna, Juan Carlos I e la regina Sofia. La pronuncia, a nostro avviso, è di particolare rilievo anche perché i principi in essa affermati possono condurre a rivedere scelte legislative nazionali volte a rafforzare la normale protezione del diritto alla reputazione nei confronti di coloro che rivestono ruoli di Governo o di rappresentanza dello Stato posti, così, sul piano interno, in una posizione privilegiata rispetto agli altri individui (si veda oltre, per l’Italia, l’articolo 595 del codice penale). La sentenza, inoltre, chiarisce l’ampio perimetro di applicazione della libertà di espressione ai sensi della Convenzione che copre anche l’utilizzo di gesti simbolici e provocatori e permette di identificare i criteri per qualificare un’espressione (nella forma verbale o di un gesto simbolico) tra i casi di hate speech.
- La ricostruzione della vicenda all’origine della pronuncia di Strasburgo.
Il ricorso alla Corte europea era stato presentato da due cittadini spagnoli condannati per offesa alla Corona in base all’articolo 490, paragrafo 3 del codice penale. I due ricorrenti, nel corso della visita istituzionale del re di Spagna (in quel periodo Juan Carlo I) a Gerona, in Catalogna, nel 2007, avevano dato fuoco alla fotografia, collocata in una piazza, che ritraeva la coppia reale. L’Audiencia Nacional, sezione penale, aveva condannato i due autori ritenendo che l’intento fosse quello di vilipendere i reali, descritti come forza occupante della comunità catalana. La condanna detentiva pari a 15 mesi era stata commutata in una sanzione di 2.700 euro ciascuno. I due avevano presentato un ricorso alla Corte costituzionale poiché, a loro avviso, era stato violato il diritto alla libertà di espressione garantito dalla Costituzione spagnola. Tuttavia, la Corte costituzionale sosteneva che il gesto implicava un incitamento all’odio e alla violenza verso il re e la monarchia e aveva ritenuto che non vi fosse stata alcuna violazione del diritto alla libertà di espressione. Così, i due giovani hanno presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo adducendo una violazione dell’articolo 10 che assicura il diritto alla libertà di espressione[1].
Ed invero, Strasburgo ha accertato che si era verificata un’ingerenza nella libertà di espressione dei ricorrenti, prevista dalla legge (come richiesto dalla stessa Convenzione il cui articolo 10 ammette limitazioni al diritto in esame), e funzionale a perseguire un fine legittimo come la tutela della reputazione o la prevenzione dei disordini, ma ha dovuto sciogliere l’aspetto più problematico e controverso tra le parti ossia se detta ingerenza potesse essere considerata come necessaria in una società democratica. Sul punto, come è naturale, le parti erano su posizioni divergenti: per i ricorrenti era stato compresso il diritto alla libertà di espressione nell’ambito di un contesto di critica politica, senza che vi fosse alcun bisogno sociale imperativo da proteggere; per il Governo spagnolo, invece, la necessità della misura sanzionatoria era dovuta alla circostanza che l’atto di bruciare l’immagine dei reali costituiva un incitamento all’odio e alla violenza. Proprio tale aspetto ha permesso alla Corte di fornire taluni chiarimenti sui criteri per inquadrare atti non violenti in sé, legati a una contestazione e, quindi, espressione di una propria idea, tra quelli di incitamento all’odio. Ed invero, l’importanza della pronuncia è proprio nel fatto che la Corte ha considerato irrilevante, ai fini dell’indicata qualificazione, la circostanza che successivamente rispetto all’atto contestato si fossero verificati taluni disordini, aspetto che, invece, i tribunali spagnoli avevano ritenuto di particolare rilievo giustificando così la misura sanzionatoria in quanto necessaria – per la protezione di un bisogno sociale imperativo – in una società democratica.
- L’inquadramento di gesti simbolici tra gli atti di critica politica
Il primo aspetto considerato dalla Corte europea è l’inquadramento dell’atto in discussione – ossia il gesto simbolico di dar fuoco a un’immagine – tra quelli ascrivibili alla discussione/critica politica. La Corte europea, nell’interpretare l’articolo 10 della Convenzione e, in particolare, le limitazioni ammissibili all’indicato diritto in quanto misure necessarie in una società democratica, in diverse pronunce, ha tenuto a sottolineare che l’ingerenza dello Stato nei casi di manifestazioni della libertà di espressione nella critica politica è più limitata rispetto ad altre situazioni pur contemplate dall’articolo 10. In via generale, le eccezioni poste alla libertà di espressione – sicurezza nazionale, integrità territoriale, ordine pubblico, prevenzione dei disordini e dei reati, protezione della salute e della morale, protezione della reputazione o dei diritti altrui, tutela delle informazioni confidenziali e dell’autorità e imparzialità del potere giudiziario – vanno già interpretate restrittivamente rispetto alla libertà in esame, che garantisce la realizzazione di un duplice diritto (quello di esprimersi e quello di ricevere informazioni a vantaggio, quindi, dell’intera collettività). A ciò si aggiunga che con riguardo alla discussione politica, queste eccezioni assumono una portata ancora più ristretta tenendo conto, evidentemente, dell’importanza della libertà di espressione ai fini della stessa realizzazione della democrazia che passa, come è ovvio, attraverso un dibattito pubblico anche aspro e il pluralismo delle opinioni. A tal proposito, infatti, la Corte europea, con riferimento a notizie che riguardano politici, uomini di governo, individui che rappresentano lo Stato, ha affermato che il margine di apprezzamento concesso agli Stati nell’individuazione di limitazioni è «particulièrement restreinte», a differenza dei casi di ingerenza degli Stati per motivi legati alla tutela della morale in cui le autorità nazionali godono di «une certaine marge d’appréciation»[2]. Pertanto, l’obbligo di non ingerenza al fine di garantire la realizzazione della libertà di espressione come manifestazione di una propria idea ha un carattere più stringente sugli Stati nel caso di dibattito politico. Così, la Corte europea, già in passato, nell’individuare i parametri da prendere in considerazione per accertare la conformità di limiti alla libertà di espressione nell’arena politica ha sancito che «It must be recalled that, according to the Strasbourg Court’s case-law, there is little scope under Article 10 § 2 of the Convention for restrictions on political speech or on debate on questions of public interest»[3].
In questa direzione, d’altra parte, si muovono anche altri organismi di garanzia posti a tutela dei diritti umani nell’ambito di trattati internazionali di carattere regionale e universale. Basti considerare, in questo senso, la Commissione africana dei diritti dell’uomo, che opera nell’ambito della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli del 27 giugno 1981, adottata dall’Organizzazione per l’Unità africana (dal 2001 Unione africana), che sin dalla decisione del 31 ottobre 1998 nel caso Media Rights Agenda, Constitutional Rights Project, Media Rights Agenda e Constitutional Rights Project c. Nigeria (ricorsi n. 105/93-128/94-130/94-152/96), con riguardo all’applicazione dell’articolo 9 che assicura la libertà di espressione, ha rilevato che «it should be assumed that criticism of the government does not constitute an attack on the personal reputation of the head of state. People who assume highly visible public roles must necessarily face a higher degree of criticism than private citizens; otherwise public debate may be stifled altogether»[4]. Nello stesso senso, la Corte interamericana dei diritti dell’uomo, nella pronuncia Herrera-Ulloa c. Costa Rica (n. 107) del 2 luglio 2004, con riguardo all’articolo 13 della Convenzione americana dei diritti dell’uomo, ha affermato che gli uomini pubblici e i politici devono essere pronti a ricevere critiche più aspre rispetto a quelle rivolte a privati. Sul piano della tutela universale dei diritti dell’uomo, nell’ambito del Patto sui diritti civili e politici del 1966, il Comitato dei diritti dell’uomo, nelle constatazioni rese il 31 ottobre 2005, nel caso Bodrožić c. Serbia e Montenegro, ha accertato la violazione dell’articolo 19 del Patto, che assicura la libertà di espressione e ha affermato che «in circumstances of public debate in a democratic society, especially in the media, concerning figures in the political domain, the value placed by the Covenant upon uninhibited expression is particularly high»[5].
L’orientamento generale degli organi di garanzia nel senso di limitare le ingerenze degli Stati nel dibattito politico ha trovato conferma nella sentenza della Corte europea che, proprio in ragione delle peculiarità nei casi di critica politica e dell’ampliamento del diritto alla libertà di espressione in questo contesto, ha accertato, in via preliminare, se il gesto di dare fuoco all’immagine dei reali potesse essere qualificato come libertà di espressione nel dibattito politico proprio in ragione dell’indicata variabilità del margine di discrezionalità degli Stati nelle possibili limitazioni all’indicato diritto.
Ed invero, l’atto in esame è stato qualificato dalla Corte tra quelli con un evidente significato politico proprio perché il gesto in sé è una messa in scena, una rappresentazione di una critica alla monarchia in generale e, in particolare, a quella spagnola. Sul punto, la Corte tiene a ricordare che l’articolo 10 della Convenzione non si limita a tutelare unicamente le espressioni inoffensive, ma anche quelle che «disturbano, offendono o scioccano». I due ricorrenti avevano scelto di bruciare la fotografia al termine di una manifestazione politica contro la monarchia, nell’ambito di un dibattito di interesse pubblico come l’indipendenza della Catalogna, proprio con l’obiettivo di criticare i reali e la forma di Governo da loro rappresentata, senza che il gesto contenesse un attacco personale al re, finalizzato a offendere. Una critica senza dubbio aspra su ciò che il re rappresentava ossia una monarchia che, per i ricorrenti, era responsabile dell’occupazione della Catalogna. La fotografia bruciata – osserva la Corte – è un elemento simbolico collegato in modo chiaro, evidente e diretto alla critica politica e l’averla collocata a testa in giù implica un rigetto totale della monarchia. L’atto aveva un fine provocatorio e anche la dimensione dell’immagine mirava a richiamare l’attenzione della collettività presente. Pertanto, si è trattato della messa in scena di una provocazione funzionale a richiamare anche l’attenzione dei media e ad alimentare un dibattito pubblico sulla monarchia e l’indipendenza della Catalogna. Con la conseguenza, quindi, che hanno potuto trovare applicazione i parametri propri della giurisprudenza della Corte europea in materia di critica politica.
Pertanto, ci sembra che la Corte così come concede libertà ai giornalisti nella scelta della forma degli articoli, ritenga necessario, per assicurare un’ampia applicazione del diritto alla libertà di espressione, lasciare spazio a ogni individuo nella scelta di mezzi di diverso genere, naturalmente non violenti, per manifestare una critica politica. In questo contesto, poi, con la sentenza che qui si commenta, ci sembra che la Corte assuma una posizione netta nel negare una protezione speciale – in sostanza un privilegio – a politici o figure di governo e di rappresentanza dello Stato, in modo, quindi, del tutto diverso rispetto a numerosi ordinamenti nazionali, incluso quello spagnolo che all’articolo 490 del codice penale citato in precedenza accorda l’indicato privilegio. La posizione della Corte europea, d’altra parte, è in linea con quanto affermato nella Joint Declaration su “Current Challenges to Media Freedom” adottata il 30 novembre 2000 dal Relatore speciale sulla libertà di espressione delle Nazioni Unite, dal Rappresentante sulla libertà dei Media dell’OSCE e dal Relatore speciale dell’Organizzazione interamericana sui diritti dell’uomo nella quale è stata affermata l’importanza di dibattiti pubblici su questioni di interesse generale e che «public figures are required to accept a greater degree of criticism than private citizens; in particular, laws which provide special protection for public figures, such as desacato laws, should be repealed». Nella stessa direzione, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, nella Dichiarazione sulla libertà dei dibattiti politici nei media adottata il 12 febbraio 2004, al principio n. VI, ha stabilito che «Political figures should not enjoy greater protection of their reputation and other rights than other individuals, and thus more severe sanctions should not be pronounced under domestic law against the media where the latter criticise political figures. This principle also applies to public officials; derogations should only be permissible where they are strictly necessary to enable public officials to exercise their functions in a proper manner» [6]. D’altra parte, la stessa scelta effettuata nell’articolo 10, paragrafo 2, ossia di ammettere una limitazione alla libertà di espressione con riguardo a determinati ambiti come quello giudiziario proprio per garantirne l’imparzialità e l’autorità dei giudici, senza prevedere una specificazione ad hoc per i politici, imponga alla Corte nonché ai legislatori e ai giudici nazionali, di non creare situazioni privilegiate per i politici o altre figure pubbliche rappresentative dello Stato[7]. Nei confronti di questi soggetti, e in particolare di ciò che rappresentano, il grado di esagerazione e provocazione può essere particolarmente alto, senza che gli Stati possano prevedere strumenti speciali o ingerenze nei confronti di chi manifesta il proprio pensiero. La Corte, a nostro avviso, è particolarmente attenta a non permettere che gli Stati trasformino il legittimo diritto alla reputazione dei politici in un privilegio per determinate categorie di persone che sono, in quanto soggetti pubblici, dotati di non pochi poteri e, quindi, già beneficiari di una protezione particolare[8]. Pertanto, una legge interna che protegge in modo speciale una determinata categoria di persone pubbliche non è conforme allo spirito della Convenzione e «l’interesse di uno Stato a proteggere la reputazione del proprio capo di Stato non può giustificare il conferimento di una protezione speciale nei casi in cui sia in gioco il diritto ad informare e ad esprimere le proprie opinioni su questo soggetto» (par. 35 della sentenza).
Una conclusione che conferma quanto stabilito nel principio n. III della citata Dichiarazione nella quale si afferma che «Political figures have decided to appeal to the confidence of the public and accepted to subject themselves to public political debate and are therefore subject to close public scrutiny and potentially robust and strong public criticism through the media over the way in which they have carried out or carry out their functions» e che dovrebbe portare a ripensamenti in diversi ordinamenti. Questo, anche con riferimento all’Italia perché l’articolo 595, comma 3, del codice penale, nei casi di diffamazione a mezzo stampa prevede la reclusione da sei mesi a tre anni o una multa non inferiore a 516 euro, fissando un aumento di pena se l’offesa è rivolta a un corpo politico, amministrativo o giudiziario o a una sua rappresentanza o autorità costituita in collegio.
- L’obbligo di “stretta interpretazione” della fattispecie dell’hate speech nel dibattito politico.
Quanto detto non esclude che una limitazione possa e, anzi, debba essere applicata nei casi di forme di espressione che promuovono o incoraggiano l’intolleranza fino ad arrivare all’hate speech. In diverse occasioni, la Corte europea ha riconosciuto, a partire dalla sentenza del 23 settembre 1994 (Jersild c. Danimarca, ricorso n. 15890/89), non solo conforme al testo convenzionale, ma anche necessario l’intervento degli Stati che limitano la libertà di espressione quando la manifestazione di detta libertà è qualificabile come incitamento all’odio, proprio perché l’hate speech non è protetto dal diritto alla libertà di espressione[9]. E questo la Corte lo ha fatto sia considerando il principio dell’abuso del diritto di cui all’articolo 17 della Convenzione il quale sancisce che nessuna disposizione della Convenzione «può essere interpretata come implicante il diritto per uno Stato, gruppo o individuo di esercitare un’attività o compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella Convenzione…»[10], sia tenendo conto delle restrizioni alla libertà di espressione ammesse ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 2 e, quindi, anche quando l’incitamento all’odio non ha una portata tale da distruggere i valori della Convenzione. E’ evidente che l’hate speech non solo non può ottenere alcuna protezione visto che colpisce, in modo discriminatorio, la dignità della persona, negando così il godimento sistematico di alcuni diritti umani fondamentali, ma deve essere fronteggiato dagli stessi Stati, come precisato nella raccomandazione R(97)20 del 30 ottobre 1997 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che ha chiesto agli Stati di combattere l’hate speech che riguarda «all forms of expression which spread, incite, promote or justify racial hatred, xenophobia, anti-Semitism or other forms of hatred based on intolerance…».
È così centrale individuare gli elementi che per la Corte fanno ricadere una determinata manifestazione della libertà di espressione tra gli atti che costituiscono incitamento all’odio e, quindi, giustificato oggetto di divieto da parte delle autorità nazionali[11]. Un punto, questo, che ci appare di particolare importanza anche rispetto a futuri casi che potrebbero arrivare all’attenzione della Corte proprio con riferimento al rapporto tra aspra critica politica e hate speech.
Il Governo in causa si è difeso sostenendo che i giudici nazionali avessero applicato la giurisprudenza della stessa Corte di Strasburgo in relazione alle pronunce sui discorsi all’odio. Ed è così evidente che l’accoglimento del ricorso contro lo Stato da parte della Corte europea mostra le difficoltà applicative, in taluni casi, delle norme convenzionali come interpretate dalla Corte, con un sostanziale fraintendimento delle sentenze internazionali da parte dei giudici nazionali. Ed invero, nel caso in esame, i tribunali interni hanno dato particolare rilievo alle modalità con le quali è stata espressa la propria opinione – ossia il dar fuoco a una fotografia dei reali – e alle conseguenze, ossia i disordini pur se successivi alla manifestazione. Un caso, quindi, per i tribunali interni, di hate speech legato alle modalità esteriori di manifestazione di un pensiero piuttosto che al contenuto dell’opinione sottesa al gesto simbolico. La Corte europea, invece, ha dato rilievo, ai fini del corretto inquadramento della fattispecie, ad aspetti legati al messaggio in sé, con ciò riconoscendo ampia libertà nelle modalità con le quali esprimere un’opinione, senza violenza fisica. Sul punto, infatti, la Corte di Strasburgo ha precisato che l’atto era inquadrabile come espressione di dissenso e di critica politica, necessario ad attirare l’attenzione dei media, rilevando, altresì, che la tecnica utilizzata non è andata «al di là del ricorso a un certo grado di provocazione», permesso nell’esercizio della libertà di espressione in caso di diffusione di un messaggio critico nel dibattito politico. La circostanza che i ricorrenti abbiano bruciato la fotografia dei reali è stata solo un modo per esprimere l’insoddisfazione e la protesta, necessaria anche a garantire il pluralismo. D’altra parte, ci sembra evidente che l’atto in sé non aveva alcuna manifestazione di violenza nei confronti di persone o cose, trattandosi unicamente di un gesto simbolico, privo di conseguenze sui destinatari del messaggio[12]. Inoltre, non erano indicati simboli del passato che potessero richiamare la commissione di crimini contro l’umanità, situazione che, invece, porta la Corte a ritenere che la diffusione di un’immagine sia hate speech, come avvenuto di recente con la decisione del 13 marzo 2018 nel caso Nix c. Germania (ricorso n. 35285/16), con la quale la Corte europea ha stabilito la non violazione della Convenzione da parte dello Stato in causa i cui giudici avevano condannato un blogger per la diffusione di immagini di gerarchi e simboli nazisti, pur in assenza di un incitamento alla violenza, con ciò giustificando le norme interne che reprimono la diffusione di immagini e simboli relativi a organizzazioni incostituzionali, in particolare nel caso di simboli nazisti, che richiamano la commissione di crimini di guerra e contro l’umanità.
Pertanto, appare evidente che proprio la circostanza che la Corte, nel caso Stern Taulats, abbia deciso in senso opposto rispetto allo Stato in causa, non ritenendo che l’atto di bruciare la fotografia dei reali potesse essere inquadrato nell’ambito dell’hate speech, conferma la necessità di circoscrivere l’applicazione dei limiti alla libertà di espressione in un dibattito politico a casi davvero eccezionali. Già in precedenza, d’altra parte, la Corte ha affermato che l’applicazione dell’articolo 17 è possibile solo se è “del tutto chiaro” che quanto dichiarato a titolo di libertà di espressione sia manifestamente contrario ai valori convenzionali[13].
Per quanto riguarda l’ulteriore profilo indicato in precedenza, ossia la valutazione delle conseguenze, sul punto è condivisibile la posizione della Corte europea: l’atto in sé non ha portato a manifestazioni di discriminazione o intolleranza nei confronti di gruppi o individui e, certo, ad accogliere la posizione del Governo in causa secondo il quale la classificazione dell’atto tra quelli di hate speech era dovuta al fatto che aveva «…donné lieu à des agissements violents», ossia a proteste successive dovute all’imputazione dei due ricorrenti, si arriverebbe a un’applicazione del tutto contraria a quella affermata in modo costante dalla Corte europea perché si provocherebbe un allargamento del perimetro di applicazione delle eccezioni e del principio dell’abuso del diritto rispetto invece alla libertà di espressione. Pertanto, la Corte non ha dato rilievo agli incidenti (diremmo non di particolare gravità) che, per di più, si erano verificati dopo qualche giorno ed erano stati provocati più dalla repressione penale che dalla manifestazione dei due ricorrenti. A ciò si aggiunga che manifestare in modo aspro un proprio pensiero politico, anche bruciando una fotografia, non ha un collegamento diretto o indiretto con l’incitamento ad atti di violenza, ma costituisce solo un modo per esprimere la propria insoddisfazione e protesta e, quindi, non può essere classificato come un atto manifestamente contrario ai valori convenzionali. Va ricordato che già in passato, sempre con riferimento alla Spagna, la Corte aveva valutato un caso di offesa al re e hate speech. Anche in quell’occasione, con la sentenza del 15 marzo 2011, Otegi Mondragon c. Spagna (ricorso n. 2034/07), la Corte, rispetto alla condanna penale del portavoce del gruppo parlamentare dei separatisti baschi che aveva indicato il re di Spagna come colui che aveva imposto il regime monarchico con violenza, aveva ritenuto violato l’articolo 10 perché, anche se il linguaggio era provocatorio e ostile, non vi era stato incitamento alla violenza o espressioni lesive della dignità umana e, quindi, non era configurabile l’hate speech.
Esclusa la possibilità di applicare l’articolo 17, la Corte ha così effettuato una valutazione sulla proporzionalità della sanzione, test dal quale prescinde se si configura un caso di hate speech, ma non allorquando si tratta di testare l’ingerenza nella libertà di espressione in base alle limitazioni indicate al paragrafo 2 dell’articolo 10 della Convenzione e ha ritenuto la sanzione prevista ossia la pena del carcere sproporzionata nel contesto di un dibattito politico.
[1] Tra la numerosa bibliografia si vedano, tra gli altri, B. Hale, Political speech and political equality, in Freedom of Expression, Essays in honour of Nicolas Bratza, Oisterwijk, 2012, 177 ss.; M. Oetheimer – A. Cardone, Articolo 10, in Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole – P. De Sena – V. Zagrebelsky, Padova, 2012, 397 ss.; M. Verpeaux, Freedom of expression, Strasbourg, 2010, 159 ss.; P. Caretti, Art. 10, Libertà di espressione, in Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole – B. Conforti – G. Raimondi, Padova, 2001, 337 ss.; M. Oetheimer, L’harmonisation de la liberté d’expression en Europe, Paris, 2001.
[2] In tale direzione la sentenza del 21 giugno 2012, Schweizerische Radio-und Fernsehgesellschaft SRG c. Svizzera, ricorso n. 34124/06.
[3] Si vedano le sentenze Wingrove c. Regno Unito, ricorso n. 17419/90, (25 novembre 1996), Sürek c. Turchia (n. 1), ricorso n. 26682/95 (8 luglio 1999) e Nilsen e Johnsen c. Norvegia, ricorso n. 23118/93 (25 novembre 1999). Cfr. A. Lester, The right to offend, in Freedom of Expression, cit., 297 ss.
[4] Così il par. 74. La vicenda aveva al centro la decisione del Governo nigeriano di sospendere l’attività di alcuni giornali che erano stati critici verso il Presidente (il provvedimento è nel sito http://caselaw.ihrda.org/doc/105.93-128.94-130.94-152.96/view/). Va ricordato che con il Protocollo di Ouagadougou (Burkina Faso), in vigore dal 25 gennaio 2004, è stata istituita la Corte africana.
[5] Il Comitato, nel provvedimento indicato, ha accolto il ricorso presentato da un giornalista che aveva pubblicato un articolo critico nei confronti di un uomo politico accusandolo di aver dato supporto a Slobodan Milošević (CCPR/C/85/D/1180/2003, comunicazione n. 1180/2003, reperibile nel sito http://www.bayefsky.com/pdf/serbia_t5_iccpr_1180_2003.pdf).
[6] Il testo è nel sito http://www.coe.int.
[7] Cfr., tra le tante, la sentenza del 25 giugno 2002, Colombani e altri c. Francia, ricorso n. 51279/99, con la quale la Corte ha ritenuto che la norma francese sulla libertà di stampa, che attribuisce uno status speciale ai capi di Stato esteri accordando loro una protezione assoluta, è incompatibile con la Convenzione. Va ricordato che con legge Perben II del 9 marzo 2004, relativa in generale alla lotta alla criminalità organizzata, è stato modificato l’articolo 36 della legge sulla stampa del 29 luglio 1881 proprio a seguito della sentenza Colombani, con la soppressione della reclusione nei casi di offesa a capi di Stato esteri. Si veda M. Castellaneta, La libertà di stampa nel diritto internazionale e europeo, Bari, 2012.
[8] Nella sentenza Mamère c. Francia (ricorso n. 12697/03), del 7 novembre 20016, la Corte europea ha sottolineato che in relazione a questioni di interesse generale e nell’ambito di un dibattito pubblico «a degree of immoderation is allowed» (par. 25).
[9] Si veda, per un esame completo della giurisprudenza della Corte, il documento dello Steering Committee for Human Rights, CDDH(2017)R87, add. III, 13 luglio 2017.
[10] Cfr. M. E. Villiger, Article 17 ECHR and freedom of speech in Strasbourg pratice, in Freedom of Expression, cit., 321 ss.
[11] Cfr. G. Pitruzzella – O. Pollicino – S. Quintarelli, Parole e potere. Libertà d’espressione, hate speech e fake news, Milano, 2017; M. Castellaneta, L’hate speech: da limite alla libertà di espressione a crimine contro l’umanità, in Diritti individuali e giustizia internazionale, Liber Fausto Pocar, a cura di G. Venturini – S. Bariatti, Milano, 2009, 157 ss.; I. Hare, Extreme Speech Under International and Regional Human Rights Standards, in Extreme Speech and Democracy, a cura di I. Hare – J. Weinstein, Oxford, 2009, 62 ss.; A. Weber, Manual on hate speech, Strasbourg, 2009.
[12] Sulle limitazioni giustificate dalla necessità di impedire l’incitamento alla violenza, si veda G. Bonello, Freedom of expression and incitement to violence, in Freedom of Expression, cit., 349 ss.
[13] Si veda la decisione Belkacem c. Belgio (ricorso n. 34367/14) del 20 luglio 2017 con la quale la Corte ha dichiarato il ricorso irricevibile ritenendo giustificata la condanna di un cittadino belga, portavoce dell’organizzazione radicale salafita “Sharia4Belgium”, poi dissolta, condannato dai giudici nazionali per aver diffuso su “YouTube” un video in cui inveiva contro alcuni politici e invitava alla jihad. Cfr. M. Castellaneta, La Corte europea dei diritti umani e l’applicazione del principio dell’abuso del diritto nei casi di hate speech, in DUDI, 2017, 745 ss.
Sulla necessità dell’assoluta chiarezza dell’hate speech si veda la sentenza del 17 dicembre 2013, Perincek c. Svizzera, n. 27510/08, par. 114, confermata dalla Grande Camera con sentenza del 15 ottobre 2015.