«Lucky are the people of Yugoslavia and Somalia as the world’s eyes rest on them. Condemned are the people of Juba for the world is denied access to the town and even does not seem to care anyway. It may be a blessing to die in front of a camera – then at least the world will get to know about it. But it is painful to die or be killed without anybody knowing it».
From a handwritten letter smuggled out of the besieged southern Sudanese town of Juba, August 1992
Yemen, Sud Sudan, Repubblica Centraficana, Iraq, Afganistan ed in ultimo Siria, sono questi i nomi delle emergenze umanitarie ormai fuori dall’attenzione dei media, non a caso è necessario includere Afganistan ed Iraq che, nonostante le abbiano popolate in passato, oramai non sono più sulle prime pagine dei rotocalchi internazionali. In un mondo basato sull’informazione continua e non-stop, sulla quasi-religione delle news “H24” ignorare l’importanza dei media nel processo di intervento umanitario porta a tralasciare forse uno degli aspetti attualmente più importanti del panorama internazionale, la forza dell’opinione pubblica. Da tale aspetto si deve partire prima di proporre una soluzione, seppur in forma di provocazione, che sia soddisfacente; l’opinione pubblica subisce un bias cognitivo dato dall’interpretazione delle notizie, queste, specialmente nella nostra era di fake news, vengono manipolate, a volte semplicemente con sistematici tagli di informazioni, a volte con il framing, tale fenomeno infatti provoca letteralmente l’ “incorniciamento” della notizia, in modo da far sì che questa sembri, almeno agli occhi del lettore medio, completa. Il framing incoraggia, esaltando particolari elementi, una precisa interpretazione delle realtà, non sempre veritiera, in modo da manipolare la percezione stessa del concetto da mettere in risalto.
Ma una domanda sorge spontanea: per quanto riguarda l’opinione pubblica sembra indubbia l’interferenza dei media mainstream attraverso il framing, possono però questi modificare anche le policy di intervento di un intero Stato? Non è di certo questa la prima pubblicazione a parlarne (prima di me Bennett 1993; Bennett and Paletz 1994; Bloch-Elkon 2007; Jacobs and Shapiro 1996; Livingstone 1998; Page 1996; Reta 2002; Seaver 1997) e non sarà l’ultima. La risposta è controversa, se per alcuni è affermativa, principalmente attraverso la teoria del CNN Effect, che sostiene l’interferenza da parte di media come la CNN nelle policy d’intervento americane durante la guerra fredda, per altri risulta improbabile una certa pressione mediatica verso un intero Stato, vista anche la pluralità di opinioni che costituiscono il network mediatico moderno; la teoria probabilmente più accreditata è quella presentata da Bloch-Elkon[1] secondo la quale sia pubblica opinione che policy makers, quindi lo Stato, vengono influenzati dai media, ma in modi e con opinioni nettamente differenti, difatti la massa si spinge prevalentemente ad informarsi attraverso i mass media e l’informazione generalista, che tende a semplificare determinati argomenti per renderli appetibili e comprensibili a tutti, mentre i policy makers preferiscono canali secondari e/o riviste/opinioni di nicchia, più profonde ed accurate, per tentare di comprendere al meglio il problema. Il dilemma che ne risulta quindi non è solo mediatico (cioè strettamente legato ai media) ma soprattutto in informazione, se ne deduce proprio un’incertezza di fruibilità del prodotto informazione poiché non vi è ancora una regolamentazione su come trasmettere news. Ma tale richiesta com’è facilmente intuibile, infrangerebbe un notevole numero di diritti fondamentali.
Va però aperta una piccola parentesi su quest’ultima analisi, poiché altrettanto accreditabile è una seconda teoria[2], elaborata dal Professor Piers Robinson, egli sostiene che le scelte di policy degli Stati vengano principalmente condizionate dai Media nei casi in cui i primi siano ancora incerti sulle politiche da applicare o impreparati sull’intervento da compiere.
Nel Diritto Internazionale l’importanza dei media viene compresa già nel 1978 nella «Declaration on Fundamental Principles concerning the Contribution of the Mass Media to Strengthening Peace and International Understanding, to the Promotion of Human Rights and to Countering Racialism, apartheid and incitement to war» in cui sin dal primo articolo viene portato in risalto il ruolo duale dei media nel diffondere la pace e degli Stati nel difendere la libertà di opinione, espressione ed informazione, punto focale è però il c. 2 dell’art. 3, che recita:
«2. In countering aggressive war, racialism, apartheid and other violations of human rights which are inter alia spawned by prejudice and ignorance, the mass media, by disseminating information on the aims, aspirations, cultures and needs of all peoples, contribute to eliminate ignorance and misunderstanding between peoples, to make nationals of a country sensitive to the needs and desires of others, to ensure the respect of the rights and dignity of all nations, all peoples and all individuals without distinction of race, sex, language, religion or nationality and to draw attention to the great evils which afflict humanity, such as poverty, malnutrition and diseases, thereby promoting the formulation by States of the policies best able to promote the reduction of international tension and the peaceful and equitable settlement of international disputes».
Ribadendo l’importanza nei media nel educare le persone ed eliminare l’ignoranza, ma tale documento rimane una “declaration”, e come sappiamo il Diritto Internazionale vive continuamente sul confine del non-enforcement/non-binding, resta di fatto però che per definizione le multinazionali, insieme a Stati, organizzazioni non governative, organizzazioni internazionali ed individui sono tra le personalità riconosciute del diritto internazionale e tra queste vanno riconosciute le grandi corporations di media e news che devono quindi sottostarvi almeno eticamente e moralmente. Negli ultimi 70 anni però il contributo dei media nella visione popolare degli argomenti di Diritto Internazionale è stato fondamentale, partendo dalla sopracitata Guerra Fredda con il CNN Effect, il Biafra, crisi identificata proprio grazie ad un intervento della BBC all’epoca, ed ancora più chiaramente il Vietnam, dove foto e reportage hanno creato anche il primo grande esempio di foto che rappresenta un’epoca, il famoso scatto della bambina nuda che fugge dal napalm.
Esempio madre e che merita attenzione è l’emergenza umanitaria scaturita dallo tsunami in Thailandia del 2004, difatti è interessante analizzare come tale crisi abbia raggiunto nuovi record di raccolta fondi grazie a piccoli particolari, come i primi video diffusi sui social da parte delle vittime della tragedia, le foto circolate su Twitter raffiguranti bambini e l’alto numero di turisti in vacanza che ha attirato un’attenzione senza precedenti da parte dell’occidente del mondo, forse solo eguagliabile dalla crisi Jugoslava degli anni 90, che ha ottenuto un’enorme attenzione mediatica grazie al suo sapore prettamente europeo, sapore ormai dimenticato da anni e sepolto con la seconda guerra mondiale. Questi due eventi però non solo hanno attirato enormi donazioni dal pubblico, ma attraverso la pressione dei Media hanno soprattutto inciso sulle policy di intervento degli Stati, nel primo caso infatti si è battuto il record storico di aiuti statali deliberati, mentre nel secondo caso l’attenzione ha prima provocato una maggiore iniezione di forze armate nel conflitto per tentare il pacekeeping spinto dall’opinione pubblica, e dopo tristemente alimentato le violenze perpetrate in particolare contro i musulmani da parte dei Serbi, che vedevano i media come una opportunità di far conoscere al mondo ciò che stavano attuando.
Decifrare la triangolazione di interessi tra opinione pubblica, media e policy dei Stati è un problema complesso che si muove su più settori di studio e come abbiamo visto si predispone a più letture ed interpretazioni, ciò che però si può notare è l’impellente bisogno, che avanza ormai da anni, di una legislazione articolata sull’argomento, per quanto sia stato affrontato sia in dottrina che in “giurisprudenza” l’Italia e l’Unione Europea, ancora non riescono a sviluppare una policy di regolamentazione, e non di regolazione, dei Media, almeno nel campo dell’Internazionale, la domanda però va posta, un argomento così delicato andrebbe regolamentato con il rischio di interferenze o andrebbe lasciato libero ed in mano all’intelligenza del singolo?
[1]Y. Bloch-Elkon, Studying the Media, Public Opinion, and Foreign Policy in International Crise, 2007, in Harvard International Journal of Press Politics, Vol. 12, issue 4.
[2] P. Robinson, The CNN effect: can the news media drive foreign policy?, in Review of International Studies, 1999, Vol. 25, 301–309.